Sahel

“È meglio rimanere impegnati”

25.03.2025, Cooperazione internazionale

Ibrahim Maïga è esperto di Sahel presso l’International Crisis Group. Gli abbiamo chiesto cosa implicano i recenti colpi di Stato in Mali, Burkina Faso e Niger per la democrazia nella regione del Sahel e per la cooperazione allo sviluppo della Svizzera.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

“È meglio rimanere impegnati”

Lavori di protezione sulla Grande moschea di Djenné, Mali.

© Keystone / AP / Moustapha Diallo

 

Perché sono ripresi i colpi di Stato nel Sahel?

I militari sono tornati al potere nei tre Paesi già teatro di sconvolgimenti tra il 2010 e il 2014: Mali, Burkina Faso e Niger. A differenza di altri Paesi africani, che sono stati risparmiati da disordini politici a partire dagli anni ’90, questi eventi non risalgono a un passato così lontano. Inoltre, considerando le condizioni sul fronte della sicurezza e della politica, il terreno era fertile per l’intervento dei militari in veste di salvatori. La situazione in Mali e Burkina Faso si è costantemente deteriorata negli ultimi dieci anni, nonostante la presenza di un ampio dispositivo di stabilizzazione internazionale composto da truppe ONU, operazioni militari francesi e missioni di formazione dell’Unione Europea. Ciò ha portato a una duplice disillusione. Da un lato, quella delle forze armate nei confronti degli attori politici, poiché gli ingenti investimenti accordati dai regimi civili per migliorare le capacità delle forze di sicurezza non sono bastati per contenere l’insicurezza. Dall’altro lato, la disillusione della popolazione nei confronti delle élite al potere, percepite come corrotte dopo la rivelazione di diversi casi di malversazione, in un contesto caratterizzato da condizioni socio-economiche difficili.

Considerando l’importante movimento di democratizzazione che ha vissuto l’Africa occidentale all’inizio degli anni ’90, non sorprende il sostegno della popolazione a questi regimi militari?

In effetti, il contrasto tra l’euforia democratica di trent’anni fa e il sostegno della popolazione all’esercito di oggi è sorprendente. Si spiega con il fatto che il modello democratico emerso all’inizio degli anni ’90 in seguito alle conferenze nazionali sovrane annaspa. Il regime che combina libertà politica e sviluppo economico non ha dato risultati. Certo, il Mali degli anni ’90 non è paragonabile al Paese di oggi, ma i progressi sono stati insufficienti. 

 

Ibrahim Maïga in einem hellblau-karierten Hemd mit dunkelblauem Sakko vor schwarzem Hintergrund.

Ibrahim Maïga

Ibrahim Maïga attualmente è il consulente principale per il Sahel presso l’International Crisis Group. In precedenza, è stato rappresentante regionale per il Sahel presso l’Istituto olandese per la democrazia multipartitica. Inoltre, ha ricoperto il ruolo di Consigliere speciale del Primo Ministro del Mali, nel quale era responsabile delle questioni inerenti alla sicurezza, alla governance e alle riforme politiche.

 

Siamo di fronte al fallimento del sistema liberale, sia dal punto di vista politico sia economico?

Sicuramente assistiamo al fallimento di un modello di governo basato sulla democrazia formale con costituzioni proclamatorie. La gestione degli affari pubblici non è stata sempre democratica e lo Stato di diritto si sta estinguendo. In questa parte dell’Africa, ci si è concentrati sulla costruzione di democrazie elettorali, a volte a scapito del consolidamento di un vero Stato di diritto. Tutto ciò solleva interrogativi sullo status democratico di questi Paesi, in particolare del Mali, che era il manifesto della democrazia in Africa occidentale (insieme a Senegal e Ghana) fino alla sua caduta nel 2012 (primo colpo di Stato). 

 

Non credo che la popolazione rifiuti totalmente il modello democratico: nei dibattiti e nelle interviste si torna sempre su questo punto.

Significa che la popolazione non crede più nella democrazia?

Non credo che rifiuti totalmente il modello democratico: nei dibattiti e nelle interviste si torna sempre su questo punto. Ma il modo in cui si fa democrazia, con un partito al potere che abusa dei fondi pubblici, non è più accettato. Invece, alla maggioranza delle persone sta a cuore il principio della libertà di espressione e di scelta sovrana del popolo. Questo spiega perché, nonostante l’attuale fase di transizione, la costituzione adottata in Mali nel 2023 sancisce la democrazia come modello di acquisizione e gestione del potere.

Eppure le elezioni sono state rinviate a tempo indeterminato...

Assolutamente. Mancano trasparenza e chiarezza riguardo alle tempistiche di queste transizioni, tranne forse in Burkina Faso dove il periodo di transizione dovrebbe terminare nel 2027. Tra il 2000 e il 2020, i colpi di Stato in questi Paesi sono stati seguiti da transizioni democratiche di breve durata. In Mali si è trattato di 16 mesi, in Burkina Faso di 14 mesi e in Niger di 15 mesi. Oggi, queste transizioni pretendono di essere “transizioni di riforma”: mirano a riesaminare l’intera governance e la gestione “democratica” del Paese per identificare cosa ha funzionato e cosa no. Non è un esercizio inutile, ma i regimi potrebbero finire disorientati, con tutte le potenziali insidie che una permanenza prolungata al potere può comportare.

Le popolazioni sostengono queste transizioni?

In linea di principio, sì, sono entusiaste perché c’è una vera e propria voglia di cambiamento. Nel 2020 ho partecipato alle consultazioni nazionali in Mali e i dibattiti erano vivaci, c’era un reale desiderio di affrontare le cause del problema. Si era convinti del fatto che un’autorità di transizione, libera da certi vincoli politici e limitata nel tempo, potesse intraprendere riforme, a differenza di un governo eletto che rischia di farsi influenzare dalle agende a volte contraddittorie e a breve termine dei suoi deputati. Nella pratica, si è rivelato tutto più difficile e complesso.

Ci si aspettava che l’esercito rafforzasse la sicurezza, ma sembra che la situazione stia peggiorando.

È migliorata in alcuni punti e peggiorata in altri. Il numero di incidenti è aumentato anche in seguito al moltiplicarsi delle operazioni delle forze armate. Ora dispongono di attrezzature moderne che prima non avevano, grazie anche ai partenariati con Russia, Cina e Turchia, quest’ultima fornitrice esclusiva di droni. Tali partenariati sembrano soddisfare una buona parte degli ufficiali e i regimi al potere, poiché le consegne non sono soggette a condizioni specifiche in termini di governance e diritti umani. Ne risultano eserciti meglio equipaggiati e più efficienti, ma ciò comporta anche un’altra realtà: l’aumento della violenza contro i civili e un rischio più elevato che vi siano vittime collaterali a causa del ricorso ai droni.

L’aumento dei bilanci per l’esercito e i tagli alla cooperazione nei Paesi del Nord non stanno forse portando a un declino dello sviluppo?

I regimi militari hanno creato enormi aspettative nei confronti dello Stato, aspettative che in alcuni luoghi erano scomparse. Sono alimentate da un discorso sovranista che enfatizza il ruolo primario dello Stato nella costruzione di strade, di infrastrutture e nella fornitura di energia. Questo discorso tende a far credere che gli Stati siano in grado di affrontare da soli tali esigenze, nonostante abbiano meno risorse a causa della situazione politica e dei tagli alla cooperazione allo sviluppo da parte dei Paesi del Nord e delle istituzioni finanziarie internazionali. Ma la realtà è un’altra. In Mali, ad esempio, l’elettricità rappresenta una sfida enorme da due anni a questa parte. Le interruzioni di corrente sono all’ordine del giorno e senza energia l’economia non avanza. Il potenziamento della sicurezza ha fatto sì che venissero relegate in un cassetto alcune sfide nell’ambito dell’istruzione, della salute e persino dell’economia.  

