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Un nuovo Eldorado per i commercianti di materie prime
07.12.2023, Giustizia climatica
In un mercato del carbonio che comincia a rivelare i suoi limiti, un attore inaspettato si è autoinvitato ai negoziati: i commercianti di materie prime hanno recentemente intensificato il loro commercio di CO2 senza ridurre gli affari nel settore dei combustibili fossili.
Di Maxime Zufferey
Il mercato del carbonio fa gola anche ai commercianti di materie prime.
© Nana Kofi Acquah / Ashden
Gas naturale etichettato “carbon neutral” o cemento etichettato “a emissioni zero”: l’elenco dei beni di consumo apparentemente neutrali per il clima si è allungato sempre di più negli ultimi anni. Il trucco contabile alla base della compensazione delle emissioni di CO2 prevede che l’attore che emette gas a effetto serra – che si tratti di un’azienda, un individuo o un Paese – paghi affinché un altro attore eviti, riduca o azzeri le proprie emissioni. In questo modo, le aziende possono posizionarsi sul mercato come meglio credono, presentandosi alla loro clientela quali aziende impegnate nella tutela del clima, senza tuttavia ridurre le proprie emissioni. Il mercato volontario del carbonio, che oscilla tra un vero e proprio boom e la recente crisi di fiducia innescata dalle accuse di greenwashing, si trova di fronte a un bivio.
Da un lato, vi è la realtà economica di un mercato volontario del carbonio che è quadruplicato fino a raggiungere i 2 miliardi di dollari solo nel 2021, con il potenziale di crescere fino a 50 miliardi di dollari entro il 2030. Ciò ha attirato l’interesse dei maggiori emettitori, principalmente dei commercianti di materie prime. Questa crescita esponenziale del mercato è dovuta in parte al fatto che il settore privato subisce pressioni perché assuma sempre più impegni a favore di emissioni nette pari a zero; in parte al fatto che la compensazione è un’alternativa con vantaggi finanziari e logistici rispetto alla riduzione della propria impronta di carbonio. Dall’altro, vi sono sempre più rapporti sulla scarsa qualità dei progetti del mercato volontario del carbonio. Mettono in guardia riguardo allo sviluppo incontrollato di un mercato il quale effetto reale sulla protezione del clima è quasi inesistente o addirittura controproducente. Il Politecnico federale di Zurigo e l’Università di Cambridge hanno dimostrato che solo il 12% del volume totale dei crediti esistenti nelle aree di compensazione più importanti – energie rinnovabili, fornelli e forni, silvicoltura e processi chimici – riduce effettivamente le emissioni. La piattaforma di giornalismo investigativo Follow the Money ha segnalato cifre massicciamente gonfiate in relazione al progetto di punta Kariba di South Pole. La società con sede a Zurigo ha successivamente annullato il suo contratto di carbon asset developer per il progetto in Zimbabwe. L’ONG Survival International ha mosso gravi accuse contro un progetto di compensazione volontario nel Kenya settentrionale, realizzato sulle terre delle comunità indigene. L’inchiesta ha portato alla luce violazioni potenzialmente gravi dei diritti umani che mettono a rischio le condizioni di vita delle popolazioni pastorali.
Che cos’è dunque il mercato volontario del carbonio? Una soluzione di marketing mal concepita e un pericoloso abbaglio che distrae dall’urgente necessità di misure trasformative a tutela del clima da parte del settore privato? Oppure un’autentica opportunità commerciale per sostenere le misure di protezione del clima delle aziende e un’iniezione di fondi multimiliardari, urgentemente necessari, per progetti di riduzione delle emissioni e di salvaguardia della biodiversità nei Paesi in sviluppo?
Certificati di CO2: la materia prima del futuro
In qualità di pioniere dello scambio bilaterale di certificati di CO2 nell’ambito dell’Accordo di Parigi, la Svizzera è un attore importante nel mercato del carbonio, compreso il suo segmento volontario. È il Paese di origine del principale fornitore di certificati di CO2 volontari, South Pole, e del secondo più grande certificatore, Gold Standard. È forse ancora più sorprendente il posizionamento dei giganti del commercio di materie prime svizzeri e in particolare di quelli con sede a Ginevra in questo mercato. Sono il fiore all’occhiello di un settore che sta registrando un anno record dopo l’altro. Tuttavia, i nuovi investimenti si spiegano anche con il potenziale che offre questo mercato opaco di ricavare margini considerevoli pur continuando a emettere come prima. Un mercato, si noti bene, che non è regolamentato né in termini di prezzi né di distribuzione dei proventi dalla compensazione di CO2. Secondo Hannah Hauman, responsabile degli scambi di quote di emissione presso Trafigura, il segmento del carbonio è oggi il più grande mercato di materie prime al mondo e ha già superato il mercato del petrolio greggio.
Trafigura, uno dei maggiori commercianti indipendenti di petrolio e metalli al mondo, nel 2021 ha deciso di aprire un proprio ufficio di carbon trading a Ginevra e di lanciare il più vasto progetto di riforestazione di mangrovie sulla costa pakistana. Un anno dopo, il volume degli scambi di quote di emissione ammontava già a 60,3 milioni di tonnellate. Nel suo rapporto annuale per il 2022, il trader energetico Mercuria, con sede a Ginevra, non solo ha dichiarato la sua neutralità rispetto alle emissioni di carbonio, ma ha anche affermato che il 14,9% del suo volume di trading è costituito da mercati di carbonio, rispetto al 2% del 2021. All’inizio del 2023, il cofondatore di Mercuria Marco Dunand ha annunciato la realizzazione di Silvania, un veicolo di investimento con un capitale di 500 milioni di dollari specializzato in soluzioni basate sulla natura (SBN). Poco dopo, con lo Stato brasiliano di Tocantins ha lanciato il primo programma per ridurre le emissioni da deforestazione e degrado forestale con un volume fino a 200 milioni di crediti di carbonio volontari. Tuttavia, il petrolio e il gas rappresentano ancora la principale attività dell’azienda (quasi il 70%). Il vicino di Mercuria sulle rive del Lemano, Vitol, il più grande commerciante privato di petrolio al mondo, ha oltre dieci anni di esperienza nei mercati del carbonio e intende espandere le sue attività in questo settore. L’azienda punta a raggiungere un volume di mercato nello scambio di quote di emissione di CO2 paragonabile alla sua presenza sul mercato del petrolio. In altre parole: 7,4 milioni di barili di greggio e prodotti petroliferi al giorno nel 2022, il che corrisponde a più del 7% del consumo globale di petrolio. Anche il commerciante di greggio Gunvor intende aumentare il volume di scambi di CO2 nei prossimi anni, comunicando tuttavia in maniera meno trasparente; lo stesso vale per Glencore, che è attiva da molti anni nel settore dei pagamenti compensativi per la biodiversità, il fulcro della sua strategia di sostenibilità. Glencore ha stimato le sue emissioni lungo l’intera catena del valore a 370 milioni di tonnellate di CO2-equivalenti nel 2022, più di tre volte le emissioni totali di CO2 della Svizzera.
