«Il dibattito sulla disuguaglianza è esplosivo»

SDG; CDE; Sabin Bieri; Agenda 2030
Sabin Bieri studia le tematiche legate alla disuguaglianza nel mondo presso il Centro interdisciplinare per lo Sviluppo Sostenibile e l'Ambiente (CDE) dell'Università di Berna.
13.8.2018
Articolo global
L’Agenda 2030 considera il mondo come una entità. I paesi ricchi e i paesi poveri condividono la responsabilità del futuro del pianeta. Intervista con la ricercatrice Sabin Bieri del CDE dell'Università di Berna.

global: In quale misura gli attuali indici di disuguaglianza sociali ostacolano uno sviluppo sociale e ecologico sostenibile del pianeta ?

Sabin Bieri: L’analisi della disuguaglianza prende in considerazione i rapporti di forza mondiali, mentre la lotta alla povertà è possibile anche senza compromettere questi rapporti. Quando parlo di rapporti di forza, mi riferisco alle influenze politiche molto concrete. La disuguaglianza crescente è preoccupante, poiché è allo stesso tempo la causa e la conseguenza della definizione dei rapporti politici da parte di chi si trova in cima alla piramide delle ricchezze. Se vogliamo far avanzare l’Agenda 2030, è necessaria una reale partecipazione. Nelle condizioni politiche attuali, non riusciremo a attuare l’Agenda 2030.

In che modo questa disuguaglianza politica ed economica si riflette nelle istituzioni multilaterali più importanti?

Non è semplice rispondere. A mio avviso, è a livello nazionale che si lotta più efficacemente contro le disuguaglianze. Questo problema si pone anche nell’ottica dell’attuazione dell’Agenda 2030 : esiste una strategia planetaria, ma i suoi risultati saranno valutati sulla base delle misure prese dai singoli Stati ; sono innanzitutto dei governi nazionali che assumono questa responsabilità. Un’analisi approfondita degli indici di disuguaglianza nazionali mostra che la ricchezza si è fortemente spostata verso i privati. E questo vale sia per i cosiddetti paesi in via di sviluppo che per le nazioni industrializzate. Gli Stati hanno sempre meno risorse finanziarie, ciò che determina la diminuzione della loro capacità d’azione. Questa realtà è in contraddizione con la concezione dell’Agenda 2030, che coinvolge innanzitutto gli Stati e i loro governi. Nel corso degli ultimi decenni, istituzioni multilaterali come la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) o il Fondo monetario internazionale (FMI) hanno svolto un ruolo attivo, politicamente parlando, in questa evoluzione. Nel frattempo, la Banca mondiale e il FMI hanno annunciato di volersi impegnare per lottare contro le disuguaglianze sociali. Tuttavia, osservando ad esempio l’attività concreta della Banca mondiale, è inevitabile constatare che la volontà annunciata non si è trasformata in fatti.

Più concretamente, in cosa sta sbagliando la Banca mondiale?

Sostiene, è vero, di dare ormai la priorità al 40% della popolazione mondiale più svantaggiata e alla lotta alla povertà. Inoltre, essa ha cambiato le sue statistiche della povertà relativa con la povertà assoluta. Tuttavia, manca ancora un approccio sistemico. Bisognerebbe dunque considerare l’insieme della ripartizione mondiale delle ricchezze. Non è sufficiente voler togliere dalla povertà il 20 o il 40% della popolazione mondiale più bisognosa. Sarebbe invece necessario chiedersi come riuscire a ripartire in modo più equo la ricchezza a livello mondiale. Sorgono di conseguenza delle domande fastidiose, ad esempio: quale concentrazione di ricchezza è accettabile per noi, nell’emisfero nord del mondo?

Quando si parla di ricchezza del Nord, bisogna tuttavia essere coscienti che la relativa uguaglianza nella distribuzione delle ricchezze nell’Europa del dopoguerra, quindi tra gli anni 1950 e gli anni 1970, è una fase storica e geografica che rappresenta un’eccezione. Infatti, sia nelle fasi precedenti sia nel periodo successivo, le disuguaglianze sono sempre state molto marcate, tanto in Europa come nel resto del mondo. E lo sono tuttora.

Qual è il ruolo del sistema fiscale mondiale nella ridistribuzione del capitale dello Stato verso i privati?