Un Paese piccolo come la Svizzera ha ancora un ruolo da svolgere nella cooperazione allo sviluppo?

La Svizzera è un Paese piccolo, ma vanta una tradizione piuttosto lunga di sostegno alle iniziative locali. Gode ancora di buona reputazione, il che non si può dire di altri Paesi il cui modello di cooperazione è messo in discussione. Questa buona reputazione e la storia della cooperazione svizzera allo sviluppo permettono di promuovere progetti di accesso all’acqua e all’energia e di sostenere il buon governo e la decentralizzazione, che hanno un impatto diretto sulla vita della popolazione. Anche i suoi legami con attori diversi dallo Stato (organizzazioni della società civile, organizzazioni che promuovono i giovani e le donne) sono un vantaggio, anche se non sono specifici della Svizzera. Tutto ciò legittima la sua presenza nella regione.

Tuttavia, come tutti gli attori, la Svizzera si trova di fronte a un cambiamento piuttosto significativo: siamo passati da una regione con un importante dispositivo internazionale di stabilizzazione – una forte presenza dell’ONU, dell’Unione Africana e di altri partner, in particolare la Francia – a un ambiente in cui gli Stati sono tornati a essere leader. All’inizio si pensava di poterli evitare e di lavorare solo con le organizzazioni della società civile e le organizzazioni non governative, invece restano impossibili da aggirare. Hanno ripreso le redini.

I donatori occidentali come la Svizzera hanno un ruolo da svolgere in questa narrazione e devono continuare a sostenere lo sviluppo.

Significa che i donatori stranieri devono lavorare con dei regimi non democratici?

È un dilemma delicato. Comunque la situazione non migliorerà senza Stati efficaci. Sono già state avviate collaborazioni con i regimi militari, sebbene su scala ridotta e su questioni tecniche. La domanda piuttosto è fino a che punto debba spingersi la collaborazione. I donatori occidentali come la Svizzera hanno un ruolo da svolgere in questa narrazione e devono continuare a sostenere lo sviluppo. È meglio rimanere impegnati e cogliere le opportunità e le occasioni che si presentano. Forse stiamo assistendo a un passaggio da una politica estera piuttosto difficile a una realpolitik in cui i regimi si rendono conto di aver bisogno di Paesi come la Svizzera, con una lunga tradizione nel superare sfide che non hanno a che fare con la sicurezza. Occorre giocare la carta del lungo termine e restare vicini alle popolazioni, perché la loro memoria è più lunga di quella delle istituzioni. Tanto più che il mancato impegno ha anche un costo: quello di essere spodestati da concorrenti strategici.

Come vede le relazioni con Cina, Turchia e Russia nel lungo periodo?

Si parla di nuovi alleati, ma in realtà non sono poi così nuovi. Questi Paesi hanno relazioni di lunga data con il Sahel; l’Unione Sovietica, ad esempio, fin dalle indipendenze. Anche la Cina, considerato il suo interesse per le terre rare o i suoi investimenti nel petrolio in Niger e nello zucchero in Mali, ha un interesse che non diminuirà. La Turchia ha nuove ambizioni che non si limitano alla vendita di droni alle forze armate. A Niamey il nuovo aeroporto e l’hotel Radisson sono stati costruiti dai turchi negli ultimi dieci anni. Questi progetti s’inscrivono in una prospettiva a lungo termine che probabilmente verrà portata avanti, ma per il momento i «nuovi» attori non sono impegnati negli stessi ambiti dell’Occidente, a partire dagli aiuti allo sviluppo. Si tratta prima di tutto di affari militari.

 

Intervista pubblicata da La Regione il 19 aprile 2025.

 

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La demolizione di USAID e la Svizzera

Il silenzio durante la tempesta

20.03.2025, Cooperazione internazionale

La fine dell'impegno globale degli Stati Uniti deve interessare anche la Svizzera, scrive Andreas Missbach. Le conseguenze per il multilateralismo e la cooperazione allo sviluppo, e soprattutto per i Paesi più poveri, sono devastanti. In questo contesto il Consiglio federale non può più puntare sul business as usual.

Il silenzio durante la tempesta

Il disimpegno degli Stati Uniti dalla scena internazionale ha colto alla sprovvista anche il Consiglio federale. 

© Keystone / Anthony Anex

“A parte la Rivoluzione culturale cinese, nella storia troviamo pochi paralleli all’attacco da parte del cosiddetto Department of Government Efficiency nei confronti dello Stato”, scrive il Financial Times. Dinanzi alla presa di potere negli Stati Uniti non mancano soltanto paragoni opportuni, bensì talvolta anche le parole. Potremmo provare con la cultura pop e prendere in prestito quelle di Miley Cirus: “I came in like a wrecking ball”.

Sarebbe invano tentare di tenere traccia di tutto ciò che è stato ridotto in frantumi da questa metaforica palla da demolizione, perciò ci soffermiamo su un argomento di cui si è riferito poco in Svizzera, malgrado possa avere grandi ripercussioni proprio qui: la sospensione del “Foreign Corrupt Practices Act”, la legislazione USA volta a lottare contro la corruzione. Solo grazie alla sua applicazione sappiamo cosa significano i contanti a Baar, ovvero che alla sede principale di Glencore fino al 2016 c’era uno sportello dove il personale poteva ritirare le tangenti. E solo grazie alla sua applicazione Glencore ha dovuto pagare una multa di oltre 1,1 miliardi di dollari in seguito all’ammissione di colpevolezza. Se il “new sheriff in town” non fa più uso di questa minaccia, la tentazione di tornare a pratiche collaudate nel commercio di materie prime è grande. Le conseguenze sarebbero disastrose per i Paesi più poveri e le loro popolazioni.

Se torniamo alla cultura pop, potremmo dire che in Svizzera regna “Il silenzio degli innocenti” (regia di Jonathan Demme). O meglio, dei sette innocenti. Ci sono voluti quasi due mesi prima di avere notizie da Berna: “il Consiglio federale prende sul serio la situazione geopolitica”, per poi tuttavia subito aggiungere “la politica estera elvetica non è cambiata”. Secondo i media, il Consiglio federale aveva un documento interlocutorio in cui si affrontava anche il ritiro degli Stati Uniti dall’OMS, dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e dall’Accordo sul clima di Parigi; inoltre sono stati discussi gli effetti del congelamento dei pagamenti dell’USAID. Eppure, nemmeno una parola di tutto ciò è finita nella comunicazione ufficiale. Anzi, il Consiglio federale continua sulla linea del business as usual e tenta la variante svizzera dell’arte di fare affari: “la strategia della Svizzera deve essere quella di avere le porte aperte per l’UE, gli USA e la Cina” (segretaria di stato SECO Helene Budliger Artieda).