Queste aziende si dichiarano forze trainanti della transizione e affermano di aver accelerato lo sviluppo integrando lo scambio di quote di emissioni nei loro portafogli. Rimane il fatto che stanno perseguendo una duplice strategia di investimento sia nelle fonti energetiche a basse emissioni di carbonio sia nei combustibili fossili, con un bilancio ancora nettamente a favore dei combustibili fossili. Del resto, nessuno di questi commercianti di materie prime ha ancora annunciato l’intenzione di abbandonare i combustibili fossili. Eppure ciò è essenziale se vogliamo rimanere al di sotto dell’aumento di temperatura di 1,5°C come previsto dall’Accordo di Parigi. La situazione piuttosto è capovolta: le aziende fanno molto affidamento sulle operazioni di compensazione per adempiere ai loro obblighi climatici e perseguono così i loro obiettivi di profitto a breve termine, ritardando al contempo l’abbandono graduale dei combustibili fossili a livello mondiale. Data la mancanza di una regolamentazione che limiti gli investimenti nei combustibili fossili e nelle attività che pregiudicano il clima, è illusorio credere che l’industria del commercio delle materie prime possa realizzare la transizione e che gli obiettivi siano raggiungibili attraverso il mercato volontario del carbonio. Finché le aziende non faranno tutto il possibile per ridurre le proprie emissioni, le soluzioni basate sulla natura non saranno altro che greenwashing e le dichiarazioni d’intenti a favore della transizione rimarranno di facciata: queste aziende stanno fingendo di spegnere il vastissimo incendio che esse stesse hanno alimentato.
Dubai nel ruolo dell’arbitro
Nel mese di dicembre 2023 la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28) a Dubai probabilmente definirà la rotta per il futuro e la credibilità del mercato volontario del carbonio. Uno dei temi oggetto di negoziazione è l’attuazione dell’articolo 6.4 dell’Accordo di Parigi, che potrebbe fungere da quadro uniforme per un vero e proprio mercato globale del carbonio. La COP è presieduta da Sultan Al Jaber, CEO dell’undicesimo produttore mondiale di petrolio e gas, la Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), che ha appena aperto un ufficio di carbon trading. Anche le multinazionali del settore dei combustibili fossili e delle materie prime si sono assicurate una presenza massiccia al tavolo dei negoziati. Le necessità di trasparenza, di regole universali e di controlli efficaci nel mercato volontario del carbonio rischiano quindi di essere trascurate.
Sebbene i sostenitori del mercato volontario del carbonio riconoscano alcune delle attuali debolezze del settore, rimangono convinti che le varie iniziative di autoregolamentazione, come la Voluntary Carbon Markets Integrity Initiative (VCMI), e la creazione di standard permetteranno di differenziare chiaramente i crediti di carbonio ad alta integrità. Gli oppositori, invece, non credono nel potere di trasformazione di un mercato volontario attraverso l’autoregolamentazione. Considerano il dibattito sulla compensazione delle emissioni di CO2 una potenziale manovra diversiva che consolida lo status quo. Chiedono un completo cambiamento di paradigma. L’attuale mercato della compensazione delle emissioni di carbonio basato sul principio “tonnellata per tonnellata” – cioè una tonnellata di CO2 emessa in un luogo è matematicamente compensata da una tonnellata di CO2 risparmiata altrove – dovrebbe essere trasformato in un mercato separato per i contributi al clima basato sul principio “tonnellata per denaro”, cioè una tonnellata di CO2 emessa in un luogo è finanziariamente internalizzata nella misura del costo sociale reale di una tonnellata di emissioni. Si tratterebbe di uno strumento utile per integrare gli impegni di riduzione quantificabili, non per sostituirli. È inoltre urgentemente necessaria un’accurata due diligence per tutti i progetti legati al carbonio, con meccanismi di salvaguardia dei diritti umani e della biodiversità e un efficace meccanismo di denuncia.
Medienmitteilung
La giustizia climatica al centro a Marrakech
27.10.2016, Giustizia climatica
Alla prima conferenza dell’ONU dopo Parigi si parlerà della promessa dei paesi industrializzati di aumentare i loro contributi ai paesi in via di sviluppo a 100 miliardi USD all’anno entro il 2020.
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Comunicato
COP28: più finanziamenti per il Sud globale
27.11.2023, Giustizia climatica
La Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP28), che si terrà dal 30 novembre al 12 dicembre a Dubai, svolge un ruolo fondamentale affinché gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima possano ancora essere raggiunti. Per uno sviluppo nel Sud del mondo rispettoso del clima urge maggiore sostegno finanziario, anche da parte della Svizzera.
Colata detritica in Perù.
© Alberto Orbegoso
Dopo i 12 mesi più caldi degli ultimi 125 000 anni, le aspettative nei confronti della comunità internazionale alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici COP28 sono enormi. «È necessario correggere rapidamente la rotta se si vuole che l’obiettivo fissato nell’Accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius possa ancora essere raggiunto», dichiara Delia Berner, esperta in clima presso Alliance Sud, il centro di competenza svizzero per la cooperazione internazionale e la politica di sviluppo. «Per ogni decimo di grado di riscaldamento in più, aumenta la sofferenza delle persone più povere, le stesse che hanno contribuito meno alla crisi climatica». Alliance Sud chiede alla Svizzera di allineare la sua posizione negoziale ai bisogni delle popolazioni più povere del Sud globale.
A tre anni dall’inizio dell’attuazione dell’Accordo di Parigi gli Stati firmatari, nell’ambito del meccanismo di innalzamento delle ambizioni, negozieranno per la prima volta a Dubai il bilancio globale sull’attuazione dell’accordo. «Il successo della COP28 dipenderà da quanto le risoluzioni sul bilancio globale rifletteranno la triste realtà, ovvero che i piani nazionali di protezione del clima non sono complessivamente abbastanza ambiziosi per raggiungere gli obiettivi. Abbiamo assolutamente bisogno di piani concreti su come si possono colmare le lacune e quali processi sono previsti a tal fine», sottolinea Stefan Salzmann di Azione Quaresimale.
Una questione urgente verte sulla svolta del settore energetico e su chi la finanzia. Gli investimenti del settore privato non possono fare miracoli in questo senso. Finora non sono stati in grado di soddisfare le esigenze di finanziamento dei Paesi più poveri. Soprattutto i rischi più elevati o percepiti come tali inibiscono chi potrebbe investire. Inoltre, nei Paesi più poveri i finanziamenti privati per le misure di adattamento sono praticamente inesistenti.
Per una transizione energetica giusta...
La presidenza della COP28, gli Emirati Arabi Uniti, si sta concentrando sullo sviluppo delle energie rinnovabili, senza però al contempo impegnarsi a ridurre rapidamente i combustibili fossili. La transizione di cui abbiamo bisogno, tuttavia, deve includere entrambi gli elementi, poiché l’espansione delle rinnovabili non permette da sola di ridurre i gas serra.
