Politica climatica

Scambio di certificati di CO2: tutto fumo e niente arrosto?

03.12.2024, Giustizia climatica

Sia con la legge sul CO2, sia con il nuovo programma di risparmio, la politica svizzera fa sempre più affidamento sui certificati di riduzione delle emissioni di CO2 provenienti dall’estero per raggiungere il suo obiettivo climatico entro il 2030. Ma il piano sembra destinato a fallire: i primi programmi stanno già rivelando serie lacune. Analisi di Delia Berner.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

Scambio di certificati di CO2: tutto fumo e niente arrosto?

Vecchi autobus e mascherine onnipresenti: Bangkok soffre per i gas di scarico, ma gli e-bus finanziati dalla Svizzera sono davvero utili in Thailandia?

© Benson Truong / Shutterstock

A gennaio 2024, la Svizzera ha attirato su di sé l’attenzione del mondo intero, soprattutto tra la comunità esperta nel mercato del carbonio. Infatti, per la prima volta in assoluto, le riduzioni di CO2 sono state trasferite da un Paese all’altro per mezzo di certificati nell’ambito del nuovo meccanismo di mercato dell’Accordo di Parigi sul clima. In concreto, l’introduzione degli autobus elettrici a Bangkok ha consentito alla Thailandia di ridurre le emissioni di CO2 di quasi 2000 tonnellate nel primo anno. La Svizzera ha acquistato questa riduzione per computarla al proprio obiettivo climatico.

Facciamo un passo indietro: entro il 2030, la Svizzera intende risparmiare più di 30 milioni di tonnellate di CO2 all’estero invece che sul territorio nazionale. I primi accordi bilaterali a questo proposito sono stati stipulati nell’autunno del 2020 e nel frattempo ve n’è più di una dozzina. Numerosi altri progetti sono in fase di sviluppo: dagli impianti di biogas e dai fornelli da cucina efficienti nei Paesi più poveri ai sistemi di climatizzazione rispettosi del clima e all’efficienza energetica negli edifici e nell’industria. Finora sono stati approvati solo due programmi al fine di essere considerati per l’obiettivo climatico svizzero. Le 2000 tonnellate di emissioni di CO2 risparmiate in Thailandia sono i primi certificati effettivamente scambiati. Da qui al 2030 resta ancora molto da fare per garantire che la Svizzera abbia un numero sufficiente di certificati da acquistare.

Il primo progetto rischia di fallire...

Ora la rivista “Beobachter”, dopo aver esaminato la documentazione in conformità con la legge sulla trasparenza, ha rivelato che proprio il primo programma a Bangkok rischia di non generare ulteriori certificati. Già un anno fa, l’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) aveva ricevuto accuse secondo le quali l’azienda produttrice dei bus elettrici stava violando il diritto del lavoro nazionale e il diritto alla libertà sindacale sancito dalla convenzione dei diritti dell’uomo. Dopo un accordo provvisorio raggiunto un anno fa, quest’anno sono emerse nuove accuse, che ora l’UFAM deve esaminare: la Svizzera non può autorizzare certificati creati in presenza di una violazione dei diritti umani. L’UFAM ha dichiarato al “Beobachter” che “può e sospenderà” l’ulteriore rilascio di certificati qualora le accuse vengano confermate. Un’ampia ricerca della rivista digitale “Republik” porta alla luce ulteriori accuse: la Svizzera sarebbe addirittura coinvolta in un thriller economico in Thailandia, perché avrebbe alimentato una bolla borsistica di dieci miliardi di franchi ignorando gli avvertimenti.

Anche il secondo progetto approvato genererà meno certificati di quanto prometta: una nuova ricerca di Alliance Sud su un progetto di fornelli da cucina in Ghana mostra che la pianificazione sovrastima le riduzioni di emissioni di 1,4 milioni di tonnellate. A questo punto risulta già chiaro che la compensazione all’estero non è generalmente più economica e certamente non è più facile da attuare rispetto alle misure di protezione del clima in Svizzera. Tali misure dovranno essere introdotte comunque, prima o poi, al fine di raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nette in Svizzera.