Lo smantellamento della più grande agenzia di sviluppo del mondo costituisce un vero uragano nel Sud globale e una tempesta anche in Svizzera. Dov’è l’indignazione della politica? Vi sono progetti vitali di organizzazioni di sviluppo svizzere pari a 100 milioni di franchi che non potranno più essere portati avanti. Niente sarà come prima: “Se questo è l’inizio della fine dell’aiuto allo sviluppo, dovremmo concentrarci sul cambiamento strutturale”, scrive la canadese-egiziana Heba Aly, già direttrice del portale online The New Humanitarian. “Una politica commerciale, del debito e fiscale più equa può combattere le cause della disuguaglianza”. Questa è la strada da intraprendere ora. E per la Svizzera ciò significa tutt’altro che business as usual.
 

Articolo pubblicato dal Corriere del Ticino il 31 marzo 2025

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Comunicato stampa

Rinnovare i finanziamenti all'UNRWA per sostenere il cessate il fuoco

13.02.2025, Cooperazione internazionale, Finanziamento dello sviluppo

A quattro giorni dalla riunione della Commissione della politica estera del Consiglio degli Stati (CPE), una decina di organizzazioni ribadiscono l'assoluta necessità di mantenere i finanziamenti all'UNRWA per consolidare l'accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Consegnando alla CPE una lettera in questo senso e con un’azione simbolica si chiede alla Svizzera di rimanere fedele alla sua tradizione umanitaria.

Laura Ebneter
Laura Ebneter

Esperta in cooperazione internazionale

+41 31 390 93 32 laura.ebneter@alliancesud.ch
Rinnovare i finanziamenti all'UNRWA per sostenere il cessate il fuoco

Consegna della lettera all'entrata della Cancelleria federale. © Luisa Baumgartner / Alliance Sud

A fine gennaio, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) ha lasciato la sua sede nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, e trasferito temporaneamente il personale internazionale in Giordania. Questa misura fa seguito all'adozione da parte del Parlamento israeliano di una legge senza precedenti, contraria al diritto internazionale, che vieta la presenza dell'UNRWA in Israele e a Gerusalemme Est, che il paese occupa dal 1967.

"La legge israeliana entra in vigore in un momento in cui gli aiuti umanitari sono più neces-sari che mai. La vita, la salute e il benessere di milioni di palestinesi sono a rischio. La Svizzera deve chiedere al governo israeliano di permettere all'UNRWA di operare in tutto il Territorio palestinese occupato, continuando a sostenere finanziariamente l'agenzia ONU”, afferma Michael Ineichen, responsabile advocacy di Amnesty Svizzera.

Dall'entrata in vigore del cessate il fuoco a Gaza, l'UNRWA ha fornito il 60% di tutti gli aiuti umanitari nel Territorio Palestinese Occupato. Rimane l'attore umanitario più importante in quel territorio. Solo l'agenzia delle Nazioni Unite dispone della rete necessaria per fornire servizi come rifugi di emergenza, strutture igienico-sanitarie, cure mediche e attrezzature, distribuzione di cibo e acqua. Il successo del cessate il fuoco dipende da questi aiuti essenziali.

In seguito alla sentenza della Corte internazionale di giustizia del gennaio 2024, la Svizzera ha ancor più l'obbligo di adottare misure per prevenire il genocidio e fornire aiuti umanitari alla popolazione civile di Gaza. In qualità di Stato depositario delle Convenzioni di Ginevra, la Svizzera sta inoltre organizzando una conferenza degli Stati parte delle Convenzioni di Ginevra con l'obiettivo di rafforzare la protezione della popolazione palestinese. Un motivo in più per impegnarsi a fondo per i diritti umani dei palestinesi, in particolare contribuendo alla fornitura di beni e servizi essenziali.

“Amnesty International chiede quindi alla Commissione di autorizzare il mantenimento del sostegno all'UNRWA. Un'interruzione dei finanziamenti sarebbe in contraddizione con gli impegni internazionali della Svizzera e comprometterebbe gli sforzi per la pace e la stabilità nella regione. Il sostegno del nostro Paese è ancora più necessario dopo la decisione del Presidente americano Trump di porre fine ai finanziamenti per l'agenzia ONU”, conclude Michael Ineichen.

Le seguenti organizzazioni hanno co-firmato la lettera aperta (tedesco / francese): Alliance Sud, Forum für Menschenrechte in Israel/Palästina, Frieda – Die feministische Friedenorganisation, Associazione Svizzera-Palestina, Gruppo per una Svizzera senza esercito GSsE, Ina autra senda - Swiss Friends of Combatants for Peace, Jüdische Stimme für Demokratie und Gerechtigkeit in Israel/Palästina, Médecins du Monde Svizzera, medico international svizzera, Palestine Solidarity Switzerland, Pane per tutti/HEKS, Peace Watch Switzerland.

Già nell'aprile del 2024, le organizzazioni all'origine della lettera consegnata oggi alla CPE avevano presentato al Consiglio federale e al Parlamento una petizione per il cessate il fuoco e il mantenimento dei finanziamenti all'UNRWA, accompagnata da oltre 45’000 firme. In ottobre, alcune di queste organizzazioni hanno esposto le conseguenze di un ritiro del sostegno svizzero all'UNRWA in una lettera aperta rivolta alla stessa commissione.

Comunicato stampa

Cooperazione allo sviluppo: non si può fare lo stesso con meno mezzi

29.01.2025, Cooperazione internazionale, Finanziamento dello sviluppo

La Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) e la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) hanno annunciato come intendono attuare i tagli alla cooperazione internazionale decisi dal Parlamento. L'impatto drammatico sulle popolazioni dei Paesi e dei programmi colpiti viene tuttavia minimizzato.

Cooperazione allo sviluppo: non si può fare lo stesso con meno mezzi

A causa della crisi climatica e politica in Bangladesh i bisogni rimangono immensi © Keystone / EPA / STR

 

Per evitare equivoci: la responsabilità dei tagli di 110 milioni di franchi nel budget 2025 e di 321 milioni di franchi nel piano finanziario per i prossimi anni è esclusivamente della maggioranza borghese che in Parlamento ha preso queste decisioni. Tuttavia, l'affermazione che «attraverso un’attenta definizione delle priorità dovrebbe comunque essere possibile ottenere gli effetti auspicati» invia un segnale sbagliato. È ovvio che la cooperazione allo sviluppo che può essere portata avanti nonostante i tagli è ancora efficace. Ma è altrettanto chiaro che non si può fare lo stesso di prima con 110 milioni in meno. Ed è chiaro che saranno le popolazioni del Sud globale a risentirne in modo tangibile quando progetti di successo verranno cancellati.

Le necessità in Bangladesh e Zambia in particolare – i programmi della DSC saranno interrotti in entrambi i Paesi – non sono certo diminuiti. Il Bangladesh si trova in una situazione politicamente instabile, che sta avendo un impatto sull'industria tessile del Paese. Lo Zambia soffre di una crisi del debito; secondo il Fondo Monetario Internazionale, sussiste ancora «un alto rischio di “distress” del debito complessivo ed esterno». Questo anche perché il Paese ha sofferto e continua a soffrire di un'aggressiva evasione fiscale da parte di società straniere. La multinazionale Glencore, ad esempio, non ha mai pagato le tasse sui profitti in Zambia, anche quando i prezzi del rame erano alti. Entrambi i Paesi sono inoltre particolarmente colpiti dalla crisi climatica, che sta minacciando i precedenti successi di sviluppo. Il Bangladesh a causa delle tempeste e dell'innalzamento del livello del mare e lo Zambia perché la produzione di energia elettrica è diminuita drasticamente, dato che i fiumi trasportano molta meno acqua.