«Nonostante l’urgenza di nuovi investimenti, non bisogna dimenticare le persone che lavorano nelle fabbriche e nei campi. Dobbiamo tenere d’occhio il loro benessere se vogliamo un cambiamento giusto», sottolinea Cyrill Rogger di Solidar Suisse. Annette Mokler di terre des hommes Svizzera aggiunge: «I gruppi di popolazione interessati e le comunità indigene devono essere direttamente coinvolti nei piani per un cambiamento giusto». Una cosa è già chiara: la transizione verso le energie rinnovabili nel Sud del mondo potrà funzionare solo se il sostegno finanziario, ovvero il finanziamento internazionale a tutela del clima, aumenterà significativamente.
...servono più finanziamenti climatici
Non mancano fondi solo per la decarbonizzazione: le lacune nell’adattamento alle mutate condizioni climatiche nel Sud del mondo si stanno ampliando. Secondo l’ultimo “Rapporto sul divario di adattamento 2023” del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, ogni miliardo di dollari investito nell’adattamento ai cambiamenti climatici preverrebbe 14 miliardi di dollari di danni econo¬mici. «Gli attuali finanziamenti climatici da parte dei Paesi industrializzati riescono a coprire meno di un decimo del fabbisogno finanziario per l’adattamento nel Sud globale. Ciò è problematico perché porta a danni sempre maggiori e a perdite più elevate», avverte Christina Aebischer di Helvetas.
Le questioni riguardanti il finanziamento determinano da anni il programma e i punti di discussione della conferenza sul clima. Non è una coincidenza, considerando che almeno 28 dei Paesi del Sud globale più colpiti dall’impatto della crisi climatica hanno anche gravi problemi di debito. Molti Paesi non sono in grado di finanziare misure di protezione del clima con il proprio bilancio perché al posto di farlo devono onorare il proprio debito, cadendo in un circolo vizioso.
Il fondo per i danni e le perdite va riempito
Quest’anno, la comunità internazionale intende deliberare sulle modalità del fondo cosiddetto Loss and Damage concordato nel 2022. L’attuale testo di compromesso elaborato da 30 Stati non prevede un carattere molto vincolante per quanto riguarda i contributi. Se rimane così, è ancora più importante che gli Stati inquinanti approfittino della conferenza per garantire la rapida istituzione e il riempimento del fondo. «I Paesi industrializzati sostengono che non ci sono soldi. Allo stesso tempo, le multinazionali traggono miliardi di profitti dai combustibili fossili e dalle industrie ad alta intensità di CO2. È ovvio che queste aziende devono contribuire a rimediare ai danni che causano», spiega Cybèle Schneider di Heks/Eper.
«Uno dei motivi principali per cui i negoziati sul sostegno finanziario al Sud globale sono così spinosi è la perdita di fiducia dei Paesi poveri nei confronti dei Paesi ricchi come la Svizzera», puntualizza Sonja Tschirren di SWISSAID, «perché i Paesi industrializzati non stanno pagando il conto precedente». Nel 2009 è stato deciso di stanziare 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020 per sostenere i piani di tutela del clima e di adattamento dei Paesi del Sud globale. Tuttavia, gli ultimi dati OCSE mostrano che questo obiettivo è stato mancato già di oltre 10 miliardi nel 2021. «La Svizzera e altri Paesi ricorrono a trucchi contabili per abbellire il loro contributo al finanziamento climatico», spiega Angela Lindt di Caritas Svizzera: «Invece di stanziare nuovi fondi, come concordato a livello internazionale, Paesi come la Svizzera stanno utilizzando principalmente fondi che erano stati stanziati per la riduzione della povertà. Non c’è da stupirsi che ci sia molta diffidenza nei negoziati». Alliance Sud chiede da anni che la Svizzera contribuisca con 1 miliardo di dollari all’anno al finanziamento climatico senza gravare sul bilancio della cooperazione internazionale.
Per ulteriori informazioni:
- Alliance Sud, Delia Berner, esperta in politica climatica internazionale, tel. 077 432 57 46, delia.berner@alliancesud.ch
- Azione Quaresimale, Stefan Salzmann, responsabile energia e giustizia climatica, tel. 041 227 59 53, salzmann@fastenaktion.ch. Stefan Salzmann è a Dubai come osservatore.
- Solidar Suisse, Cyrill Rogger, Desk Officer Europa sudorientale, tel. 044 444 19 87, cyrill.rogger@solidar.ch
- terre des hommes Svizzera, Annette Mokler, responsabile Politica di sviluppo e coordinamento programmi Sahara occidentale, tel. 061 335 91 53, annette.mokler@terredeshommes.ch
- Helvetas, Katrin Hafner, coordinatrice delle relazioni con i media, tel. 044 368 67 79, katrin.hafner@helvetas.org. Christina Aebischer è a Dubai come osservatrice.
- Heks/Eper, Cybèle Schneider, specialista in giustizia climatica, tel. 079 900 37 08, cybele.schneider@heks.ch
- SWISSAID, Sonja Tschirren, esperta in clima e agricoltura ecologica, tel. 079 363 54 36, s.tschirren@swissaid.ch
- Caritas Svizzera, Angela Lindt, responsabile Servizio Politica di sviluppo, tel. 041 419 23 95, alindt@caritas.ch
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I danni ci sono, i finanziamenti non ancora
24.11.2023, Giustizia climatica
La discussione su chi debba pagare per i danni e le perdite conseguenti al riscaldamento climatico va avanti da decenni. Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Dubai quest’anno, per la prima volta, si negoziano le modalità di pagamento. I risultati urgono.
Una catastrofe nazionale che si ripete sempre più spesso: la siccità in Kenia.
© Ed Ram /Getty Images
«Nel mio Paese, il Kenia, è già la sesta volta di seguito che non arriva la stagione delle piogge». La sera del 22 giugno 2023, Elizabeth Wathuti parla a voce alta al microfono sul Champ de Mars a Parigi, per farsi sentire dalle migliaia di persone presenti. «Ciò ha causato perdite di raccolti, siccità prolungata e insicurezza alimentare. Ha aumentato enormemente i costi per la nostra agricoltura». Mentre la giovane attivista racconta gli effetti della crisi climatica sullo sfondo della Tour Eiffel e chiede giustizia climatica insieme ad altre e altri che come lei tengono un discorso, il Presidente francese Emmanuel Macron riceve i suoi ospiti da tutto il mondo a un banchetto nel vicino Palais. Per tutta la giornata, su invito di Macron, nell’ambito di un vertice internazionale avevano discusso delle sfide e dei modi per aumentare i finanziamenti a favore dello sviluppo sostenibile nel Sud globale. Il risultato: se ne ridiscuterà alla prossima conferenza.