Altro che qualche difficoltà iniziale

I primi progetti mostrano le difficoltà nel garantire che grazie a essi venga effettivamente ridotta una certa quantità di CO2 e che siano efficaci in termini di costi. Proprio lo scetticismo sulla reale riduzione è il motivo per cui molti progetti di compensazione hanno fatto notizia negli ultimi anni. L’efficienza in termini di costi, poi, è rilevante poiché la maggior parte dei certificati viene pagata dalla popolazione svizzera attraverso una tassa sul carburante. Per verificare entrambi gli aspetti, l’UFAM dovrebbe esaminare il piano di finanziamento dei progetti. Ad esempio, dovrebbe assicurarsi che i costi di realizzazione non includano margini o profitti sproporzionati, ma che il più possibile dei fondi sia investito nella tutela del clima o nello sviluppo sostenibile, con il coinvolgimento della popolazione interessata nel Paese partner.

Tuttavia, è proprio qui che il sistema di compensazioni svizzere all’estero mostra i suoi punti deboli: dal momento che i certificati non vengono acquistati dalla Confederazione, ma dalla Fondazione per la protezione del clima e la compensazione di CO2 KliK, che converte in certificati i proventi della tassa sul carburante, i “dettagli commerciali” rimangono nascosti al pubblico. Quindi nessuno sa quanto costi una tonnellata di CO2 non emessa grazie all’uso di un bus elettrico a Bangkok o quanto denaro venga investito complessivamente nel progetto dei fornelli da cucina in Ghana, né tanto meno quanto ci guadagnino gli operatori del mercato privato. Nel caso del progetto in Ghana in questione, inoltre, sono state oscurate ampie parti della documentazione pubblicata sul progetto. La trasparenza è ancora peggiore rispetto agli standard quantomeno seri del mercato volontario del carbonio.

Duplice necessità di azione

Queste sfide vanno oltre le semplici difficoltà iniziali e rivelano una duplice necessità di azione da parte della politica svizzera. In primo luogo, è necessario migliorare la mancanza di trasparenza delle informazioni finanziarie sui progetti attraverso l’ordinanza relativa alla legge sul CO2, che è attualmente in fase di adeguamento all’ultima revisione della legge. In secondo luogo, occorre correggere l’idea che la compensazione all’estero sia un modo più economico e semplice per proteggere il clima. La Svizzera deve favorire la protezione del clima entro i propri confini nazionali e, dopo il 2030, raggiungere i suoi obiettivi climatici senza far nuovamente ricorso alle compensazioni di CO2. Alliance Sud invita il Consiglio federale a tenerne conto nella legge sul CO2 dopo il 2030.

Articolo, Global

L’illusione della volontarietà

28.03.2024, Giustizia climatica

Sotto la pressione della società civile e dei media, il mercato del carbonio è caduto in discredito. E a ragione: il sistema attuale non mantiene le sue promesse e pone il Sud globale in una posizione di svantaggio.

Di Maxime Zufferey

L’illusione della volontarietà

Un ricorso eccessivo alla compensazione invece di una riduzione sostanziale delle emissioni non è in alcun modo sostenibile.