Per quello che riguarda la fiscalità, è evidente: la storia recente mostra una chiara tendenza verso l’abbandono dei sistemi fiscali progressivi, che tassavano maggiormente i grossi capitali privati e i profitti delle aziende, a favore di modelli molto meno « ridistributivi ». Questa evoluzione ha ampiamente limitato la capacità d’azione degli Stati e creato maggiori disuguaglianze. Nel dibattito sul tema della disuguaglianza, si fa distinzione tra « pre-distribution » e « re-distribution », cioè tra la distribuzione e la redistribuzione. È facile intuire che la questione fiscale rientra nella seconda categoria. È senza dubbio uno degli strumenti politici più forti per creare una maggiore uguaglianza nelle società. Allo stesso tempo, è anche però uno degli strumenti più fragili, perché tutti i mezzi di ridistribuzione sono sistematicamente esposti al rischio di soppressione a seguito di decisioni politiche. Le misure di distribuzione, le « pre-distributional-measures » in inglese, sono a mio avviso più efficaci. Queste misure mirano fin dall’inizio a una ripartizione della ricchezza creata la più equa possibile e a non generare disuguaglianze materiali.

A cosa si riferisce concretamente?

Per esempio al salario minimo o al tetto massimo sui salari più elevati. Una formazione di qualità accessibile a tutti e il sostegno politico alla rappresentazione dei lavoratori rientrano pure in quest’ambito. Ci si rende conto che queste misure sono più stabili rispetto alle misure fiscali. Analizziamo un esempio, tratto dal contesto americano: la città di Seattle non riscuote alcuna imposta sugli utili delle aziende e tassa unicamente la proprietà fondiaria. Confrontata a un serio problema di senzatetto, per la cui presa a carico mancano i fondi pubblici necessari, Seattle ha dovuto introdurre un’imposizione fiscale alle aziende. L’aumento del numero di senzatetto è dovuto in parte a un boom economico che ha fatto esplodere i prezzi dell’immobiliare. Eppure la società Amazon ha la propria sede principale a Seattle, dove impiega 15'000 persone; una situazione che farebbe invidia a qualsiasi sindaco. Molte persone però sono state scacciate dai quartieri urbani perché non potevano più pagare gli alti affitti richiesti. Amazon ha fatto opposizione e ha minacciato di andarsene dalla città. La legge è oramai stata accettata, ma solamente perché il tasso di imposizione delle aziende è stato rivisto al ribasso. È un esempio recente di questa mentalità del « chi vince prende tutto» (the winner takes it all) che si è imposta a partire dagli anni 1980. Il dibattito sulle disuguaglianze è politicamente uno dei più sensibili. È stato possibile appurarlo anche al momento della concezione dell’Agenda 2030, il cui obiettivo n°10, dedicato alla riduzione delle disuguaglianze, è rimasto appeso a un filo fino al termine delle negoziazioni. Mentre l’obiettivo n° 8, sulla promozione di una crescita economica duratura, in parte diametralmente opposto all’obiettivo n° 10, non è mai stato contestato.

Nelle sue ricerche, lei esamina i processi di commercializzazione nel settore dell’agricoltura in Bolivia, Laos, Ruanda e Nepal. In quale misura i piccoli agricoltori della Bolivia sono toccati dai rapporti di forza mondiali?

Già l’espressione « piccoli agricoltori» è problematica: non si tratta solamente di piccoli agricoltori ma anche, in ampia misura, di lavoratori agricoli. I primi possiedono delle terre, i secondi svolgono un lavoro remunerato nel settore dell’agricoltura. Analizziamo per esempio le differenti sfaccettature della coltura della quinoa in Bolivia. Si tratta di un prodotto molto in voga da qualche anno perché risponde perfettamente all’evoluzione delle nostre abitudini alimentari. Fino al 2015 circa, il prezzo della quinoa ha raggiunto dei livelli vertiginosi sul mercato mondiale. Ma i prezzi sono in seguito crollati. Si ripete così una vecchia storia: un grande numero di agricoltori nei paesi in via di sviluppo si concentra su un prodotto destinato al mercato mondiale, aumentando così la loro dipendenza nei confronti del commercio di un prodotto determinato e dei prezzi che realizza. Al contrario, quando l’agricoltura è più orientata verso l’autosufficienza, la situazione di approvvigionamento è più stabile per la popolazione. Nel processo che abbiamo analizzato, le persone che possiedono delle terre sono i più privilegiati e i lavoratori agricoli i più vulnerabili.

In questo contesto, che legame c’è con la problematica della disuguaglianza?  