Il finanziamento internazionale a tutela del clima, che ha come scopo la riduzione delle emissioni di gas serra e l’adattamento al riscaldamento climatico nel Sud del mondo, è da anni legato all’impegno che sono tenuti a dimostrare secondo il diritto internazionale i Paesi industrializzati mediante i loro contributi all’obiettivo di finanziamento collettivo di 100 miliardi di dollari all’anno. Tuttavia, la mancanza di volontà politica negli Stati che causano la crisi climatica ha fatto sì che questa somma non sia mai stata raggiunta.
Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di novembre 2022 (COP27) a Sharm el-Sheikh, gli Stati del Sud globale sono riusciti per la prima volta a negoziare il finanziamento dei danni e delle perdite dovuti al clima, anche grazie a decenni di sostegno da parte delle organizzazioni della società civile di tutto il mondo. Eppure già da anni i danni e le perdite si aggirano sui miliardi (le stime variano a seconda della definizione) e colpiscono maggiormente le persone che hanno meno mezzi per prepararsi o adattarsi ai cambiamenti climatici. Inoltre, in Paesi già fortemente indebitati i danni e le perdite portano a un ulteriore indebitamento. L’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) distingue tra danni o perdite derivanti da eventi graduali (ad esempio l’innalzamento del livello del mare) ed eventi improvvisi (ad esempio tempeste e inondazioni). Oltre alle perdite e ai danni quantificabili a livello economico, si verificano anche danni non quantificabili, come i danni ai beni culturali o agli ecosistemi.
Alla conferenza COP28 di quest’anno a Dubai, il finanziamento “Loss and Damage” sarà uno dei principali temi delle trattative. Le parti contraenti, infatti, si sono date un anno fa il compito di adottare nel 2023 disposizioni più dettagliate su come dovranno essere finanziati danni e perdite. La discussione si limita ai Paesi particolarmente vulnerabili alle conseguenze della crisi climatica. A tal fine dovrebbe essere costituito un fondo ONU a cui contribuiscono gli Stati inquinanti. In questo contesto, si sta discutendo di fonti di finanziamento globali innovative, con le quali si potrebbero far pagare anche attori privati secondo il principio del “chi inquina paga”. «Se tali proposte saranno accettate, potrebbero dover contribuire al finanziamento anche le imprese ad alta intensità di emissioni di tutto il mondo», scrive Robin Poëll, portavoce dell’UFAM, su richiesta di Alliance Sud. Tuttavia, la probabilità che una tale imposta globale a favore del fondo ONU si avveri per ora non è molto alta. In attesa di ciò, la Svizzera potrebbe dare il buon esempio e vagliare l’introduzione di un’imposta di questo tipo almeno sulle imprese che danneggiano il clima in Svizzera, in modo tale da risarcire le perdite e i danni nel Sud globale.
La perdita di fiducia complica le trattative
Il vero pomo della discordia alla conferenza sul clima, tuttavia, sarà probabilmente quello di stabilire quali Paesi debbano versare capitali nel fondo e verso quali Paesi il denaro debba affluire. Per stabilirlo, occorre definire o meglio negoziare quali Paesi sono da considerare particolarmente vulnerabili. Per quanto riguarda la questione ancora più politica di chi debba pagare in quanto Stato inquinante, la responsabilità storica della crisi climatica, chiaramente attribuibile ai Paesi industrializzati, va combinata con l’attuale confronto delle emissioni di gas serra tra i Paesi; in quest’ultimo, i maggiori Paesi emergenti presentano una quota maggiore. I Paesi donatori che finora hanno sostenuto gli obiettivi di finanziamento climatico sono stati definiti nel 1992. La Svizzera intende ora fare in modo che un maggior numero di Paesi debba versare il proprio contributo al fondo. Secondo il portavoce dell’UFAM, «la Svizzera auspica che i Paesi che contribuiscono maggiormente a causare il cambiamento climatico e hanno le capacità necessarie siano tenuti a impegnarsi. Ciò significa, in concreto, che dovrebbero contribuire al finanziamento anche le economie emergenti benestanti con emissioni elevate di gas serra nonché gli attori privati».
Tuttavia, la Svizzera e altri Paesi donatori del Nord globale finora su questo punto si sono scontrati con la resistenza del Sud del mondo. Poiché i Paesi industrializzati non hanno mantenuto le loro promesse di finanziamento, non hanno la credibilità necessaria in termini di giustizia climatica. La Svizzera, ad esempio, non ha calcolato la propria “quota equa” di finanziamento climatico in base alla propria impronta climatica complessiva, ma solo in base alle emissioni sul territorio nazionale. Per non parlare del mancato raggiungimento dell’obiettivo climatico che consisteva nel ridurre le emissioni del 20% entro il 2020. La perdita di fiducia tra Nord e Sud, in ultima analisi, complica anche le trattative in merito a obiettivi climatici più ambiziosi e all’abbandono graduale dei combustibili fossili. I Paesi del Sud globale però devono poter garantire i loro finanziamenti per le energie rinnovabili, per non rimanere emarginati globali.
Il tempo stringe, i danni e le perdite sono già tangibili e in continuo aumento. Anche perché, secondo il rapporto mondiale sul clima, la carenza di finanziamenti per l’adattamento al riscaldamento globale è sempre maggiore. E in ogni caso, le persone non possono adattarsi a qualsiasi cambiamento. Il ministro degli Esteri della nazione insulare del Pacifico Tuvalu l’ha ricordato lasciando un’impressione indelebile quando, poco prima della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Glasgow nel 2021, senza esitare si è arrotolato i pantaloni, ha piazzato il suo leggio in acqua e ha tenuto un discorso per richiamare l’attenzione sull’innalzamento del livello del mare.
A Glasgow, Elizabeth Wathuti si è rivolta al mondo intero in occasione dell'apertura della conferenza sui cambiamenti climatici: «Entro il 2025, metà della popolazione mondiale sarà confrontata con problemi di scarsità idrica. E prima dei miei cinquant’anni la crisi climatica avrà fatto sfollare 86 milioni di persone nella sola Africa subsahariana». Nessuna conferenza può porre fine alla crisi climatica da un giorno all’altro. Ma rimediare finanziariamente ai danni e alle perdite già avvenuti è assolutamente necessario.
© Karwai Tang
Elizabeth Wathuti, giovane attivista per il clima
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Comunicato stampa
Alliance Sud dice «Sì» alla Legge clima
03.05.2023, Giustizia climatica
Le direttrici e i direttori di Alliance Sud e dei suoi membri sono concordi nel ribadire che la Legge clima è un primo passo verso una maggior giustizia climatica.
È ora che la Svizzera dia il suo contributo alla lotta contro la crisi climatica globale. Le ripercussioni peggiori del riscaldamento terrestre riguardano le persone più povere del sud del mondo, che tuttavia alimentano in minor misura il cambiamento climatico. Nel mese di marzo di quest’anno, il ciclone «Freddy» ha battuto numerosi record a livello mondiale. La tempesta tropicale, che è durata più di un mese e ha provocato la morte di oltre 1000 persone in Mozambico, Malawi e Madagascar, ha lasciato dietro di una scia di distruzione. È stata la tempesta tropicale più lunga mai registrata finora ed ha accumulato così tanta energia come mai nessun altro ciclone era riuscito a fare prima.