© Ishan Tankha / Climate Visuals Countdown

Il mercato volontario del carbonio consente lo scambio di crediti di carbonio. Così un’azienda che continua a emettere CO2 può compensare le proprie emissioni finanziando progetti che riducono le emissioni altrove. In teoria, la compensazione del carbonio è considerata l’approccio di mercato più efficace per ottenere risultati in termini di riduzione delle emissioni a livello globale. Si basa sull’idea di massimizzare l’impatto delle risorse che abbiamo a disposizione per ridurre le emissioni utilizzandole laddove sono più economiche. Ad esempio, dopo aver ridotto le emissioni meno costose, un’azienda potrebbe destinare risorse a progetti tecnologici a basse emissioni di carbonio o a progetti di riforestazione, in modo da compensare matematicamente le emissioni che non è ancora riuscita a ridurre. In pratica, però, l’uso di crediti di compensazione a basso costo è fortemente criticato perché compromette la priorità assoluta di ridurre le emissioni e concorre a mantenere uno status quo insostenibile. Il crescente controllo da parte della società civile ha recentemente messo in dubbio le promesse, spesso ingannevoli, di “neutralità carbonica” formulate da alcune aziende con il pretesto della compensazione, quando in realtà le loro emissioni continuano ad aumentare.

I mercati del carbonio: un bilancio

Dalla sua nascita alla fine degli anni ’80, e in particolare dalla firma del Protocollo di Kyoto nel 1997, il mercato del carbonio è sempre stato oggetto di controversie. Il suo sviluppo ha portato alla nascita di mercati paralleli, talvolta difficili da distinguere a causa delle loro potenziali sovrapposizioni: il mercato del carbonio della “compliance” e il mercato “volontario”. Il mercato della compliance prevede riduzioni obbligatorie delle emissioni ed è regolamentato a livello nazionale o regionale. Il più noto di questi mercati è il sistema di scambio di quote di emissione dell’Unione Europea (EU-ETS), al quale la Svizzera ha aderito nel 2020. In base a questo meccanismo, alcuni grandi emettitori – centrali elettriche e grandi aziende industriali – sono soggetti a un tetto massimo di emissioni, che possono compensare acquistando certificati da altri membri che hanno ridotto le loro emissioni oltre l’obiettivo fissato. Tale limite massimo viene abbassato annualmente. Nonostante la sua attuazione estremamente complessa, questo sistema ha contribuito a una certa riduzione delle emissioni nei settori interessati. Tuttavia, è stato criticato il fatto che nei primi tempi l’assegnazione di certificati gratuiti ai grandi emettitori sia stata troppo generosa e che non siano stati prescritti obiettivi di riduzione sufficientemente ambiziosi. Inoltre, il prezzo del carbonio è ancora troppo basso; dovrebbe riflettere i costi sociali di una tonnellata di emissioni ed essere gradualmente aumentato a 200 USD. Il mercato volontario, invece, non prevede attualmente alcun obiettivo minimo di riduzione e rimane in gran parte non regolamentato. In questo tipo di mercato vengono utilizzati anche crediti di emissione di qualità molto diversa e a prezzi molto diversi (talvolta vengono offerti a meno di 1 USD).

I limiti del mercato volontario

La crisi di fiducia che ha colpito il mercato volontario del carbonio è dovuta non solo alla mancanza di regolamentazione e alla frammentazione del quadro normativo, ma anche ai limiti tecnici di questo meccanismo. I crediti di carbonio raramente corrispondono all’esatta unità di “compensazione” richiesta; il loro effetto è sistematicamente sovrastimato. Ciò è dovuto all’inaffidabilità del metodo di quantificazione e alla mancanza di un sistema di controllo integrale e privo di conflitti di interesse. Ma non è tutto, spesso infatti non è chiaro se i progetti di compensazione soddisfino il criterio dell’addizionalità , cioè se non sarebbero stati realizzati lo stesso senza il contributo finanziario dei crediti di emissione. È il caso in particolare dei progetti nell’ambito delle energie rinnovabili, che sono diventati la fonte di energia più economica nella maggior parte dei Paesi. Rappresentano una sfida importante anche le doppie contabilizzazioni , laddove un credito di emissione viene contabilizzato sia da parte del Paese ospitante sia da parte dell’azienda straniera. Questa procedura contraddice il principio secondo cui un credito può essere dedotto solo da un’unica entità. Il rischio di doppie contabilizzazioni è aumentato con l’Accordo di Parigi perché, a differenza del Protocollo di Kyoto, richiede anche ai Paesi in sviluppo di ridurre le emissioni.