Anche in ambito multilaterale i tagli non possono essere assorbiti senza conseguenze. Ad esempio, sono stati cancellati i pagamenti a UNAIDS. Eppure l'AIDS è ancora una delle maggiori cause di morte in Africa e quasi un quinto dei pazienti africani affetti da HIV non riceve ancora farmaci salvavita. Sono previsti anche «ulteriori tagli trasversali» e vengono colpiti i contributi alle spese generali delle ONG, sebbene il Consigliere federale Ignazio Cassis avesse affermato in Parlamento la scorsa estate che queste organizzazioni partner contribuiscono all'attuazione della cooperazione internazionale a basso costo. Concretamente, ciò significa che numerose famiglie contadine, ad esempio, non avranno un approvvigionamento idrico sicuro nella lotta contro la crisi climatica, molti giovani non avranno un posto di apprendistato e più bambini andranno a letto affamati. I responsabili dei tagli non devono crogiolarsi, ma guardare in faccia questa cruda realtà.

Tied Aid

Quando gli aiuti “aiutano” i propri interessi

29.11.2024, Cooperazione internazionale

L’aiuto vincolato a una contropartita è malvisto da decenni nella cooperazione internazionale. Ma ciò non sembra interessare i Paesi donatori. Al contrario: anche in Svizzera il cosiddetto “tied aid” sta tornando in voga. Analisi di Laura Ebneter

Laura Ebneter
Laura Ebneter

Esperta in cooperazione internazionale

Quando gli aiuti “aiutano” i propri interessi

Aiuti svizzeri per l'Ucraina, marzo 2022.

© Keystone / Michael Buholzer

 

«Quando cooperiamo allo sviluppo, vogliamo innanzitutto commissionare ordini all’economia locale. Ma qui si tratta della ricostruzione [dell’Ucraina]. Siamo in una logica diversa», ha dichiarato Helene Budliger-Artieda, direttrice della Segreteria di Stato dell’economia SECO, in un’intervista radiofonica per SRF nell’estate del 2024. Il riferimento è ai piani del Consiglio federale a sostegno dell’Ucraina. Il Consiglio federale intende stanziare 1,5 miliardi di franchi svizzeri nei prossimi quattro anni per sostenere l’Ucraina. Di questi, 500 milioni sono destinati a società svizzere che operano in Ucraina. Si tratta ancora di cooperazione allo sviluppo o di promozione delle esportazioni?

Si tratta dell’impopolare aiuto vincolato (tied aid), ovvero di fondi per lo sviluppo vincolati alla condizione dell’acquisto di beni e servizi dei Paesi donatori. Per questo motivo vengono spesso chiamati “buoni acquisto”. I Paesi partner non hanno altra scelta: in una situazione di emergenza, si accettano comunque i buoni della Migros, anche se così si danneggia il negozietto di paese, che a medio termine sarebbe più importante sostenere nell’interesse della popolazione locale.

Un cattivo affare per il Sud globale

Tutte le stime disponibili giungono alla stessa conclusione: se i Paesi devono acquistare beni e servizi dai Paesi donatori, i progetti costano il 15-30% in più rispetto ai casi in cui hanno la possibilità di scegliere un fornitore. La cooperazione senza contropartite non solo rafforza l’efficienza dell’impiego dei fondi e l’autodeterminazione dei Paesi partner. Promuovendo i mercati e le aziende locali, crea anche ulteriori impulsi positivi che vanno oltre i risultati dei progetti. Se si considerano i fornitori locali, si riducono anche i problemi di approvvigionamento dei pezzi di ricambio, poiché le catene di fornitura sono notevolmente più brevi. In caso contrario, i costi di manutenzione sono più elevati e possono rendere impossibile il successo a lungo termine se mancano i fondi dopo il completamento del progetto.

La storia non ci ha insegnato nulla?

L’aiuto vincolato è uno dei tasselli nel dibattito pluridecennale sull’efficacia del finanziamento dello sviluppo. Si tratta essenzialmente di due questioni strettamente legate: da un lato, una cooperazione internazionale orientata al futuro e basata su principi di efficacia ed efficienza. Il dibattito sull’aiuto non vincolato tocca quindi anche gli obiettivi di decolonizzazione: i Paesi partner dovrebbero essere in grado di determinare autonomamente il proprio percorso di sviluppo. Dall’altro, il dibattito verte sugli effetti potenzialmente distorsivi che si hanno nella concessione di fondi vincolati all’esportazione di beni e servizi dai Paesi donatori.
Inoltre si tratta di lotta ad armi pari. In effetti, i Paesi che si astengono dalla pratica dell’aiuto vincolato – cioè che indicono una gara d’appalto internazionale – criticano a ragione il fatto di essere svantaggiati se gli altri Paesi non fanno lo stesso. Per esempio, i fornitori svizzeri hanno accesso limitato agli altri mercati, mentre i fornitori internazionali hanno un buon accesso agli appalti pubblici svizzeri.

Per procedere in modo coordinato a livello internazionale, nel 2001 i Paesi donatori hanno concordato nell’ambito dell’OCSE la “Recommendation on Untying Official Development Assistance (ODA)” - Raccomandazione relativa allo svincolo dell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS). L’obiettivo dell’accordo congiunto era ed è tuttora quello di attribuire il maggior numero possibile di fondi per lo sviluppo in modo svincolato, rafforzando così l’efficienza e l’efficacia della cooperazione internazionale. La comunità internazionale concorda sul fatto che questa forma di aiuto pubblico allo sviluppo è paternalistica, costosa e inefficiente.

Poca trasparenza in Svizzera

Nel confronto internazionale, se si osservano le cifre ufficiali dell’aiuto non vincolato, la Svizzera fa bella figura. Secondo un’analisi dell’OCSE la Svizzera nel 2021 e 2022 ha donato il 3% dei fondi in maniera vincolata. Tuttavia, l’analisi fornisce un quadro incompleto, poiché la cifra include solo la concessione di fondi chiaramente vincolati. In effetti, esistono anche modi informali per favorire i fornitori nazionali. Ad esempio, il gruppo di candidati può essere ristretto mediante la lingua del bando, la portata finanziaria dei progetti o la scelta del canale di comunicazione.
Non esiste un quadro preciso dell’entità dell’aiuto vincolato in maniera informale. Sulla base delle statistiche di aggiudicazione è comunque possibile stimare quanti dei fondi messi in gara d’appalto finiscono destinati a fornitori nazionali. Secondo le analisi di Eurodad, la Rete europea sul debito e lo sviluppo, nel 2018 (non sono disponibili dati più recenti) il 52% di tutto l’aiuto non vincolato è stato assegnato a fornitori del proprio Paese. Con il 51%, la Svizzera si situa nella media. Complessivamente, solo l’11% dell’aiuto non vincolato è stato attribuito direttamente a fornitori dei Paesi partner.

In Svizzera, l’aiuto non vincolato è rimasto a lungo indiscusso. Anche l’attuale progetto della Strategia di cooperazione internazionale 2025-2028 (Strategia CI) recita: «[La CI] è coerente con il diritto commerciale internazionale, che mira a impedire la concessione di sussidi in grado di provocare distorsioni di mercato a favore delle imprese svizzere. La Svizzera tiene conto delle raccomandazioni dell’OCSE DAC Recommendation on Untying Official Development Assistance». Quando si tratta di prendere decisioni sui fondi ucraini destinati alle imprese svizzere, sembra che questo impegno sia tutta apparenza. Infatti, poche settimane dopo la pubblicazione della Strategia CI, il Consiglio federale ha scritto in un comunicato stampa: «Il Consiglio federale si sta adoperando affinché il settore privato svizzero svolga un ruolo di primo piano nella ricostruzione in Ucraina». Seguendo queste intenzioni, la Svizzera vuole anche reintrodurre formalmente l’aiuto vincolato.

