Signor Gross, cosa ci mostrano le rivelazioni sui “Paradise Papers”?
Dominik Gross: Le pubblicazioni rilevano pratiche commerciali – che possono essere sia criminali che legali – di un sistema finanziario globale che opera nell’ombra grazie all’industria degli offshore. I casi messi in luce fino ad ora mostrano il tentativo di aziende e privati di sottrarre capitali al controllo del settore pubblico.
Quali conclusioni possiamo trarre da queste pratiche?
I “Paradise Papers” confermano per ora quanto emerso dalle precedenti fughe di notizie, come i Panama Papers o gli Offshore Leaks: le persone che provvedono al proprio sostentamento con il lavoro pagano le tasse, finanziando così le scuole, gli ospedali e le infrastrutture pubbliche. Le persone che hanno redditi elevati o che vivono di rendita e le multinazionali pagano poche o zero imposte, mettendo in pericolo il senso statale della collettività e ostacolando uno sviluppo sostenibile del mondo.
Quale ruolo ha la Svizzera in questa fuga di dati?
Ancora una volta è chiaro che la Svizzera, grazie alla bassa imposizione fiscale delle grandi ditte, le normative comparativamente meno incisive contro l’evasione fiscale, il riciclaggio di denaro o la corruzione, è molto attrattiva per un certo tipo di aziende: imprese che si muovono ai margini della legalità e non sono pronte a contribuire al benessere collettivo attraverso l’imposizione fiscale dei propri guadagni.
E questo è legale?
In Svizzera questo modello di business parassitario – in cui il nostro Paese si trova – che consiste nel prendere soldi che dovrebbero andare a beneficio di altri, è spesso trattato solo come un rischio di reputazione per la piazza finanziaria.
Perché considera questo principio sbagliato?
Dà l'impressione che siano le forze politiche a mantenere in vita questo modello di business, in pratica involontariamente – e lo stesso si dica delle aziende che da esso traggono beneficio. Questo è sbagliato. Le condizioni quadro a livello politico e le pratiche commerciali delle imprese che ne derivano, si basano sulle decisioni consapevoli prese da individui. La stragrande maggioranza sa esattamente cosa sta facendo: per loro, la corruzione, il riciclaggio di denaro e l'evasione fiscale fanno semplicemente parte del business. E fintantoché la politica non glielo impedirà, rimarrà così.
Secondo le indagini effettuate, in almeno due casi la Svizzera ha avuto un ruolo decisivo: nel caso del gigante delle materie prime Glencore in Congo, come pure negli intrecci aziendali dell’uomo d’affari angolano-svizzero Jean-Claude Bastos. Cosa collega questi casi?
Dal punto di vista del movimento internazionale di giustizia fiscale, in entrambi i casi si tratta di una ridistribuzione di soldi: dalla collettività al settore privato.
Può spiegarlo concretamente?
Nel caso di Glencore, il denaro pubblico congolese è stato sottratto pagando le licenze minerarie molto meno del dovuto: la differenza è stata versata come tangente ai politici. Nel caso dell’Angola Connection, il clan politico che dirige il Paese ha sfruttato parte dei beni pubblici che si trovano su di un fondo pubblico per scopi privati, riuscendo a pagare le imposte dove il tasso di imposizione è il più basso: nel Canton Zugo. Anche in questo caso soldi pubblici sono stati trasferiti ai privati, come nel caso del gestore di fondi svizzero Jean-Claude Bastos o di José Filomeno dos Santos, figlio del pluriennale presidente angolano.
Il modello si ripete: i soldi viaggiano dal sud globalizzato verso il nord, in Svizzera.
La situazione è più complessa. Non si tratta semplicemente dei “cattivi bianchi” che sfruttano i “poveri neri”. La realtà è che ci sono ovunque persone che possono sfruttare la forza dei propri capitali o il potere politico per sottrarre i soldi al fisco. L’evasione fiscale bisogna innanzitutto potersela permettere.
Suona cinico.