Solleva molti dubbi, inoltre, la questione della permanenza delle compensazioni contabilizzate. L’estrazione e la combustione dei combustibili fossili fanno parte del ciclo del carbonio a lungo termine, mentre la fotosintesi e quindi l’assorbimento del carbonio da parte degli alberi o l’assorbimento negli oceani fanno parte del ciclo biogenico del carbonio a breve termine. Sembra quindi illusorio voler compensare l’accumulo a lungo termine di CO2 nell’atmosfera con progetti di compensazione limitati a pochi decenni. Inoltre, gli stessi cambiamenti climatici causati dall’uomo stanno compromettendo la permanenza del carbonio nei serbatoi temporanei come il suolo e le foreste, vista l’intensificazione degli incendi, dei periodi di siccità e della diffusione di parassiti. Esiste anche il rischio di rilocalizzazione delle emissioni (leakage) se, ad esempio, un progetto di protezione delle foreste in una particolare regione porta alla deforestazione altrove. Le prospettive di soluzioni tecnologiche con dispositivi per la cattura e il sequestro del carbonio non devono essere sopravvalutate. Attualmente non sono né competitive né disponibili a breve termine nella misura richiesta. Probabilmente anche in futuro continueranno a svolgere un ruolo limitato, benché necessario.

Il colonialismo del carbonio acuisce le ingiustizie

A prescindere da tutto ciò, un ricorso eccessivo alla compensazione invece di una riduzione sostanziale delle emissioni è assolutamente insostenibile. Come sottolinea CarbonMarketWatch nel suo rapporto (Corporate Climate Responsibility Monitor) sull’integrità degli obiettivi di protezione del clima delle aziende che si autodefiniscono leader in campo climatico, l’attuazione dei loro attuali piani per il raggiungimento delle “zero emissioni nette” dipende fortemente dalla compensazione. Se proseguisse a questo ritmo, il fabbisogno di terreno per generare quote di emissione supererebbe di gran lunga la disponibilità di suolo, minacciando direttamente la sopravvivenza delle comunità locali, la biodiversità e la sicurezza alimentare. Allo stesso tempo, i progetti popolari di riduzione delle emissioni nel mercato volontario, come la riforestazione o altre “soluzioni basate sulla natura”, sono spesso basati su modelli “fortezza” di conservazione della natura, in cui le aree protette sono delimitate e militarizzate – a scapito degli abitanti originari. Questi progetti non nascono affatto in “spazi vuoti” dove chi inquina può piantare alberi a tappeto, bensì interessano spesso aree abitate da comunità indigene. La nuova corsa all’oro delle soluzioni basate sulla natura attraverso la privatizzazione dei pozzi di carbonio naturali esacerba conflitti fondiari storicamente complessi e rischia di significare l’esproprio per le popolazioni locali . A maggior ragione quando questi progetti limitano il diritto delle comunità indigene all’autodeterminazione e al consenso libero e informato prima dell’approvazione di qualsiasi progetto che riguardi i loro territori.

Nel complesso, il sistema attuale è in larga misura inadeguato ad affrontare l’urgenza della crisi climatica ed è anche profondamente ingiusto. Concede diritti di inquinamento ai maggiori emettitori di gas serra, soprattutto alle grandi aziende e alle economie del Nord del mondo, le quali possono continuare a fare affari come prima, mentre limita i sistemi economici e gli stili di vita in particolare del Sud globale. Questo colonialismo del carbonio trasferisce quindi la responsabilità della lotta al cambiamento climatico e alla deforestazione  dalle grandi aziende alle comunità locali, che sono le meno responsabili del cambiamento climatico.

 

Pubblicato sulla Regione il 27 marzo 2024.