Contributi di base non sempre indiscussi

Secondo le linee guida dell’OCSE, i contributi di base alle organizzazioni non governative dei Paesi donatori non sono considerati aiuto vincolato, perché le ONG operano nell’interesse pubblico e non sono orientate al profitto. Tuttavia, questo trattamento di favore è controverso a livello internazionale. Negli ultimi mesi, il movimento internazionale #ShiftThePower ha chiesto che un maggior numero di fondi per lo sviluppo vada direttamente alle organizzazioni del Sud globale. Per quanto questa rivendicazione sia giustificata, vale la pena analizzare più in dettaglio come i fondi possano raggiungere le organizzazioni partner del Sud globale. Dopotutto, indire gare d’appalto per più progetti e programmi a livello internazionale non significa automaticamente che ad aggiudicarsi l’appalto saranno le organizzazioni nel Sud globale. È quindi importante garantire che vengano condotti processi di aggiudicazione che consentano alle piccole organizzazioni del Sud globale di ricevere un finanziamento di base e di non rimanere relegate al ruolo di partner nell’attuazione dei progetti. Le ONG svizzere in particolare, che vantano tutte cooperazioni solide e di lunga data con numerose organizzazioni del Sud globale, svolgono un importante ruolo di congiunzione.

Verso un futuro alla pari?

Molti Paesi non nascondono il fatto che combinano l’aiuto pubblico allo sviluppo a interessi di politica estera. Carsten Staur, presidente danese del Comitato per l’aiuto allo sviluppo dell’OCSE, ha dichiarato in un’intervista rilasciata nel 2022 che nella storia non c’è mai stato aiuto pubblico allo sviluppo che non abbia perseguito in qualche modo obiettivi di politica estera e di sicurezza.

È curioso che a volere l’aiuto vincolato in Svizzera siano proprio i partiti politici solitamente favorevoli alle regole del libero commercio. Per la CI, invece, sembra che tali regole d’improvviso non siano appropriate. Chi pensa che la cooperazione internazionale sia inefficace, con decisioni politiche di questo tipo può quindi considerarsi co-responsabile dell’impiego meno efficiente dei fondi per la cooperazione internazionale.

Per poter cooperare in modo sostenibile, efficace e alla pari, i Paesi partner dovrebbero essere in grado di determinare autonomamente il proprio percorso di sviluppo. Il fatto che noi in Svizzera dovremmo definire ciò di cui «necessitano» i Paesi partner non rende giustizia ai dibattiti internazionali sulla cooperazione internazionale orientata al futuro. Dovrebbe inoltre essere chiaro che l’aiuto vincolato è inefficiente e costoso. È quindi ora di abbandonare questa via e di investire in partenariati duraturi e paritari.

Articolo pubblicato da "La Regione" il 3 gennaio 2025.

Si parla di aiuto vincolato (tied aid) quando la concessione dei fondi è legata alla condizione che beni e servizi vengano acquistati da fornitori del Paese donatore. Ma esistono anche altre forme di condizionalità, per esempio quando i Paesi donatori stabiliscono requisiti in termini di misure anticorruzione, politica di libero scambio e liberalizzazione o rispetto di principi democratici. La condizionalità dei fondi per lo sviluppo è anche uno strumento strategico per raggiungere obiettivi di politica estera nei Paesi del Sud globale. Tuttavia, i Paesi partner non vedono questa pratica di buon occhio, in quanto impedisce loro di determinare autonomamente il proprio futuro. Questo è uno dei motivi per cui sono molto apprezzati i Paesi donatori più recenti, come la Cina, che fissano poche condizioni o addirittura nessuna.

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Comunicato stampa

Tagli nella cooperazione allo sviluppo: «Allarme solidarietà» nelle città svizzere

09.09.2024, Cooperazione internazionale

La politica vuole tagliare massicciamente i contributi alla cooperazione allo sviluppo. Contro i tagli si è formata un’ampia opposizione. Le organizzazioni per lo sviluppo svizzere danno insieme l’«Allarme solidarietà» impegnandosi in un tour nazionale che farà tappa in Ticino a inizio ottobre.

Tagli nella cooperazione allo sviluppo: «Allarme solidarietà» nelle città svizzere

Nelle prossime sessioni autunnali e invernali, il Parlamento discuterà la Strategia di cooperazione internazionale per i prossimi quattro anni e il bilancio 2025. A causa dei massicci tagli previsti nella cooperazione allo sviluppo, le organizzazioni per lo sviluppo svizzere danno l’allarme e mandano un chiaro segnale a Berna: no ai tagli a spese della nostra tradizione umanitaria! Al contrario, occorre stanziare ulteriori fondi per l’importante aiuto all’Ucraina senza ridurre le risorse dei programmi già in corso nei Paesi più poveri.

Sul sito della campagna allarme-solidarietà.ch, è possibile premere il pulsante d’allarme virtuale. Con una serie di eventi, l’«Allarme solidarietà» ora si mette anche in viaggio per le città svizzere. A chi passerà dall’installazione verranno fornite ulteriori informazioni sulla cooperazione svizzera allo sviluppo e si potrà lanciare un allarme, questa volta analogico, in direzione di Berna.

Le crisi umanitarie richiedono l’impegno della Svizzera

Nella sua «Strategia di cooperazione internazionale 2025-2028», il Consiglio federale ha preventivato 1,5 miliardi di franchi per l’aiuto all’Ucraina. Si tratta di una somma superiore a quella spesa per la cooperazione allo sviluppo in tutta l’Africa subsahariana. Ora in Parlamento si rischia di discutere di ulteriori tagli a causa delle misure di risparmio e del riarmo dell’esercito. Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, centro di competenza svizzero per la cooperazione internazionale e la politica di sviluppo, si mostra indignato: «Questo attacco alla cooperazione allo sviluppo smantella progetti estremamente efficaci pianificati sul lungo termine e intacca la reputazione della Svizzera».

Innumerevoli voci dal mondo della politica, della scienza e della società civile concordano su questo punto, dato che la fame e la povertà sono di nuovo in aumento in tutto il mondo e le crisi umanitarie si stanno intensificando. Sottolineano tra l’altro che un approccio puramente militare alla sicurezza è una risposta inadeguata a queste sfide globali. La Svizzera deve invece rafforzare la sua cooperazione internazionale se vuole promuovere efficacemente la pace e la stabilità.