Il ciclone «Freddy» lo conferma: le catastrofi climatiche nel sud globale generano danni e perdite sempre più grandi. «I Paesi con un basso reddito sono più vulnerabili alle conseguenze negative della crisi climatica, ad esempio quando mancano i soldi per adattarsi al cambiamento climatico», spiega Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, il centro di competenza svizzero per la politica di sviluppo e di cooperazione internazionale. «L'ultimo rapporto mondiale sul clima mostra che, in caso di uno stesso evento meteorologico estremo, il numero di morti in una regione vulnerabile è 15 volte superiore rispetto a una regione ben adattata, come la Svizzera».
La Svizzera ha la responsabilità di contribuire in modo adeguato al contenimento del riscaldamento climatico. Il confronto delle emissioni annue pro capite di gas serra causate dal consumo mostra inequivocabilmente la discrepanza tra la Svizzera (14 tCO2) e le nazioni più colpite, come il Malawi (0.1 tCO2), il Mozambico (0.3 tCO2) o il Madagascar (0.1 tCO2).
Per la protezione della Svizzera e del sud globale
La Legge clima sancisce gli obiettivi per ridurre a zero le emissioni elvetiche entro il 2050. «Questo è il minimo che la Svizzera deve raggiungere», afferma Bernard DuPasquier, vicedirettore di HEKS/EPER: «Un contributo davvero equo alla protezione del clima significherebbe che la Svizzera avanzi ancor più velocemente». Franziska Lauper, direttrice di Terre des Hommes Svizzera, aggiunge: «Dobbiamo agire subito, affinché le generazioni future – qui da noi, ma pure nel sud del mondo – non debbano patirne ancora le conseguenze».
Per questo è fondamentale il dimezzamento delle emissioni previsto dalla legge entro il 2030. In effetti, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) insiste sul fatto che si debbano adottare misure di protezione del clima più incisive ancora in questo decennio, per evitare il superamento del limite di 1,5 gradi. «Il limite di 1,5 gradi per il riscaldamento globale non è stato scelto in modo arbitrario, ma si fonda su basi scientifiche ed è sancito dall’Accordo sul clima di Parigi», ricorda Melchior Lengsfeld, direttore di Helvetas, che aggiunge: «Le conseguenze di ogni ulteriore aumento sarebbero devastanti, in particolare per le popolazioni del sud globale».
Il rapporto dell’IPCC mostra anche le possibilità esistenti per raggiungere la neutralità climatica. «Ci vuole una rapida decarbonizzazione, anche in Svizzera. Tecnicamente ciò sarebbe fattibile già da molto tempo. Dobbiamo porre fine all’uso di energie fossili, il più presto possibile», sostiene Bernd Nilles, direttore di Azione Quaresimale. Peter Lack, direttore di Caritas Svizzera, aggiunge: «La legge prevede che la protezione climatica venga attuata in maniera socialmente compatibile. Ciò è importante, poiché così può essere sostenuta anche da persone con un reddito basso e beneficerebbe quindi di un appoggio più ampio».
Per una maggior sicurezza alimentare ed energetica
La protezione del clima è davvero fondamentale per la sicurezza alimentare. «Il rapporto mondiale sul clima dimostra che, in generale, la produttività agricola diminuisce con il riscaldamento climatico. La produzione di cibo sano e variato, in quantità sufficiente, diventa più difficile a causa della crescente siccità e dell’imprevedibilità del tempo – sia per noi, sia soprattutto per le piccole famiglie contadine dei Paesi poveri», sottolinea Markus Allemann, direttore di SWISSAID. «L’alimentazione è però anche una parte della soluzione, se ci nutriamo in modo più ecologico e rispettoso del clima».
Un «Sì» alla Legge clima non solo è importante per la sicurezza dell’approvvigionamento e per l’ottenimento delle nostre fonti di sussistenza, ma è anche un’opportunità per dare un segnale alla comunità mondiale: il popolo svizzero prende sul serio la crisi climatica. «Con le molteplici crisi attuali e le catastrofi climatiche sempre più violente nel sud del mondo è importante che, con un «Sì» alla protezione del clima, diamo anche un segno della nostra solidarietà», riassume Felix Gnehm, direttore di Solidar Suisse. «Vogliamo una transizione giusta verso un mondo rispettoso del clima e questo implica la protezione del clima in Svizzera».
Per ulteriori informazioni:
Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, +41 31 390 93 30
Delia Berner, Esperta di politica climatica, Alliance Sud, +41 77 432 57 46
Marco Fähndrich, Responsabile media e comunicazione, Alliance Sud, +41 79 374 59 73
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Articolo
La misteriosa ascesa del finanziamento svizzero
06.12.2022, Giustizia climatica
Tra il 2011 e il 2020, il contributo annuale della Svizzera per la protezione del clima nei Paesi in via di sviluppo ed emergenti è più che triplicato. Troppo bello per essere vero?
Le devastanti inondazioni in Pakistan sono solo un esempio tra i tanti: ogni anno gli effetti del riscaldamento climatico sono più marcati e visibili. Le nazioni più povere e i gruppi di popolazione più vulnerabili sono spesso quelli più duramente toccati. Fanno fatica ad adattarsi ai cambiamenti climatici, sia per proteggere le loro coste dalle tempeste e dalle inondazioni, sia per adattare la loro agricoltura alle ondate di calore e alla siccità. Al tempo stesso, per limitare il riscaldamento del pianeta a 1,5°C è necessaria la neutralità climatica in tutti i Paesi. Da qualsiasi punto di vista lo si guardi, il cambiamento climatico resta una sfida mondiale.
Il Nord del mondo è responsabile della crisi climatica, ma non solo: ha infatti a disposizione anche la maggior parte delle risorse finanziarie, sia per la lotta contro il cambiamento climatico («mitigazione»), sia per l’adattamento a quest’ultimo. Già nel 2010, la comunità internazionale aveva deciso che i Paesi industrializzati dovevano mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo ed emergenti 100 miliardi di dollari all’anno, a partire dal 2020, affinché questi Paesi potessero finanziare lo sviluppo della loro società «zero netto», come pure l’adattamento necessario ai cambiamenti climatici. Secondo la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, deve trattarsi di risorse finanziarie nuove e addizionali. Ma la volontà politica non è bastata per ottenere una spartizione vincolante della fattura tra gli Stati responsabili. Non è quindi sorprendente che l’obiettivo globale non sia stato raggiunto nel 2020. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), è stato raccolto un importo di 83,3 miliardi di dollari — calcolato ottimisticamente con le cifre ufficiali degli Stati donatori; il 71% dei fondi è però stato dato in prestito e dovrà quindi essere rimborsato. Ciò contribuisce all’indebitamento delle nazioni beneficiarie.