In quasi tutte le società ci sono pochi individui che approfittano e tanti altri che vengono penalizzati. La differenza tra la Svizzera e l’Angola è però che l’economia svizzera approfitta di queste pratiche, mentre l’Angola ne viene danneggiata.
La comunità come può lottare contro l’evasione fiscale?
Fondamentalmente, come dicono il premio Nobel Joseph Stiglitz e l’avvocato penalista svizzero Mark Pieth: “Finché nel mondo globalizzato ci saranno da qualche parte dei portafogli segreti, i soldi scorreranno verso quei portafogli”. Lo scopo deve quindi essere quello di eliminare tutti i paradisi fiscali.
Come dovrebbe funzionare?
Purtroppo le istituzioni ONU che si occupano di questi temi sono state finora molto deboli, e i paesi del Sud non hanno nessuna influenza nell’OCSE e nel G20, che sono determinanti per le politiche fiscali a livello internazionale.
Una via solitaria da parte della Svizzera, considerata la situazione, non porterà a nulla.
Una via solitaria no. Ma la Svizzera è la maggior piazza finanziaria mondiale per le aziende offshore e rappresenta un territorio con vantaggi fiscali enormi per le grandi aziende, soprattutto nell’obbligatorietà. In nessun altro posto sono gestiti così tanti fondi di clienti stranieri come qui.
Cosa propone?
Nelle organizzazioni internazionali come l’OCSE, la Svizzera fa lobby e si impegna per regolamentazioni più lassiste. Al contrario, potrebbe invece posizionarsi per regole più rigide e per la maggior trasparenza possibile nelle questioni fiscali. Quale più grande piazza finanziaria offshore, questo sarebbe un segnale forte per un cambiamento di paradigma a livello globale. Aspettare che altri facciano il primo passo non è una legge naturale: nel caso di altri progetti internazionali, come la riforma di Bologna per le Università, o gli accordi di libero scambio con la Cina, la Svizzera ha anticipato gli altri Paesi di molti anni.
Quali riforme possono contribuire a lottare contro i paradisi fiscali?
Fondamentalmente ci vuole trasparenza nel sistema offshore, in modo che si possa promuovere una discussione politica. Considerando le somme che sfuggono al pubblico, si capisce come l’evasione fiscale da parte delle imprese sia il principale problema. In questo settore le riforme sarebbero efficaci. L’evasione avviene soprattutto attraverso scambi commerciali tra società appartenenti allo stesso gruppo. Queste aziende controllano circa il 70-80% del commercio mondiale. La manipolazione avviene sui prezzi di scambio.
Questo è troppo complesso, può semplificarlo?
Funziona così: due società in Paesi diversi appartengono allo stesso gruppo. Una vende all’altra una prestazione di servizio. Nel caso di aziende indipendenti il prezzo sarebbe determinato dal mercato. Appartenendo allo stesso gruppo, i manager hanno mano libera per fissare il prezzo delle prestazioni, benché sarebbero tenuti a orientarsi sui prezzi di mercato. In molti settori il libero mercato però non funziona, perché il commercio interaziendale è dominante.
E come contribuisce questo all’evasione fiscale?
Se una filiale, per esempio in un Paese africano dove il profitto è effettivamente generato, compra a sovraprezzo una prestazione alla casa madre in un Paese con bassa imposizione fiscale come la Svizzera. Così il gruppo ha spostato il guadagno e risparmia milioni di imposte, che altrimenti avrebbe beneficiato la popolazione del Paese africano.
Secondo il Tages-Anzeiger, attraverso un complesso sistema internazionale di aziende la Nike in Svizzera con un utile di 1.3 milioni paga solo 360'000 CHF di imposte. Nel contempo, secondo gli esperti, l’azienda di articoli sportivi vende in Svizzera prodotti per un valore di oltre 100 milioni. Anche la Svizzera è vittima di evasione fiscale?
