Lo scorso ottobre, rappresentati di alto rango del settore finanziario svizzero, gestori di fondi pensione e patrimoniali, multinazionali con sedi in Svizzera, rappresentati del governo svizzero e dell’ONU si sono riuniti per una settimana a Ginevra. L’incontro, intitolato Building Bridges, è stato organizzato con lo scopo di collocare la piazza finanziaria svizzera al centro della cosiddetta finanza sostenibile (sustainable finance).
Nessuno contesta il fatto che non si è sulla buona strada per realizzare i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile: dallo sradicare la povertà nel mondo alla lotta contro la diminuzione della biodiversità, passando dalla riduzione delle disuguaglianze. Ognuno ammette inoltre che i miliardi supplementari sono urgentemente necessari per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030. Che poi le banche, i fondi pensione e i gestori patrimoniali installati in Svizzera gestiscano somme colossali ed esercitino un’enorme influenza sui flussi finanziari mondiali attraverso i loro investimenti non ve ne è dubbio. La questione che si pone è la seguente: i flussi finanziari non dovrebbero essere gestiti in maniera tale da contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile? Ciò che sembra teoricamente logico e ragionevole risulta però estremamente complesso sul piano pratico. “Gestiamo grandi capitali e siamo interessati ad investire per la realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Ma dove sono i progetti “bancabili”?” è solo un esempio di domanda spesso posta durante la settimana Building Bridges. Malgrado tutto, il settore finanziario continua a preferire progetti a basso rischio e (potenzialmente molto) redditizi.
La domanda di veicoli finanziari sostenibili, ossia che combinano profitto ed impatto sociale-ambientale positivo, è fortemente aumentata. Questa nuova tipologia di strumento finanziario va comunque vista con occhio critico. Il rischio di greenwashing o rainbow-washing è reale, in quanto oggigiorno quasi chiunque professa di impegnarsi per la sostenibilità, nonostante non vi sia alcuna regola mondialmente riconosciuta che definisca cosa sia un investimento sostenibile. Benché UBS e Crédit Suisse parlino a gran voce di sostenibilità, le loro azioni hanno dimostrato il contrario: tra il 2016 e il 2018 UBS ha investito quasi 26 miliardi di dollari in imprese che commerciano petrolio, gas e carbone, mentre Crédit Suisse ha accordato prestiti ed obbligazioni per 845 milioni ad imprese che approfittano della deforestazione e degli incendi nella regione amazzonica.
La riduzione della povertà, delle ineguaglianze e della distruzione delle risorse naturali secondo gli obiettivi di sviluppo sostenibile, implica una particolare attenzione alle classi più povere della popolazione e alle condizioni di produzione e consumazione sostenibili. Quello che serve sono società civili forti, educazione e sanità efficaci ed accessibili a tutti, condizioni di lavoro decenti con salari equi, modi di produzione e consumazione rispettosi dell’ambiente. Tutto ciò richiede però un’economia mondiale (ri)orientata verso il bene comune ed il lungo termine: certamente non compatibile con gli attuali concetti di liquidità e profitti a corto termine del settore finanziario. A Ginevra Sergio Ermotti, direttore generale di UBS, si è espresso in termini chiari: i rendimenti finanziari restano il principale criterio di decisione per gli investimenti ed UBS critica le strategie di disinvestimento quali l’abbandono progressivo delle centrali a carbone. Daniela Stoffel, segretaria di Stato per le questioni finanziarie internazionali, ha spiegato come la Svizzera non esigerà dalle banche un impegno maggiore per lo sviluppo sostenibile attraverso regolamentazioni, ma che continuerà ad appoggiarsi sulle proprie conoscenze, quella delle banche e sul dialogo.
Agenti dell’aiuto allo sviluppo?
Nonostante pochi attori nel privato dispongono di un savoir-faire sociale o ecologico sufficiente, la finanza svizzera cerca di posizionarsi come un attore efficace nell’aiuto allo sviluppo. Tale settore vorrebbe essere sostenuto dal Governo, che a sua volta dovrebbe creare un contesto il più favorevole possibile alle imprese, minimizzando i rischi per gli investitori e sviluppando degli strumenti finanziari misti (blended finance) nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. La prova di tali intenzioni è una lettera aperta indirizzata al Consiglio federale, al Parlamento e alla FINMA (Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari) da 50 rappresentanti del settore privato e finanziario svizzero.
Ma cosa significa questa richiesta concretamente? Nei Paesi in via di sviluppo le infrastrutture, l’energia, i trasporti, l'agricoltura, ma anche i servizi pubblici quali la sanità e l’educazione, sono sempre più gestiti da imprese a scopo di lucro e commerciati su mercati finanziari internazionali sotto forma di prodotti finanziari complessi. I Paesi toccati sono inglobati in mercati finanziari mondiali nei quali non ne possiedono alcun controllo. La finanziarizzazione dello sviluppo, dunque, avanza. Una realtà che si scontra con il principio, presente negli obiettivi di sviluppo sostenibile, di non negare l’accesso a nessuno: ma i più poveri non possono appunto pagarsi l’accesso all’educazione e alla sanità. L’accesso pubblico per tutti non è, d’altro canto, redditizio per imprese e investitori.
Non sono mancate voci critiche al summit ginevrino. Peter Bakker, direttore generale del World Business Council for Sustainable Development (Consiglio mondiale delle imprese per lo sviluppo sostenibile) afferma: “L’orientamento dominante al profitto deve cedere il posto alla ricerca di senso se si vuole frenare il cambiamento climatico, la distruzione della biodiversità e le ineguaglianze sempre più marcate. Per realizzare ciò, occorre piazzare la sostenibilità al centro della finanza”. Per cambiare radicalmente paradigma servono criteri chiari ed universalmente accettati al fine di valutare le ripercussioni sociali ed ambientali delle attività delle imprese e delle loro pratiche fiscali. Una nuova forma di trasparenza dovrebbe esigere dalle banche, fondi pensione, riassicuratori ed altri gestori patrimoniali, la diffusione dei loro criteri di azione e l’impatto socio-ambientale dei loro investimenti. In sintesi, la domanda che si pone è la seguente: le imprese, le banche ed altri investitori sono pronti a collocare la sostenibilità davanti al profitto? E, secondariamente, ridurre le ineguaglianze esistenti pagando imposte più elevate (attraverso tasse sulle transazioni finanziarie ad esempio), fornendo quindi fondi per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile ? È altrettanto cruciale capire se il settore finanziario è in grado di impegnarsi da solo in questa direzione oppure se saranno necessarie direttive e regolamentazioni da parte dello Stato.
Dalla settimana mondiale della finanza sostenibile rimangono ancora domande senza risposta: la piazza finanziaria svizzera è davvero preoccupata del finanziamento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile e del conseguente cambiamento di paradigma? Non vi è piuttosto una volontà aprire nuovi mercati e creare profitto nei paesi più poveri?
Pubblicato il 16.01.2020
Su La Regione
(Traduzione Samuel Notari)