 

 

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La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Articolo

Un nuovo Eldorado per i commercianti di materie prime

07.12.2023, Giustizia climatica

In un mercato del carbonio che comincia a rivelare i suoi limiti, un attore inaspettato si è autoinvitato ai negoziati: i commercianti di materie prime hanno recentemente intensificato il loro commercio di CO2 senza ridurre gli affari nel settore dei combustibili fossili.

Di Maxime Zufferey

Un nuovo Eldorado per i commercianti di materie prime

Il mercato del carbonio fa gola anche ai commercianti di materie prime.

© Nana Kofi Acquah / Ashden 

Gas naturale etichettato “carbon neutral” o cemento etichettato “a emissioni zero”: l’elenco dei beni di consumo apparentemente neutrali per il clima si è allungato sempre di più negli ultimi anni. Il trucco contabile alla base della compensazione delle emissioni di CO2 prevede che l’attore che emette gas a effetto serra – che si tratti di un’azienda, un individuo o un Paese – paghi affinché un altro attore eviti, riduca o azzeri le proprie emissioni. In questo modo, le aziende possono posizionarsi sul mercato come meglio credono, presentandosi alla loro clientela quali aziende impegnate nella tutela del clima, senza tuttavia ridurre le proprie emissioni. Il mercato volontario del carbonio, che oscilla tra un vero e proprio boom e la recente crisi di fiducia innescata dalle accuse di greenwashing, si trova di fronte a un bivio.

Da un lato, vi è la realtà economica di un mercato volontario del carbonio che è quadruplicato fino a raggiungere i 2 miliardi di dollari solo nel 2021, con il potenziale di crescere fino a 50 miliardi di dollari entro il 2030. Ciò ha attirato l’interesse dei maggiori emettitori, principalmente dei commercianti di materie prime. Questa crescita esponenziale del mercato è dovuta in parte al fatto che il settore privato subisce pressioni perché assuma sempre più impegni a favore di emissioni nette pari a zero; in parte al fatto che la compensazione è un’alternativa con vantaggi finanziari e logistici rispetto alla riduzione della propria impronta di carbonio. Dall’altro, vi sono sempre più rapporti sulla scarsa qualità dei progetti del mercato volontario del carbonio. Mettono in guardia riguardo allo sviluppo incontrollato di un mercato il quale effetto reale sulla protezione del clima è quasi inesistente o addirittura controproducente. Il Politecnico federale di Zurigo e l’Università di Cambridge hanno dimostrato che solo il 12% del volume totale dei crediti esistenti nelle aree di compensazione più importanti – energie rinnovabili, fornelli e forni, silvicoltura e processi chimici – riduce effettivamente le emissioni. La piattaforma di giornalismo investigativo Follow the Money ha segnalato cifre massicciamente gonfiate in relazione al progetto di punta Kariba di South Pole. La società con sede a Zurigo ha successivamente annullato il suo contratto di carbon asset developer per il progetto in Zimbabwe. L’ONG Survival International ha mosso gravi accuse contro un progetto di compensazione volontario nel Kenya settentrionale, realizzato sulle terre delle comunità indigene. L’inchiesta ha portato alla luce violazioni potenzialmente gravi dei diritti umani che mettono a rischio le condizioni di vita delle popolazioni pastorali.

Che cos’è dunque il mercato volontario del carbonio? Una soluzione di marketing mal concepita e un pericoloso abbaglio che distrae dall’urgente necessità di misure trasformative a tutela del clima da parte del settore privato? Oppure un’autentica opportunità commerciale per sostenere le misure di protezione del clima delle aziende e un’iniezione di fondi multimiliardari, urgentemente necessari, per progetti di riduzione delle emissioni e di salvaguardia della biodiversità nei Paesi in sviluppo?