Il Consiglio federale, facendo un mix tra il principio del «chi consuma paga» e la nostra prosperità, calcola che la Svizzera deve contribuire con una somma tra i 450 e i 600 milioni di dollari all’obiettivo di finanziamento planetario. Una somma troppo bassa. Considerando le emissioni della Svizzera all’estero, la parte equa ammonterebbe infatti a 1 miliardo . Il Consiglio federale indica pure da dove dovrebbe provenire la maggior parte dei fondi: dall’attuale budget della cooperazione internazionale. Nel corso degli anni, quest’ultimo non è aumentato di più rispetto al budget generale della Confederazione. Si tratta di denaro che al tempo stesso deve servire per adempiere gli obiettivi internazionali in materia d’aiuto pubblico allo sviluppo (dove invece la Svizzera non è sulla buona strada). Insomma, il nostro Paese fa figurare gli importi due volte, ma li paga una sola volta.
In quest’ottica, la Svizzera comincia a mettere sempre di più l’accento sul clima nell’ambito della cooperazione allo sviluppo e attribuisce sempre più progetti al finanziamento climatico. Ciò spiega il raddoppiamento del contributo della Svizzera ai progetti climatici bilaterali dal 2011 al 2020. Responsabili di questi ultimi, la Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) e la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) hanno ovviamente il diritto di considerare maggiormente il cambiamento climatico nei loro progetti. Tuttavia non è chiaro se tutti i progetti siano davvero concepiti in modo da tener conto del clima oppure se essi vengano classificati come tali solo a posteriori. Comunque sia, sono sempre contabilizzati due volte con la cooperazione allo sviluppo.
Un secondo motivo del forte aumento del finanziamento climatico dichiarato risiede nei contributi della Svizzera a istituzioni multilaterali, come il Fondo verde per il clima (FVC), nonché a istituzioni dalle tematiche allargate, come le banche di sviluppo. I fondi climatici sono stati appositamente creati per l’attuazione della Convenzione sul clima. Il contributo svizzero a questi fondi è giustamente in aumento, ma nel 2020 rappresentava solo un terzo del finanziamento climatico multilaterale della Svizzera. Gli altri due terzi vengono investiti tramite delle banche di sviluppo, Banca mondiale in primis. Ora, osserviamo qui un fenomeno simile a quello della cooperazione bilaterale allo sviluppo: vengono contabilizzati nel finanziamento climatico sempre più progetti, che già precedentemente figuravano nel portafoglio. Con nuovi metodi d’imputazione per i contributi multilaterali, il finanziamento climatico elvetico prende improvvisamente l’ascensore, a più riprese, nel corso degli anni.
Così, per il 2020, il nostro Paese comunica all'ONU il suo contributo pari a 411 milioni di dollari di fondi pubblici per il finanziamento climatico, ai quali si aggiungono 106 milioni di dollari di fondi privati «mobilitati» grazie a dei fondi pubblici (ad esempio mediante finanziamenti incentivanti o garanzie per degli investimenti privati ad alto rischio). Il Consiglio federale non trova nulla da ridire. Le risorse nuove e addizionali per il finanziamento climatico, che non sono state «rubate» al budget dello sviluppo, rappresentano tuttavia solo una frazione minima, sotto forma di modesti contributi ai fondi climatici multilaterali — ossia 68 milioni di dollari. A volte vale la pena analizzare i conti della Confederazione.
Finanziamento in ambito climatico
Nella politica climatica internazionale, il finanziamento climatico significa il sostegno finanziario a dei Paesi in via di sviluppo ed emergenti in campo climatico. I Paesi più poveri sono quelli meno responsabili della crisi climatica e sono loro ad avere meno risorse finanziarie per lottare contro i mutamenti climatici e per adattarsi a questi cambiamenti. Il finanziamento in ambito climatico è però solo un aspetto della giustizia climatica. La riduzione delle emissioni di CO2 nel Nord globale, Svizzera inclusa, è altrettanto cruciale per il Sud globale.
Per saperne di più, leggete la scheda informativa di Alliance Sud (in francese).
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Opinione
Providencia: la paura è ancora qui
17.03.2021, Giustizia climatica
A metà novembre del 2020 l’uragano Iota, classificato a forza 4, ha lambito le coste caraibiche, investendo soprattutto l' isola di Providencia, dove è stato distrutto il 98% delle strutture. Ecco la testimonianza di Hortencia Amor Cantillo.
Il paradiso di Providencia trasformato nell'anticamera dell'inferno
© Hortencia Amor Cantillo
Con mio marito e i miei due figli ho già affronta due uragani negli anni passati, ma non è stato niente in confronto a Iota, della cui forza non ci siamo subito resi conto. È stato terrificante. È arrivato di notte. La prima impressione, all’alba, è quella lasciata dalla distruzione e dalla devastazione. È come vivere uno stato di shock: è semplicemente impossibile credere a ciò che si ha davanti agli occhi.
Più nessun tetto sopra la testa
I livelli di distruzione erano così importanti che non sapevamo più da dove ricominciare. La mia famiglia ha perso la piccola pensione (posada) che ci permetteva di vivere (il turismo è da sempre fonte per il nostro sostentamento economico); anche il piccolo centro per bambini e adolescenti che gestivo è stato in gran parte distrutto.
Bisogna dire che molte persone hanno perso davvero tutto. Alcuni sono rimasti solo con quello che avevano addosso. Molti si sono rifugiati nelle poche case in cemento rimaste parzialmente in piedi. Poco dopo l’uragano, il governo ha inviato delle tende che purtroppo si sono rivelate di scarsa qualità; con le forti piogge l’acqua è penetrata dal suolo al loro interno. Si tratta di tende che andrebbero bene per qualche giorno, ma alcune persone ci vivono ormai dal 16 novembre e si lamentano perché tutto al loro interno è bagnato. Le persone che hanno ricevuto le tende le hanno sistemate sui pavimenti di cemento, dove prima sorgevano le loro case, o nei bagni, siccome alcuni di essi sono costruiti in cemento. Per le donne e gli uomini che hanno perso tutto le condizioni di vita sono molto difficili. La tempesta si è portata via tutto. Anche il nostro tetto, al secondo piano della casa, è stato completamente rimosso; ne abbiamo recuperate alcune parti, ma il resto nessuno sa dove sia finito. In ogni caso siamo stati fortunati.
Un po’ di fortuna nella nostra sfortuna
All’incirca una settimana dopo la tempesta è arrivata un’ONG che ha iniziato a distribuire un pasto caldo al giorno. Il suo personale alloggia in diverse parti dell’isola. Qui a San Felipe, si sono installati nella chiesa cattolica; a mezzogiorno suonano le campagne e la gente si reca a prendere il pranzo e un frutto. La squadra è sempre presente, ma anche per loro non è facile perché il cibo è preparato a San Andrés e poi trasportato in aereo sull’isola di Providencia. I soccorritori stanno cercando delle soluzioni per preparare i pasti sul posto e aggirare gli intoppi connessi alla complicata logistica che spesso provocano ritardi nella fornitura degli alimenti. Grazie a Dio, finora, abbiamo beneficiato del loro sostegno!