 

Tappe del tour

  • Dal 5 al 9 settembre: Lucerna
  • 12 e 14 settembre: Zurigo
  • Dal 16 al 17 settembre: Berna
  • 19 e 21 settembre: Zurigo
  • 25 settembre: Losanna
  • Dal 2 al 3 ottobre: Ginevra
  • Dal 4 al 6 ottobre: Lugano
  • Settimana 41: da definire
  • Settimana 42: San Gallo
  • Settimana 43: Winterthur
  • Settimana 44: Basilea
  • Settimana 45: da definire
  • Settimana 46: da definire
  • Settimana 47: da definire
  • 27 e 29 novembre: Berna

Trovate la lista attuale delle tappe del tour «Allarme solidarietà» sul sito
www.allarme-solidarieta.ch/campagna

 

Per ulteriori informazioni:

Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud
andreas.missbach@alliancesud.ch, 031 390 93 30

 

 

Allarme solidarietà è una campagna di Alliance Sud, Swissaid, Azione Quaresimale, Helvetas, Caritas, HEKS/EPER, Solidar Suisse, terre des hommes Suisse, Brücke Le Pont, Biovision, Comundo, Unité e Vivamos Mejor

Organizzazioni sostenitrici: Esercito della Salvezza, Frieda, IAMANEH Suisse, Interaction, Vétérinaires sans frontières, Women’s Hope International, Médecins du Monde, Medici Senza Frontiere, CBM Missioni cristiane per i ciechi nel mondo, Solidarmed, Verein Bethlehem Mission Immensee, OEME-Kommission Bern, Fédération genevoise de coopération, Enfants du monde, Fedevaco, Fondazione Villaggio Pestalozzi per bambini

Strategia 2025 – 2028

Cooperazione allo sviluppo sull’orlo del precipizio

21.06.2024, Cooperazione internazionale, Finanziamento dello sviluppo

A metà maggio il Consiglio federale ha adottato il messaggio sulla Strategia di cooperazione internazionale 2025-2028, insistendo nel finanziare gli aiuti all’Ucraina a spese del Sud globale e ignorando i risultati della consultazione pubblica.

Laura Ebneter
Laura Ebneter

Esperta in cooperazione internazionale

Cooperazione allo sviluppo sull’orlo del precipizio

© Ruedi Widmer

A livello di contenuti, nella strategia 2025-2028 il Consiglio federale non rivela grandi sorprese e si concentra su temi e strategie di attuazione già collaudati. E lo fa in un mondo che, secondo la strategia, è più frammentato, instabile e imprevedibile. In questo contesto, il Consiglio federale opta per una maggiore flessibilità: il suo motto attuale. Una flessibilità che è necessaria per affrontare le crisi odierne, come ha dichiarato il consigliere federale Ignazio Cassis in conferenza stampa. Tuttavia, leggendo la strategia ci si rende subito conto che flessibilità in realtà significa che l’intera somma destinata ad aiutare l’Ucraina, pari a 1,5 miliardi di franchi, proverrà dal bilancio della cooperazione internazionale (CI) e quindi gli importi per altri Paesi e programmi saranno ridotti in modo “flessibile”.

Oggi qui, domani là

Alla conferenza stampa del 10 aprile concernente la conferenza di pace sul Bürgenstock e l’aiuto all’Ucraina, il consigliere federale Ignazio Cassis aveva tematizzato la continua riallocazione di risorse nell’ambito della CI, spiegando che l’allocazione di fondi è un processo strategico e dinamico e non una circostanza statica. Un tale approccio dinamico può avere una certa efficacia, ad esempio nel coniugare in modo flessibile i tre pilastri della CI, ossia l’aiuto umanitario, la cooperazione allo sviluppo e la promozione della pace (concetto noto anche come nexus ). Spesso comunque i confini tra questi approcci sono labili.

Una cooperazione internazionale che sposta costantemente le proprie risorse tra diverse regioni e da un Paese all’altro non può costruire partenariati seri e a lungo termine. Eppure, per operare con efficacia ed efficienza, sono proprio questi ciò che serve. Occorrono fiducia e impegno a lungo termine, cioè relazioni che si instaurano e curano attraverso i programmi della cooperazione allo sviluppo. Oppure, per riprendere le parole del consigliere federale Cassis in occasione di un incontro con le ONG nel 2022: «affidabilità, fiducia e prevedibilità». Se la CI della Svizzera finisce in balia di considerazioni geopolitiche, le mancheranno le reti e il personale necessari sul campo. La guerra in Ucraina ha segnato l’inizio di una nuova fase, ma ciò non deve indurre la CI svizzera ad abbandonare ciò che ha costruito in molti anni e i risultati ottenuti con i suoi Paesi partner.

Sul filo del rasoio

Con la decisione di finanziare gli aiuti all’Ucraina attingendo dal bilancio della cooperazione internazionale, il Consiglio federale sta dicendo di no su vari fronti. In primo luogo, è un diniego al Sud globale, che da anni chiede ai Paesi benestanti di adempiere l’obiettivo riconosciuto a livello internazionale dello 0,7% del reddito nazionale lordo per l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS). Con il progetto del Consiglio federale entro il 2028 la Svizzera raggiungerà un APS dello 0,36% (esclusi i costi dell’asilo). Dov’è dunque la tradizione umanitaria, di cui si parla spesso e volentieri, quando ne abbiamo più bisogno?

In secondo luogo, è anche un diniego alle organizzazioni, ai partiti e ai Cantoni che hanno partecipato alla consultazione. Una netta maggioranza (75%) di coloro che hanno risposto a una domanda a questo riguardo ha dichiarato esplicitamente che gli aiuti all’Ucraina non devono andare a scapito di altre regioni e priorità della CI, come l’Africa subsahariana o il Medio Oriente. Nessuno dei partiti politici, eccetto l’UDC (il quale d’altronde, secondo il programma di partito, vorrebbe abolire la cooperazione allo sviluppo) sostiene il finanziamento della ricostruzione dell’Ucraina con i fondi della CI. Purtroppo, per la sua attuazione il Parlamento non ha ancora trovato una soluzione che abbia il sostegno della maggioranza nel dibattito sulle finanze federali.

Una Svizzera sempre meno credibile

All’estero non è passato inosservato il fatto che la Svizzera si stia adagiando sul suo comodo e redditizio status speciale di Paese neutrale e stia partecipando in maniera insufficiente alla difesa dell’Ucraina, indipendentemente dal fatto che il sostegno sia di natura militare o umanitaria. Con un tasso di indebitamento del 17,8% del prodotto interno lordo, la Svizzera sul piano internazionale non può spiegare in modo credibile perché non può stanziare ulteriori fondi per l’Ucraina. Allo stesso tempo, con le loro proposte di finanziamento per il riarmo dell’esercito e la tredicesima mensilità AVS, l’UDC e il PLR alimentano l’idea che la Svizzera possa abbandonare completamente i suoi obblighi internazionali.

Così il nostro Paese si isola sempre di più, perdendo credibilità a livello internazionale. Addio ruolo di mediatore, addio tradizione umanitaria e partner affidabile. Il Consiglio federale ha interpretato bene i segni dei tempi, ma ha scelto la strada dell’isolamento. Solo il Parlamento può ancora correggere il tiro e invertire la direzione per l’Ucraina e il Sud globale.

 

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Intervista con Micheline Calmy-Rey

«La Svizzera deve esprimersi in modo più chiaro sul diritto internazionale umanitario»

23.04.2024, Cooperazione internazionale

Nell’attuale contesto di guerra, l’ex consigliera federale Micheline Calmy-Rey deplora la mancanza di una posizione chiara da parte della diplomazia svizzera. In quanto garante delle Convenzioni di Ginevra, la Svizzera dovrebbe intensificare il suo impegno a favore della popolazione civile.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

«La Svizzera deve esprimersi in modo più chiaro sul diritto internazionale umanitario»

Ramallah, in Cisgiordania, già prima del 7 ottobre è stata al centro di scontri tra esercito israeliano e palestinesi.