Si. Anche se l’economia svizzera può essere vista come un territorio di bassa imposizione fiscale e approfitta dell’evasione fiscale e del commercio offshore, il suo sistema fiscale può essere vittima di questo disastroso sistema fiscale internazionale di evasione.
Di chi è la colpa?
Principalmente della politica svizzera: non applica le misure proposte dall’OCSE contro l’evasione, che Nike sfrutta. La maggioranza dei politici svizzeri considera che applicare in maniera limitata gli standard minimi sia un beneficio per le nostre aziende, e quindi per il Paese. Perciò la Svizzera indebolisce le regole internazionali, alle volte anche a proprio svantaggio. Fondamentalmente la regola è: se un gruppo aziendale o un milionario sfrutta le scappatoie fiscali – indipendentemente che sia svizzero, olandese o angolano – crea un danno.
Cosa si può fare?
Le ONG propongono già da circa 15 anni l’introduzione del cosiddetto Country-by-Country-Reporting (CBCR). Le aziende sarebbero obbligate a rendere pubbliche le principali informazioni contabili di tutti i Paesi in cui operano. In questo modo sarebbe facile capire se il gruppo paga le imposte dove genera i propri guadagni, oppure in Paesi con imposizioni fiscali più basse.
E questa idea ottiene consensi?
L’OCSE in realtà ha adottato l’idea. Nell’ambito del suo progetto di lotta all’evasione fiscale delle multinazionali, il Country-by-Country-Reporting (CBCR) è presentato come uno standard internazionale. Anche la Svizzera introdurrà il CBCR dal prossimo anno. Anche se le regole dell’OCSE appaiono già fortemente indebolite rispetto alle proposte del movimento per un’equità fiscale. La Svizzera applica solo il minimo del minimo dello standard OCSE.
Perché le regole dell’OCSE non vi sembrano abbastanza?
Noi ONG vogliamo che i rapporti del Country-by-Country-Reporting (CBCR) debbano essere resi pubblici. L’OCSE vuole invece che siano soltanto scambiati tra le autorità fiscali dei diversi Paesi. In questo modo si crea una forte diseguaglianza, visto che la maggioranza delle sedi dei gruppi multinazionali si trova nei Paesi del nord membri dell’OCSE, e non in Africa o in America Latina.
E questo significa?
I Paesi in questione restano dipendenti dalla volontà dei Paesi dell’OCSE di fornire i dati sulle aziende multinazionali. Il fatto che i rapporti del CBCR non sono resi pubblici danneggia la società civile dei Paesi poveri, che non ha la possibilità di ottenere trasparenza e capire quali utili sono generati nel proprio Paese da queste aziende. Le autorità fiscali e i governi spesso non lavorano nell’interesse di tutta la popolazione.
Dopo i Paradise Paper, i partiti di sinistra e le ONG hanno proposto quale soluzione l’iniziativa multinazionali responsabili. Nel recente passato, proposte simili come l’iniziativa contro la speculazione sulle derrate alimentari sono state bocciate. Perché adesso dovrebbe andare diversamente?
Le proposte progressiste che affrontano temi generali, e che a primo acchito non rappresentano vantaggi diretti per l’individuo, incontrano spesso difficoltà alle urne. Tuttavia, oggi si muovono molte cose. Ci sono segnali che mi rendono ottimista. La Svizzera cambia e anche la piazza finanziaria. Con lo scambio automatico delle informazioni si è ottenuto l’annullamento quasi completo del segreto bancario, dopo anni in cui era considerato sacrosanto. E in febbraio il popolo ha rifiutato la Riforma fiscale III delle imprese troppo favorevole alle aziende, benché le associazioni economiche, il Consiglio Federale e il Parlamento la sostenessero.
È ottimista.
Si, qualche cosa si muove. Anche Alliance Sud ha partecipato alla raccolta di firme per l’iniziativa multinazionali responsabili. Molte persone interpellate hanno capito immediatamente il problema e hanno firmato senza esitazione.
Intervista originale in tedesco: Christoph Bernet (watson)
(traduzione: Marcello Martinoni)