Il governo s’impegna in prima linea a fornire i tetti alle case che sono rimaste ancora in piedi; molti di essi sono il frutto di donazioni da parte di privati. I tetti sono installati con l’aiuto dell’esercito, della polizia nazionale, della marina e dell’aereonautica, della protezione civile e della Croce Rossa. Tutti questi attori e queste organizzazioni sono sul posto per contribuire alla ricostruzione. Il processo è però molto lento, soprattutto per coloro che hanno subito la distruzione completa della propria casa e che attendono il loro turno per il sostegno. Per le persone che si ritrovano con la casa solo parzialmente danneggiata, la ricostruzione potrà essere più rapida, ma non conosciamo le tempistiche effettive. Nel frattempo tutti riflettono sul da farsi ed elaborano piani d’azione. Stiamo facendo tutto il possibile per velocizzare il processo. Evidentemente per determinate attività dipendiamo dall’aiuto: per ripristinare le spiagge abbiamo bisogno di macchinari e sulle coste, in particolare, ci sono molti detriti che non possiamo rimuovere da soli.
Restiamo qui
La natura impiegherà ancora più tempo per riprendersi. Qui ci sono alcuni alberi molto alti: li chiamiamo «cotton trees». Vivo sull’isola da 26 anni e li ho da sempre ammirati. Sono dei giganti dai tronchi molto possenti; devono essere molto vecchi. Ora molti di questi alberi sono stati completamente sradicati, alcuni sono rimasti in piedi ma hanno perso tutti i loro rami e le loro foglie. Ci vorranno parecchi anni per vederli ricrescere. Anche le barriere coralline sono state distrutte e ci vorrà molto tempo per la loro riabilitazione.
Ogni anno, da luglio alla fine di novembre, arriva la stagione degli uragani. La paura è sempre con noi e sarà difficile superare un altro uragano di questa intensità. Non siamo i soli in questa situazione; le coste degli Stati Uniti, il Messico e il Nicaragua sono anch’essi esposti al rischio di uragani. Siamo consapevoli del fatto che catastrofi di questo genere possono avvenire di continuo. Come sostiene anche mio marito, d’ora in poi ogni casa dovrebbe avere una stanza costruita in cemento dove potersi rifugiare. In ogni caso le catastrofi accadono in tutto il mondo, terremoti e così via.
Qualcuno mi ha chiesto se avessi voluto lasciare Providencia. Ho risposto di no perché di pericoli ce ne sono di ogni sorta in tutto il mondo. È triste e fa male, ma siamo qui e ci restiamo. L’isola di Providencia era il nostro piccolo paradiso e faremo tutto il possibile per farla ritornare tale.
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Articolo, Global
Chi sostiene i costi dei danni climatici?
22.03.2021, Giustizia climatica
Il "Pantanal" sudamericano è una delle più grandi zone umide interne del mondo. Dall'inizio del 2020, sta affrontando gli incendi più catastrofici della sua storia.
© Lalo de Almeida/Folhapress/Panos
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global
La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.
Articolo, Global
Sottovalutati i sintomi della malattia del clima
06.12.2021, Giustizia climatica
Oggi la comunità scientifica è concorde nel pensare che siamo già confrontati con una crisi climatica dalle conseguenze devastanti ma l’opinione pubblica sottovaluta l’importanza della crisi climatica e il suo impatto sul pianeta e sulle persone.
Bernd Nilles, presidente di Alliance Sud e direttore di Sacrificio Quaresimale
© Fastenopfer
Già nel 1989, una campagna di manifesti lanciata da Sacrificio Quaresimale rendeva attenti ai pericoli legati al cambiamento climatico. Ma per 40 anni sono state adottate solo delle timide misure e le emissioni di gas a effetto serra hanno continuato a crescere nel mondo. Oggi, la comunità scientifica è concorde nel pensare che siamo già confrontati con una crisi climatica dalle conseguenze devastanti per un numero sempre maggiore di persone nel mondo, anche da noi. Malgrado gli avvertimenti del mondo scientifico e i fenomeni meteorologici estremi, l’opinione pubblica sottovaluta ancora l’importanza della crisi climatica e il suo impatto sul pianeta e sugli esseri umani. A farsi attendere, soprattutto da parte degli ambienti politici, sono delle misure risolute: anche un vertice sul clima come quello di Glasgow non può far altro che fornire al massimo il contributo che i 190 governi nazionali, tra i quali la Svizzera, sono disposti a dare.
Durante la COP26, il presidente della Confederazione Guy Parmelin ha affermato giustamente che è stato fatto troppo poco. Tuttavia, non ha detto che sono proprio i Paesi ricchi come la Svizzera che si sottraggono alle loro responsabilità. Spetta quindi a noi continuare a ricordare che la crisi climatica è già una realtà. In Africa, in Asia e in America latina, le popolazioni lottano contro le inondazioni e le siccità dovute in gran parte alla crisi climatica. Ne va della loro sopravvivenza. E pure la Svizzera risente sempre più di questa crisi.
È quindi ancor più importante che, a livello di politica svizzera, le organizzazioni non governative, le Chiese e i media fungano da portavoce per i gruppi di popolazione più vulnerabili del mondo. Tuttavia, questo è esattamente ciò che diversi politici “liberali” hanno cercato d’impedire da un anno, con i loro tentativi d’intimidazione, approfittando dell’iniziativa per multinazionali responsabili. E com’è possibile che nelle commissioni parlamentari, alcuni politici, uomini e donne, tra l’altro sistematicamente critici verso la burocrazia e le regolamentazioni, sostengano una mozione del consigliere agli Stati Ruedi Noser, sinonimo di obblighi burocratici senza uguali? Voler esaminare minuziosamente le attività politiche di tutte le organizzazioni senza scopo di lucro e minacciare di revocare, se necessario, il loro esonero fiscale equivale solo a esacerbare l’enorme squilibrio che esiste nella nostra società.
Alliance Sud continuerà a fare tutto il possibile affinché la politica non resti solo una questione di soldi e di colore politico. La maggioranza popolare in favore dell’iniziativa per multinazionali responsabili, proprio un anno fa, ha chiaramente dimostrato che la popolazione desidera una Svizzera in cui la politica e l’economia non servano unicamente degli interessi nazionali e finanziari. Spesso, questi ultimi ostacolano anche una politica climatica appropriata. Per il nuovo anno il mio augurio è che noi prendiamo sul serio i sintomi della malattia del nostro pianeta, diamo la priorità agli esseri umani e all’ambiente e prendiamo finalmente dei provvedimenti risoluti.
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Opinione
Dopo Glasgow, la Svizzera deve accelerare!
06.12.2021, Giustizia climatica
La dichiarazione finale della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici non è la fine della strada: la crisi climatica si aggrava e il budget della Svizzera sta per finire. L'analisi di Stefan Salzmann, esperto di Azione Quaresimale.