Certificati di CO2: la materia prima del futuro

In qualità di pioniere dello scambio bilaterale di certificati di CO2 nell’ambito dell’Accordo di Parigi, la Svizzera è un attore importante nel mercato del carbonio, compreso il suo segmento volontario. È il Paese di origine del principale fornitore di certificati di CO2 volontari, South Pole, e del secondo più grande certificatore, Gold Standard. È forse ancora più sorprendente il posizionamento dei giganti del commercio di materie prime svizzeri e in particolare di quelli con sede a Ginevra in  questo mercato. Sono il fiore all’occhiello di un settore che sta registrando un anno record dopo l’altro. Tuttavia, i nuovi investimenti si spiegano anche con il potenziale che offre questo mercato opaco di ricavare margini considerevoli pur continuando a emettere come prima. Un mercato, si noti bene, che non è regolamentato né in termini di prezzi né di distribuzione dei proventi dalla compensazione di CO2. Secondo Hannah Hauman, responsabile degli scambi di quote di emissione presso Trafigura, il segmento del carbonio è oggi il più grande mercato di materie prime al mondo e ha già superato il mercato del petrolio greggio.

Trafigura, uno dei maggiori commercianti indipendenti di petrolio e metalli al mondo, nel 2021 ha deciso di aprire un proprio ufficio di carbon trading a Ginevra e di lanciare il più vasto progetto di riforestazione di mangrovie sulla costa pakistana. Un anno dopo, il volume degli scambi di quote di emissione ammontava già a 60,3 milioni di tonnellate. Nel suo rapporto annuale per il 2022, il trader energetico Mercuria, con sede a Ginevra, non solo ha dichiarato la sua neutralità rispetto alle emissioni di carbonio, ma ha anche affermato che il 14,9% del suo volume di trading è costituito da mercati di carbonio, rispetto al 2% del 2021. All’inizio del 2023, il cofondatore di Mercuria Marco Dunand ha annunciato la realizzazione di Silvania, un veicolo di investimento con un capitale di 500 milioni di dollari specializzato in soluzioni basate sulla natura (SBN). Poco dopo, con lo Stato brasiliano di Tocantins ha lanciato il primo programma per ridurre le emissioni da deforestazione e degrado forestale con un volume fino a 200 milioni di crediti di carbonio volontari. Tuttavia, il petrolio e il gas rappresentano ancora la principale attività dell’azienda (quasi il 70%). Il vicino di Mercuria sulle rive del Lemano, Vitol, il più grande commerciante privato di petrolio al mondo, ha oltre dieci anni di esperienza nei mercati del carbonio e intende espandere le sue attività in questo settore. L’azienda punta a raggiungere un volume di mercato nello scambio di quote di emissione di CO2 paragonabile alla sua presenza sul mercato del petrolio. In altre parole: 7,4 milioni di barili di greggio e prodotti petroliferi al giorno nel 2022, il che corrisponde a più del 7% del consumo globale di petrolio. Anche il commerciante di greggio Gunvor intende aumentare il volume di scambi di CO2 nei prossimi anni, comunicando tuttavia in maniera meno trasparente; lo stesso vale per Glencore, che è attiva da molti anni nel settore dei pagamenti compensativi per la biodiversità, il fulcro della sua strategia di sostenibilità. Glencore ha stimato le sue emissioni lungo l’intera catena del valore a 370 milioni di tonnellate di CO2-equivalenti nel 2022, più di tre volte le emissioni totali di CO2 della Svizzera.

