Swiss Leaks, Luxleaks, Panama Papers, Offshoreleaks, Paradise Papers – la lista dell’ondata di rivelazioni nel mondo offshore dei paradisi fiscali si allunga sempre di più… E una parte d’indignazione ricade sempre anche sulla Svizzera – una volta per via della filiale di una banca a Ginevra (Swiss Leaks), un’altra per affari poco chiari di uno studio di avvocati a Zurigo e altrove (Panama Papers) e, ultimamente, con i Paradise Papers, per via di sospetti di corruzione che pesano sul gigante delle materie prime Glencore, la cui sede è a Baar (ZG). Ma stranamente le rivelazioni risparmiano, in Svizzera, i responsabili di regole e leggi lassiste di cui le imprese messe in luce approfittano nella gestione dei loro affari torbidi in giro per il mondo: i membri del governo e del Parlamento a Berna e nei cantoni i quali fanno volentieri politica nell’interesse delle multinazionali e degli azionisti. E’ così che, questi ultimi anni, la maggioranza di destra borghese al Consiglio federale, al Consiglio nazionale e al Consiglio degli Stati ha mancato l’occasione, nonostante tutte le riforme proposte, di avviare un cambiamento di paradigma verso una piazza bancaria ed economica svizzera sostenibile dal punto di vista sociale ed ecologico:
- Si è evitata una revisione efficace del diritto penale fiscale
- La legge sul riciclaggio di denaro sporco è ancora poco vincolante su certi punti centrali
- Le disposizioni sulla trasparenza delle azioni al portatore, che avrebbero permesso di reperire i veri approfittatori dell’offshore, non hanno nessuna chance.
Quest’ultimo punto vale anche per un Country-by-Country-Reporting solido, che permetta di rintracciare la provenienza dei profitti che le multinazionali in Svizzera dichiarano al fisco talvolta a zero tasso d’imposizione. E per finire, il Consiglio federale ha rifiutato un rapporto edificante sui flussi finanziari illeciti dai paesi poveri verso la Svizzera. In questa occasione, avrebbe potuto chiarire finalmente il ruolo specifico della Svizzera nei flussi finanziari devastanti provenienti dal Sud. Da sola, l’evasione fiscale delle multinazionali fa perdere alle società del Sud 200 miliardi di dollari all’anno, secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI).
La paura di mordere di Tamedia
Tutto ciò è stato appena appena tematizzato dalla stampa svizzera, anche nel recente spettacolo dei Paradise Papers. Il caporedattore del Tages Anzeiger ha spostato all’estero la responsabilità politica delle pratiche di evasioni fiscale che il suo stesso giornale (!) aveva rivelato. Secondo l’adagio svizzero, il male viene sempre dall’esterno.
Le ricerche pubblicate dagli esperti fiscali rinomati di Oxfam International e del Tax Justice Network (TJN) sui paradisi fiscali internazionali mostrano però che bisogna essere completamente ignoranti del modello reale di affari della politica fiscale e finanziaria svizzera per pensare che dopo la mezza morte del segreto bancario la Svizzera sia diventata una povera vittima dell’offshore fra le tante.
I rapporti delle due ONG arrivano alla conclusione che il Consiglio dell’UE non prende sul serio le sue stesse critiche dei paradisi fiscali per ragioni politiche. Se lo facesse, gli Stati Uniti, Hong Kong, Singapore e la Svizzera, appunto, avrebbero dovuto essere sulla lista ufficiale dell’UE pubblicata a inizio dicembre. E’ così che la Svizzera, secondo Oxfam e TJN, adempie certo alle esigenze (abbastanza vaghe) dell’UE sulla trasparenza fiscale e la messa in opera dell’agenda BEPS dell’OCSE, ma continua ad applicare un sistema fiscale iniquo favorevole alle multinazionali. Il Consiglio dell’UE designa come iniqui i paesi che, con il loro sistema fiscale, attirano o riescono a conservare capitale che non proviene dalla creazione di valore nel paese stesso, ma dagli spostamenti di profitto dai paesi in cui le attività economiche si svolgono davvero. Se un paese genera le proprie entrate fiscali soprattutto spostando il profitto da altri paesi, avrà redditi d’interesse più elevati della media degli investimenti diretti stranieri. Sulla base dei dati del Fondo monetario internazionale (FMI), secondo gli esperti fiscali di Oxfam, la Svizzera ha un saldo d’interessi dei crediti intra-imprese di più di 12 miliardi USD all’anno. Questo è il frutto d’investimenti stranieri delle multinazionali che hanno sede in Svizzera, che hanno realizzato all’estero nella loro rete di filiali. In questa statistica, la Svizzera si piazza dietro al Lussemburgo, paese con il tasso d’imposizione delle multinazionali più basso al mondo, e praticamente allo stesso posto dei Paesi Bassi, al terzo posto.
Ciò dovrebbe avere conseguenze soprattutto per la discussione in Parlamento del Progetto fiscale 17. La proposta, che fa seguito alla Riforma dell’imposizione delle imprese III (RII III), seccamente rifiutata lo scorso febbraio dal popolo, si trova attualmente ancora in fase di consultazione. Ma è già chiaro che gli stessi regimi fiscali speciali, che sono stati uno dei motivi del rifiuto della RIE III, sono di nuovo sul tavolo con il PF 17.
L’imposta sull’utile con deduzione degli interessi è perfino sostenuta da ieri dal direttore delle finanze della Città di Zurigo, il verde Daniel Leupi. Questo non è solo discutibile dal punto di vista democratico, ma anche disastroso dal punto di vista della politica interna mondiale. Perché l’imposta sull’utile con deduzione degli interessi serve precisamente queste pratiche di spostamento del profitto delle multinazionali per le quali Oxfam e Tax Justice Network hanno messo la Svizzera su lista nera. Se il Consiglio europeo fosse coerente, dovrebbe farlo anch’esso. Ma i capi di Stato e di governo dei paesi dell’UE, come i loro colleghi in Svizzera, preferiscono proteggere gli interessi delle loro elite – alla fine, anche i Paesi Bassi, il Lussemburgo o l’Irlanda devono difendere regimi fiscali molto bassi e, nonostante Trump, non si vuole calpestare troppo i piedi degli Stati Uniti. Che ancora una volta la Svizzera non sia a Bruxelles un nano impotente in materia di politica economica, è quello che ricorda il rapporto di Oxfam con un’altra statistica: la Svizzera è, dopo gli Stati Uniti e la Cina, il terzo partner commerciale più importante dell’UE. Se la politica svizzera lo volesse, potrebbe anche dare un segnale politico a Bruxelles contro il sistema offshore, che distrugge il benessere, e la concorrenza fiscale internazionale, devastante dal punto di vista sociale.