La crisi climatica sta già minacciando l'esistenza degli stati insulari. Ecco perché il ministro degli Esteri di Tuvalu ha inviato un messaggio alla COP26 in un ambiente speciale: a Funafuti, proprio nell'Oceano Pacifico.
© EyePress via AFP
Grandine e pioggia durante l’estate in Svizzera, caldo in Canada, incendi in Grecia e in Russia, siccità in Iran: il recente rapporto d’agosto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ha attestato che l’allerta era rossa. Gli specialisti del clima affermano senza giri di parole che l’ampiezza del riscaldamento climatico antropico è senza precedenti da diversi secoli, o addirittura da millenni. La frequenza e l’intensità delle canicole e delle forti precipitazioni, come pure le aridità agricole ed ecologiche, aumenteranno e si assoceranno sempre più spesso. I cambiamenti già osservati attualmente si amplificheranno diventando irreversibili. Ogni decimo di grado in più della temperatura media mondiale fa la differenza, in particolare per le persone più povere e più vulnerabili del pianeta.
Confrontando gli obiettivi dell’accordo di Parigi alle promesse fatte, il rapporto d’ottobre del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) ha appurato che gli obiettivi presentati dai diversi Paesi portano il pianeta verso un riscaldamento di 2,7°C. E parallelamente, scrive ancora l’UNEP, mancano sempre delle risorse finanziarie sufficienti per le misure d’adattamento nei Paesi poveri: i bisogni sono fino a dieci volte superiori ai fondi che le nazioni industrializzate, all’origine della crisi, mettono a disposizione.
La volontà c’è, ma nessuno traccia la strada da seguire
Sotto questi auspici, gli organizzatori britannici della 26ª Conferenza mondiale sul clima hanno dimostrato tanta buona volontà. Durante la prima settimana d’incontri, sono state annunciate quasi quotidianamente delle nuove iniziative mondiali: l’iniziativa di transizione mondiale dal carbone verso l’energia pulita, l’iniziativa volta a frenare la deforestazione mondiale o ancora quella delle reti verdi (Green Grids Initiative), per non citarne che alcune. L'Agenzia internazionale dell’energia ha calcolato con una certa euforia che questi sforzi potrebbero portare a un riscaldamento planetario di solo 1,8 gradi, nella misura in cui tutte le promesse venissero mantenute. Ed è proprio qui che sta il problema: nessuna di queste iniziative è accompagnata da un piano d’attuazione. I Paesi che prendono questi impegni sono gli stessi che non sono riusciti a fornire il finanziamento climatico promesso nel 2009 per il 2020. E se delle nazioni come il Brasile firmano l’iniziativa sulla deforestazione, ciò può apparire come un barlume di speranza, ma in termini di realpolitik, è più probabilmente una condanna a morte per questo piano ambizioso che, come tutti gli altri piani ambiziosi, lascia la sua attuazione alle misure politiche volontarie delle singole nazioni.
E la Svizzera?
Anche la Svizzera è sotto pressione: dopo che anche il piccolo passo della legge riveduta sul CO2 è stato giudicato troppo grande dalla maggioranza della popolazione nel giugno 2021, la delegazione guidata dall’Ufficio federale dell’ambiente s’è recata a Glasgow senza una base legale concreta. Anche qui, tutte le trattative sulla ricerca del finanziamento in ambito climatico si sono arenate. Per dei motivi a prima vista comprensibili: anche i Paesi emergenti ricchi devono implicarsi nel finanziamento del clima e non è accettabile che la Cina e Singapore si facciano passare per dei Paesi in via di sviluppo e non vogliano sborsare nulla. Ma quando si è una delle nazioni più ricche del mondo, addurre simili argomenti non serve a niente per coloro le cui basi d’esistenza dipendono da queste decisioni – come i più poveri e i più vulnerabili del pianeta. Per loro, i negoziati bloccati, poco importa da chi, sono sinonimo di disperazione, di sofferenze e di strategie di sopravvivenza precarie.
Perdite e danni
Sono in gioco le basi esistenziali di molte persone, e per qualcuno queste basi sono già ridotte all’osso. Nel gergo tecnico, le «perdite e i danni» designano i problemi irreversibili causati dal riscaldamento planetario: sono le conseguenze climatiche che oltrepassano la capacità d’adattamento dei Paesi, delle comunità e degli ecosistemi. Una casa persa da una famiglia a causa dell’innalzamento del livello del mare è inghiottita per sempre. Questi danni e perdite sono già una realtà oggi e cresceranno ulteriormente per ogni decimo di grado di temperatura in più. Per questo motivo la società civile ha fatto di questa questione una priorità assoluta a Glasgow.
Budget climatico della Svizzera: presto esaurito
La Svizzera fa parte dei Paesi più ricchi e storicamente ha emesso delle quantità considerevoli di gas a effetto serra. Proprio per questo motivo sarebbe opportuno che aiuti gli altri a riparare i danni già causati. In settembre, degli specialisti in etica sociale appartenenti a dieci istituzioni ecclesiastiche hanno discusso su un budget residuo di CO2 compatibile con la protezione del clima. Appoggiandosi su dati approvati scientificamente, hanno calcolato la parte di gigatonnellate di CO2 ancora disponibili a livello mondiale alla quale la Svizzera avrebbe diritto se intende avere un comportamento che sia rispettoso del clima. Hanno fatto ciò che i climatologi non possono fare: hanno ponderato e interpretato i calcoli dei modelli dal punto di vista morale. Ne è scaturito che la quantità residua di CO2, compatibile con la preservazione del clima, sarà esaurita nella primavera 2022. Un’ulteriore prova che la strategia del Consiglio federale, che mira a un tasso netto d’emissioni di gas a effetto serra nullo entro il 2050, non ha più nulla a che vedere con la giustizia.
E adesso?
È in occasioni come la Conferenza sul clima di Glasgow che la Svizzera ufficiale dovrebbe provare che la giustizia le sta a cuore. Uno dei modi più semplici per riuscirci è quello di mettere a disposizione di altri Paesi delle risorse finanziarie: dei fondi supplementari che alimentano il credito di sviluppo per le misure d’attenuazione e d’adattamento. E più capitali per indennizzare le perdite e i danni già occorsi. Le basi per tali mandati di negoziato sono state poste a livello nazionale durante la fase preparatoria. Lo stesso dicasi per gli obiettivi climatici nazionali, che devono essere più ambiziosi, anche in Svizzera, se si vuole ancora raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima. I dibattiti sul controprogetto indiretto all’iniziativa sui ghiacciai, nonché il rilancio della revisione della legge sul CO2 sono un’ultima possibilità, prima che sia troppo tardi: l’obiettivo dello zero netto entro il 2040 al più tardi, una traiettoria di riduzione lineare entro quella data e un abbandono coerente degli agenti energetici fossili sono tutti da considerare come imperativi.
Stefan Salzmann è copresidente dell’Alleanza climatica svizzera e incaricato del programma per la giustizia climatica presso Sacrificio Quaresimale.
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