© Klaus Petrus

 

Signora Calmy-Rey, a 20 anni dal lancio dell’Iniziativa di Ginevra, in Medio Oriente si sta perpetrando la peggiore guerra dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948. Qual è la sua opinione riguardo al ruolo della Svizzera in questo conflitto?

L’Iniziativa di Ginevra, sostenuta dalla Svizzera, rappresentava un piano di pace alternativo firmato dalle società civili di Palestina e Israele e mirava a una risoluzione globale del conflitto con una soluzione a due Stati. Nel 2022, il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) ha ritirato il suo sostegno a questa iniziativa, pur rimanendo a favore di una soluzione a due Stati. Va detto che l’obiettivo di uno Stato palestinese è diventato secondario nell’agenda internazionale dell’ultimo decennio. Il conflitto, considerato senza speranza, è stato ignorato e si è continuato a propagare la soluzione a due Stati, ma i Paesi occidentali non hanno fatto nulla per concretizzarla. Niente lo dimostra meglio dell’indebolimento dell’Autorità palestinese. Si pensava che la normalizzazione delle relazioni tra gli Stati del Golfo e Israele avrebbe risolto il conflitto in poco tempo, ma come possiamo vedere, non è il caso. Oggi sta riemergendo l’idea di una soluzione a due Stati, ma la sua attuazione rimane difficile in quanto le questioni dello status di Gerusalemme, della colonizzazione e del diritto al ritorno dei rifugiati continuano ad attendere una risposta.

I tempi però sono cambiati. La soluzione a due Stati non è forse ancora più difficile da realizzare oggi rispetto a 20 anni fa?

Sì, ha ragione. Prendiamo l’evoluzione del numero di coloni ebrei nei territori palestinesi occupati: nel 1993 erano 280 000, oggi sono 700 000. La costruzione della barriera di separazione ha trasformato la Cisgiordania in micro-enclavi completamente ingovernabili. Oltre il 90% del territorio tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano è sotto il diretto controllo israeliano. Finora, la soluzione a due Stati non è altro che un pio desiderio.

 

Eine sieben Meter hohe Mauer, die das Westjordanland von Jerusalem und Israel.

Checkpoint Qalandia

© Klaus Petrus

Bau einer israelischen Siedlung bei Bet El nordöstlich der palästinensischen Stadt Ramallah, Westjordanland

Colonia ebraica di Bet El nei pressi di Ramallah.  

© Klaus Petrus

 

Cosa ne pensa del lavoro della cooperazione svizzera allo sviluppo nella regione attualmente?

Mi è difficile riconoscere una posizione chiara della Svizzera. Il messaggio è incoerente. Nella sua dichiarazione ufficiale, ha invitato le parti ad adempiere agli obblighi previsti dal diritto internazionale e dal diritto umanitario internazionale. Insieme ad altri 120 Stati, ha votato a favore di una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che chiedeva un immediato cessate il fuoco umanitario. Tuttavia, alcuni ambienti hanno criticato questo atteggiamento. Allo stesso tempo, il capo del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) dichiarava che la Svizzera avrebbe sospeso i finanziamenti a 11 organizzazioni in Palestina e Israele, rispondendo così alla richiesta di alcuni partiti politici di esaminare l’opportunità di eliminare gli aiuti allo sviluppo alla Palestina. Alla fine, solo tre organizzazioni palestinesi sono state colpite dal blocco dei finanziamenti. Durante il dibattito sul preventivo nella sessione invernale, il Parlamento ha anche deciso di non tagliare i 20 milioni di franchi che la Confederazione versa annualmente all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA). Tuttavia, dopo l’annuncio del licenziamento immediato di 12 dipendenti sospettati di essere collegati all’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre, la situazione potrebbe cambiare nuovamente. Purtroppo c’è il rischio che il contributo svizzero all’UNRWA venga sospeso, nonostante l’emergenza umanitaria a Gaza.

Mi è difficile riconoscere una posizione chiara della Svizzera.

Come valuta l’annuncio della Svizzera di voler organizzare una conferenza di pace sull’Ucraina?

La Svizzera lo ha annunciato ufficialmente al WEF di Davos. Di solito, prima si tengono discussioni preliminari e si definiscono gli obiettivi dell’incontro, poi viene diramato l’annuncio ufficiale. A Davos, la Svizzera ha invertito la procedura. In ogni caso la situazione è diversa dalla classica mediazione tra due Stati in conflitto. La conferenza di pace sarà stata preceduta da quattro riunioni di consigliere e consiglieri per la sicurezza provenienti da oltre 80 Paesi. Tutte erano pubbliche, l’ultima si è svolta a Davos. È stato quindi necessario adattare il metodo. Mi fa piacere che la Svizzera stia facendo passi avanti e stia sfruttando i suoi punti di forza, che non sono affatto trascurabili. Tuttavia, in questa fase possiamo parlare solo di “pre-preparazione”.

Secondo lei che cosa succederà ora?

È improbabile che la Russia partecipi direttamente al primo vertice. Allo stesso tempo, una conferenza di pace senza la Russia è impensabile. A Davos, la nostra Presidente e il nostro Ministro degli Esteri hanno espresso il desiderio di coinvolgere la Russia. Hanno affermato che la Svizzera vuole collaborare con il maggior numero possibile di capi di Stato, soprattutto con quelli che finora hanno teso a schierarsi dalla parte della Russia. Se la Svizzera vuole davvero plasmare la discussione e non limitarsi al ruolo di Paese ospitante, dovrà anche dettare il tono in termini di contenuti. Per questo è importante la partecipazione degli Stati filorussi e della Russia stessa. Un accordo sulla maggior parte dei punti del piano di pace ucraino al momento è irrealistico. La Svizzera dovrebbe determinare in maniera astratta i punti su cui esiste un denominatore comune tra gli Stati sostenitori dell’Ucraina e quelli della Russia. Inoltre, vi sono sfide tecniche per le quali si potrebbero raggiungere accordi provvisori nell’interesse delle parti, ad esempio sul grano, sullo scambio di prigionieri, sulla sicurezza delle centrali nucleari, ecc.

Mi auguro che la Svizzera si esprima in modo più forte e chiaro per il rispetto del diritto internazionale umanitario. Dopo tutto, Ginevra è la sua culla e la Svizzera è garante delle Convenzioni di Ginevra.

Lei è stata all’origine della candidatura della Svizzera al Consiglio di sicurezza dell’ONU. Che bilancio ne traccia dopo un anno di attività?

In seno al Consiglio di sicurezza la Svizzera ha potuto portare avanti la sua tradizionale politica estera. Con il Brasile, ha facilitato l’accesso umanitario dopo il terremoto nel nord della Siria. Tuttavia, è entrata nel Consiglio di Sicurezza in un momento in cui il multilateralismo è sull’orlo della crisi, paralizzato dal veto delle grandi potenze. Mi sarei aspettata che fosse un po’ più dinamica nel sostenere l’applicazione del diritto internazionale umanitario. È un peccato che non faccia di più su questo piano, poiché quello che sta accadendo in Ucraina o nel conflitto israelo-palestinese, in cui le Convenzioni di Ginevra vengono calpestate da tutte le parti, è semplicemente inaccettabile: bombardamenti indiscriminati a Gaza, attacchi criminali di Hamas del 7 ottobre. È inaccettabile che numerosi civili israeliani vengano giustiziati, che i palestinesi di Gaza siano in balia di Hamas e che venga ostacolata la consegna degli aiuti. Mi auguro che la Svizzera si esprima in modo più forte e chiaro per il rispetto del diritto internazionale umanitario. Dopo tutto, Ginevra è la sua culla e la Svizzera è garante delle Convenzioni di Ginevra.