Queste aziende si dichiarano forze trainanti della transizione e affermano di aver accelerato lo sviluppo integrando lo scambio di quote di emissioni nei loro portafogli. Rimane il fatto che stanno perseguendo una duplice strategia di investimento sia nelle fonti energetiche a basse emissioni di carbonio sia nei combustibili fossili, con un bilancio ancora nettamente a favore dei combustibili fossili. Del resto, nessuno di questi commercianti di materie prime ha ancora annunciato l’intenzione di abbandonare i combustibili fossili. Eppure ciò è essenziale se vogliamo rimanere al di sotto dell’aumento di temperatura di 1,5°C come previsto dall’Accordo di Parigi. La situazione piuttosto è capovolta: le aziende fanno molto affidamento sulle operazioni di compensazione per adempiere ai loro obblighi climatici e perseguono così i loro obiettivi di profitto a breve termine, ritardando al contempo l’abbandono graduale dei combustibili fossili a livello mondiale. Data la mancanza di una regolamentazione che limiti gli investimenti nei combustibili fossili e nelle attività che pregiudicano il clima, è illusorio credere che l’industria del commercio delle materie prime possa realizzare la transizione e che gli obiettivi siano raggiungibili attraverso il mercato volontario del carbonio. Finché le aziende non faranno tutto il possibile per ridurre le proprie emissioni, le soluzioni basate sulla natura non saranno altro che greenwashing e le dichiarazioni d’intenti a favore della transizione rimarranno di facciata: queste aziende stanno fingendo di spegnere il vastissimo incendio che esse stesse hanno alimentato.

Dubai nel ruolo dell’arbitro

Nel mese di dicembre 2023 la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28) a Dubai probabilmente definirà la rotta per il futuro e la credibilità del mercato volontario del carbonio. Uno dei temi oggetto di negoziazione è l’attuazione dell’articolo 6.4 dell’Accordo di Parigi, che potrebbe fungere da quadro uniforme per un vero e proprio mercato globale del carbonio. La COP è presieduta da Sultan Al Jaber, CEO dell’undicesimo produttore mondiale di petrolio e gas, la Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), che ha appena aperto un ufficio di carbon trading. Anche le multinazionali del settore dei combustibili fossili e delle materie prime si sono assicurate una presenza massiccia al tavolo dei negoziati. Le necessità di trasparenza, di regole universali e di controlli efficaci nel mercato volontario del carbonio rischiano quindi di essere trascurate.

Sebbene i sostenitori del mercato volontario del carbonio riconoscano alcune delle attuali debolezze del settore, rimangono convinti che le varie iniziative di autoregolamentazione, come la Voluntary Carbon Markets Integrity Initiative (VCMI), e la creazione di standard permetteranno di differenziare chiaramente i crediti di carbonio ad alta integrità. Gli oppositori, invece, non credono nel potere di trasformazione di un mercato volontario attraverso l’autoregolamentazione. Considerano il dibattito sulla compensazione delle emissioni di CO2 una potenziale manovra diversiva che consolida lo status quo. Chiedono un completo cambiamento di paradigma. L’attuale mercato della compensazione delle emissioni di carbonio basato sul principio “tonnellata per tonnellata” – cioè una tonnellata di CO2 emessa in un luogo è matematicamente compensata da una tonnellata di CO2 risparmiata altrove – dovrebbe essere trasformato in un mercato separato per i contributi al clima basato sul principio “tonnellata per denaro”, cioè una tonnellata di CO2 emessa in un luogo è finanziariamente internalizzata nella misura del costo sociale reale di una tonnellata di emissioni. Si tratterebbe di uno strumento utile per integrare gli impegni di riduzione quantificabili, non per sostituirli. È inoltre urgentemente necessaria un’accurata due diligence per tutti i progetti legati al carbonio, con meccanismi di salvaguardia dei diritti umani e della biodiversità e un efficace meccanismo di denuncia.

 

Opinione

La soluzione non cresce nelle risaie

06.12.2022, Giustizia climatica

Il circo climatico sul continente africano ha ormai levato le sue tende. Un fondo per le perdite e i danni è finalmente diventato realtà. Non si sa però ancora come sarà organizzato e soprattutto come verrà alimentato.