Nell’insieme dei paesi che studiamo, la questione della disuguaglianza si concentra fortemente nell’ambito della proprietà terriera (fondiaria). In linea di principio, chiunque possiede delle terre si trova in una posizione di negoziazione più privilegiata. La questione dell'accesso della popolazione alla terra e della ridistribuzione della proprietà fondiaria ricopre un ruolo fondamentale. Chi possiede un pezzetto di terra non è obbligato a lavorare in condizioni disumane, per un salario misero, in una piantagione di caffè. Ha la possibilità di scegliere tra autosufficienza e lavoro remunerato. In Laos, sull’Altipiano dei Boloven, dove ci interessiamo alla coltivazione del caffè, abbiamo constatato che un ettaro o un ettaro e mezzo di terra sono sufficienti per vivere una vita dignitosa. Le persone che hanno la possibilità di scelta, decidono di non andare a lavorare in fabbrica, ma di coltivare il proprio caffè e venderlo a degli intermediari a un prezzo abbastanza favorevole. Gli operai delle fabbriche invece lavorano come stagionali nel processo della trasformazione del caffè, perché lavorando nelle coltivazioni di riso non guadagnano abbastanza. Nel periodo delle raccolte, si vedono dunque spuntare delle capanne di fortuna nei pressi delle fabbriche. Gli operai che vi lavorano agiscono sempre per necessità: perché devono coprire le spese di un funerale, perché i bambini andranno presto a scuola o semplicemente perché hanno fame. Un vero miglioramento delle basi di sussistenza è possibile soltanto quando un membro della famiglia emigra.

L’Agenda 2030 sembra andare nella direzione dell’economia sociale di mercato. Sulla base delle sue ricerche, pensa che questo modello possa funzionare in un futuro non troppo lontano ?

Il modello dell’economia di mercato a carattere sociale dipende da un grande numero di condizioni indispensabili. Sono soprattutto necessarie delle istituzioni funzionanti. Esse in molti paesi sono assenti o molto fragili. Per onestà devo quindi rispondere che diffondere questo modello è difficile. Anche nell’emisfero nord del mondo, la fase di un’economia sociale di mercato – che ha permesso una ridistribuzione relativamente soddisfacente della prosperità – è ormai passata. Parallelamente, nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, la presentiamo sempre come modello a cui aspirare. Quello che è necessario, sono nuovi modelli di lavoro. Delle riflessioni su questo tema mancano decisamente, al Nord come al Sud. Con la digitalizzazione e la minore sicurezza dei posti di impiego, che tipo di forme di lavoro vogliamo sviluppare? Parliamo qui di rischi economici individuali molto differenti: quando qualcuno fonda un’impresa, da noi, esistono dei solidi pilastri sistemici (assicurazioni, diritto privato, ecc.) che evitano alla persona di finire in miseria qualora la sua impresa fallisca. Nell’emisfero sud, invece, quando qualcuno diventa indipendente e decide, in Laos per esempio, di non più coltivare una certa varietà di caffè, o una certa varietà di patate dolci in Ruanda, questa persona rischia letteralmente la sua vita. Anche questa è una disuguaglianza tra Nord e Sud.

In questi contesti, la sociologa Saskia Sassen non parla più di disuguaglianza ma di “espulsione”, riferendosi agli sviluppi nelle società industrializzate. La persona esclusa dal sistema non ha più alcuna struttura che potrebbe sostenerla o riportarla all’interno del sistema.

Questo contraddice uno degli slogan dell’Agenda 2030, cioè «nessuno deve essere lasciato indietro » (leave no one behind) …

Esatto. Naomi Klein parla di «sacrifice zones» nel contesto ecologico – delle zone geografiche, ecologiche o sociali sacrificate sull’altare del capitalismo finanziario che consuma ogni cosa.

Come dobbiamo agire?

Il lavoro è molto importante ed è uno dei principali meccanismi che permette di raggiungere una maggiore equità. Nel suo libro «Give a man a fish», l’antropologo James Ferguson invita a non più ragionare utilizzando le abituali categorie relative al mercato del lavoro, perché non esistono più nel senso classico del termine, o non sono mai esistite. Si tratta anche qui di modelli di reddito di base. Bisognerebbe pertanto smettere di tassare i redditi del lavoro per concentrare il sistema di imposizione fiscale sul capitale, i dati e l’energia. Le istituzioni multinazionali tornano alla ribalta con l’idea dell’imposta sul capitale, anche se negli ultimi 45 anni tutti gli sforzi politici per introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie (come la Tobin Tax) sono falliti. Se vogliamo veramente lottare contro la disuguaglianza, dovremo assolutamente interrogarci sui problemi sistemici. Ma per farlo, è necessaria la volontà politica.

Pubblicato il 4.07.2018

Su Il Corriere degli Italiani

(Traduzione : Barbara Rossi)