Westmauer oder Klagemauer im Jüdischen Viertel der Altstadt von Jerusalem mit jüdischen Gläubigen und Ultraorthodoxen.

Muro del Pianto nel quartiere ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme.

© Klaus Petrus

Nel contempo, il multilateralismo sembra aver perso efficacia... Ha ancora fiducia nelle istituzioni dell’ONU e quale ruolo dovrebbero svolgere la Svizzera e la Ginevra internazionale?

Il Consiglio di Sicurezza è bloccato dai veti di entrambe le parti. Ma Ginevra è sede di molte organizzazioni tecniche e, quando si parla di erosione del multilateralismo, è importante osservare anche la situazione qui. Il Palazzo delle Nazioni è stato recentemente chiuso per quindici giorni per risparmiare sui costi di riscaldamento, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) taglierà 4000 posti di lavoro e anche l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sta pianificando licenziamenti su larga scala. Ginevra ospita un numero impressionante di organizzazioni tecniche delle Nazioni Unite che si trovano attualmente in difficoltà. L’ONU si basa anche sui dati necessari per il buon funzionamento della globalizzazione: si occupa di frequenze di telefonia mobile, brevetti e marchi, salute pubblica, condizioni di lavoro, clima e coordinamento dell’aiuto umanitario. C’è un notevole bisogno di riforme alle Nazioni Unite. Ciò non vale solo per il Consiglio di Sicurezza, ma anche per le organizzazioni tecniche, i cui processi di lavoro devono diventare più efficienti.

Come valuta la cooperazione allo sviluppo della Svizzera? Secondo lei si dovrebbe attingere al budget ordinario della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) per finanziare la ricostruzione in Ucraina?

La priorità della Svizzera era ed è tuttora quella di aiutare le popolazioni più povere. A livello di politica estera, trovo insostenibile tagliare gli aiuti ai Paesi più poveri – aiuti che costituiscono una voce di budget regolare riportata di anno in anno e un obiettivo sostenibile della DSC – per ridirigere i fondi al sostegno della ricostruzione in Ucraina. Tale aiuto è certo un obiettivo nobile e necessario, ma speriamo anche limitato nel tempo e che a parer mio dovrebbe beneficiare di un finanziamento speciale.

Alt Bundesrätin Micheline Calmy Rey

Micheline Calmy-Rey

L’ex consigliera federale Micheline Calmy-Rey è stata a capo del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) dal 2002 al 2011. Ha perseguito una politica di neutralità attiva, coinvolgendo la Svizzera in diverse mediazioni internazionali e iniziative di pace. L’esempio più noto è la mediazione tra la Federazione Russa e la Georgia, che ha facilitato alla Russia di entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2011, ma si ricordano anche le mediazioni tra Turchia e Armenia. Nel 2008, Micheline Calmy-Rey ha negoziato con successo gli accordi di rappresentanza della Georgia in Russia e viceversa.

Intervista pubblicata da "La Regione" il 22 aprile 2024.

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Global, Opinione

La fiaba del freno all'indebitamento: Tremotino al governo?

05.04.2024, Cooperazione internazionale, Finanza e fiscalità

La Confederazione deve davvero risparmiare? Urge un ripensamento, poiché il tasso d’indebitamento è il miglior amico della cooperazione internazionale. Grazie ad esso, la Svizzera può facilmente permettersi di contabilizzare i costi degli aiuti all’Ucraina come spese straordinarie, salvando così la cooperazione allo sviluppo nei Paesi del Sud globale.

La fiaba del freno all'indebitamento: Tremotino al governo?

Andreas Missbach, Direttore di Alliance Sud  / © Daniel Rihs

 

A lezione di storia s’impara che i progressi scientifici figurano nelle note a piè di pagina. Recentemente ho avuto il piacere di constatare che questo vale anche per la Berna federale. In una nota a piè di pagina del piano finanziario di legislatura, l’Amministrazione federale delle finanze sottolinea la discrepanza tra lo standard internazionale sulla sostenibilità del debito e la prassi svizzera.

In franchi, nonostante la pandemia, nel 2022 il debito era inferiore rispetto al periodo 2002-2008, quando la Svizzera non era affatto in crisi. In ogni caso, non è il debito assoluto a essere decisivo, ma il suo rapporto rispetto al prodotto interno lordo. Quanto è elevato dunque questo tasso? Diamo un’occhiata all’ultima edizione delle cosiddette Basi della gestione finanziaria della Confederazione, una pubblicazione dell’Amministrazione federale delle finanze destinata alle e ai parlamentari. Nel 2022 il tasso d’indebitamento, secondo la definizione dell’UE, era del 26,2% e il tasso d’indebitamento netto, calcolato secondo il metodo del Fondo Monetario Internazionale (FMI), del 15,3%. Tuttavia, secondo il piano finanziario di legislatura (pubblicato un mese dopo le Basi citate), il tasso d’indebitamento netto era pari al 18,1%. Evidentemente non sono solo il Dipartimento della Difesa e il capo dell’esercito ad avere problemi con le cifre.

La ministra delle finanze Karin Keller-Sutter ha dichiarato alla NZZ che il freno all’indebitamento è il suo migliore amico. A noi invece sembra che il freno all’indebitamento sia più simile a Tremotino, che nella fiaba dei fratelli Grimm canzona beffardo: «Nessuno lo sa, nessuno lo sa...». Tuttavia – e questa frase non si potrà mai ripetere abbastanza – indipendentemente dal modo in cui si misura il tasso d’indebitamento della Svizzera, bisogna riconoscere che è ancora ridicolmente basso rispetto agli standard internazionali.

I benefici di un basso indebitamento compensano i suoi costi? È ciò che si chiede Marius Brülhart, professore di economia politica all’Università di Losanna. Poiché ridurre il debito non è gratis. Come sottolinea il professore, ogni franco utilizzato per rimborsare il debito pubblico è un franco che non è disponibile per altri servizi pubblici. E lo scrive sulla rivista di politica economica della SECO. Anche il presidente del Centro Gerhard Pfister ha capito il messaggio, propugnando un finanziamento straordinario per i costi legati all’Ucraina (rifugiati e ricostruzione).

C’è quindi un barlume di speranza all’orizzonte? Urge un ripensamento, poiché il tasso d’indebitamento è il miglior amico della cooperazione internazionale. Grazie ad esso, la Svizzera può facilmente permettersi di contabilizzare i costi degli aiuti all’Ucraina come spese straordinarie, salvando così la cooperazione allo sviluppo nei Paesi del Sud globale.

 

Pubblicato sul Corriere del Ticino il 3 aprile 2024

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Articolo

Un impegno che può costare caro

22.06.2020, Cooperazione internazionale

Per decenni il modello di sviluppo neoliberale ha consapevolmente ignorato la soppressione dei diritti umani e dei suoi difensori. È giunto il momento di un cambiamento di paradigma.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Un impegno che può costare caro
Una volta completata, la Grande Diga del Rinascimento in Etiopia (GERD), che sbarra il fiume Nilo Blu, sarà la più grande centrale idroelettrica dell'Africa.
© Pascal Maitre/Panos