La soluzione non cresce nelle risaie

© Dr. Stephan Barth / pixelio.de

Il bilancio complessivo della COP27 si può riassumere così: «È buona cosa averne parlato», ma adesso parliamo d’altro. All’inizio della conferenza internazionale sul clima, il «New York Times» ha bacchettato la Svizzera con un articolo che criticava le sue compensazioni all’estero. Un primo progetto condotto nell’ambito d’un accordo bilaterale sul clima tra il Ghana e la Svizzera è stato presentato cinque giorni più tardi. Per compensare le emissioni dell’amministrazione federale, i coltivatori di riso dell’Africa occidentale lavoreranno in modo più rispettoso del clima, riducendo le emissioni di metano. Questo progetto può certo sembrare sensato, ma non tiene in considerazione le sfide più importanti volte a ridurre i gas a effetto serra in Africa, dove 600 milioni di persone vivono senza energia elettrica e i due terzi della corrente sono prodotti oggi a partire da combustibili fossili. Un’elettrificazione decentralizzata, affidabile e senza CO2 è possibile; di conseguenza si dovrebbe utilizzare per tale scopo il denaro del «traffico di indulgenze» legato ai certificati di emissione.  

L’Organizzazione delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo ha attirato l’attenzione su una sfida ancor più seria: un quinto dei Paesi dell’Africa subsahariana dipende dalle esportazioni di petrolio. Anche altre nazioni potrebbero sfruttare i loro giacimenti fossili. La Repubblica democratica del Congo, ad esempio, sta mettendo all’asta nuove concessioni; ma finché gli Stati Uniti estrarranno del gas naturale e l’Australia del carbone, il Nord non può assolutamente predicare l’abbandono a questo Paese, che figura tra quelli più poveri.

Inoltre, sono necessarie somme colossali affinché gli attuali esportatori possano rinunciare alla loro principale fonte di reddito. Un motivo in più per utilizzare i rimanenti proventi petroliferi per questa transizione. Ma finora, la corruzione, le appropriazioni indebite e il malgoverno hanno portato allo sperpero di una gran parte di queste risorse. E qui la Svizzera ha la sua parte di responsabilità, come dimostrato da una sentenza a inizio novembre: alcuni impiegati di Glencore hanno attraversato tutta l’Africa in aereo, con valige piene di denaro contante per ottenere petrolio a basso costo.

È necessaria una regolamentazione del commercio delle materie prime per porre fine al coinvolgimento della Svizzera nella maledizione di queste ultime. La Berna federale potrebbe così mettere a disposizione dell’Africa molte risorse finanziarie in più che non acquistando certificati di emissione compensati con il riso.

Compensazioni all’estero

Compensazioni all'estero

La Svizzera deve almeno dimezzare le proprie emissioni di gas serra entro il 2030, ma Consiglio federale e Parlamento non vogliono che ciò avvenga facendo sforzi in Svizzera. Puntano invece soprattutto sulla  compensazione delle emissioni attraverso progetti nel Sud globale, ma ciò è contrario alla giustizia climatica.

Di cosa si tratta >

Di cosa si tratta

Il mercato volontario della compensazione di CO2 viene ancora spesso criticato a causa del computo dubbioso riguardante le riduzioni delle  emissioni. I certificati di compensazione non sono però acquistabili solo dagli attori privati. La Svizzera è il primo Paese che compensa le emissioni per i propri obiettivi climatici ufficiali nell’ambito dell’Accordo di Parigi, soprattutto tramite progetti autorizzati applicando degli accordi bilaterali con i Paesi del Sud globale.

Alliance Sud critica per vari motivi questo ruolo pionieristico inglorioso. Da un lato, la ricca Svizzera nega le possibilità tecnicamente disponibili già da tempo per ridurre le emissioni internamente e con il suo denaro scarica la responsabilità all’estero. Dall’altro, spesso l’effettiva utilità dei progetti di compensazione per il clima mondiale non può essere comprovata, ciò che priva di senso la logica della compensazione. Invece di voler «compensare» le proprie emissioni, la Svizzera deve attuare grosse riduzioni internamente, ma anche finanziare maggiormente la protezione del clima all’estero, per dare il suo equo contributo alla giustizia climatica.

Alliance Sud osserva i progetti di compensazione approvati dal governo elvetico, ne valuta la loro utilità a livello climatico e le ripercussioni sulla popolazione locale nei Paesi partner.