Prospettiva Sud

L’Africa, continente chiave della transizione energetica

02.10.2025, Giustizia climatica

In Africa è ora di promuovere l’estrazione responsabile di materie prime per permettere al continente di beneficiare delle sue riserve di minerali di transizione, migliorare le condizioni di vita delle sue cittadine e dei suoi cittadini e ridurre al minimo le ripercussioni negative dell’attività estrattiva. Di Emmanuel Mbolela

L’Africa, continente chiave della transizione energetica

Le mine di Rubaya al centro del conflitto tra Congo e Ruanda.

© Eduardo Soteras Jalil / Panos Pictures

La transizione energetica mondiale è una conditio sine qua non nella lotta al riscaldamento climatico globale ed è la chiave per garantire un futuro energetico sostenibile alle prossime generazioni. Da anni il tema è protagonista dei dibattiti politici e pubblici sia nel Nord sia nel Sud del mondo. In questo contesto il continente africano svolge un ruolo fondamentale, trattandosi senza dubbio del più importante pozzo di assorbimento del carbonio a livello globale grazie alla sua straordinaria biodiversità. Inoltre, l’Africa è ricca di svariati minerali di transizione (rame, cobalto, litio, nichel, coltan, tantalio), indispensabili in tutto il mondo per la produzione di batterie per veicoli elettrici, lo stoccaggio di energie rinnovabili e le tecnologie innovative. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), la domanda di questi minerali aumenterà da quattro a sei volte entro il 2040.  

Cosa rappresentano queste previsioni per il continente africano stesso, che ha in serbo e fornisce tali materie prime strategiche? L’Africa continuerà ad essere spremuta delle sue materie prime oppure conoscerà un rapido sviluppo grazie al processo di transizione energetica?

L’Africa è sempre stata al centro dei grandi sconvolgimenti che hanno portato all’industrializzazione, ma pagando un caro prezzo. 

La storia si ripete

Se guardiamo al passato, noteremo che l’Africa è sempre stata al centro dei grandi sconvolgimenti che hanno portato all’industrializzazione, ma pagando un caro prezzo. All’epoca della tratta degli schiavi, africane e africani venivano rapiti con la forza e deportati in America su navi in condizioni disumane per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e cotone. Un altro capitolo oscuro è quello del caucciù, utilizzato per la produzione di gomme per automobili. L’impiego di questo materiale ha sì rivoluzionato l’industria automobilistica, ma la sua estrazione ha lasciato enormi cicatrici nei Paesi africani produttori. Indelebili nella memoria collettiva rimarranno i metodi atroci, tra mani mozzate e donne e bambini presi in ostaggio, con cui il re del Belgio, Leopoldo II, costrinse la popolazione congolese a estrarre una maggiore quantità di quest’oro bianco, solamente per arricchirsi personalmente e far prosperare il regno belga. Senza le materie prime dall’Africa, la rivoluzione industriale del XX secolo non sarebbe mai avvenuta. E che dire dell’uranio estratto nel sud della Repubblica democratica del Congo, utilizzato per realizzare la bomba atomica che pose fine alla seconda guerra mondiale? 

Ebbene, ancora oggi le risorse nel continente africano sono molto ricercate, in particolare le risorse minerarie. Lo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche e di comunicazione dipende dalle materie prime africane, soprattutto dal coltan, che viene impiegato principalmente per la fabbricazione di smartphone e laptop. Malgrado la ricchezza della sua terra, a livello di sviluppo globale paradossalmente l’Africa chiude la classifica. La sua gente è spinta a correre rischi altissimi alla ricerca dell’eldorado. A migliaia muoiono nel deserto o in alto mare, sotto lo sguardo complice e colpevole di chi avrebbe i mezzi per salvarli, ma si rifiuta di farlo con il pretesto che avrebbe un effetto calamita.

 

Emanuel Mbolela lächelt vor gelb-grünlich leuchtenden Laubbäumen in die Kamera. Er trägt ein hellviolettes Hemd und ein Pulli mit Kragen.

Emmanuel Mbolela è nato nel 1973 a Mbuji-Mayi, nel centro della Repubblica democratica del Congo. Ha studiato economia nella sua città natale, ma ha dovuto lasciare il Paese nel 2002 per motivi politici. Vive nei Paesi Bassi dal 2008. 
 

È attivista e sostenitore dei diritti fondamentali dei migranti nonché autore del libro “Rifugiato. Un’odissea africana”, Milano: Agenzia X. È il fondatore di un’associazione per i rifugiati e le comunità migranti e l’iniziatore di un rifugio di emergenza che ospita temporaneamente le donne migranti e i loro bambini.
 

L'Africa, ancora una volta, risponde presente: presentandosi quale soluzione al riscaldamento globale, in quanto pozzo di assorbimento del carbonio, nonché fornitrice di materie prime indispensabili alla transizione energetica. 

Oggi gli occhi sono nuovamente puntati sull’Africa. E l’Africa, ancora una volta, risponde presente. Come ha sempre fatto nelle svolte storiche dell’industrializzazione, presentandosi questa volta quale soluzione al riscaldamento globale, in quanto pozzo di assorbimento del carbonio, nonché fornitrice di materie prime indispensabili alla transizione energetica. 
 

Ma se le rivoluzioni industriali del passato hanno consentito lo sviluppo del Nord migliorando la qualità di vita della popolazione, in Africa non hanno lasciato che morte e distruzione. Basti pensare alla Repubblica democratica del Congo, devastata da ormai 30 anni da una guerra di spopolamento e ricolonizzazione della parte orientale del Paese, sede di enormi miniere di minerali di transizione. Questo conflitto armato, nonostante il Paese stesso non abbia un’industria d’armamento, ha già causato milioni di morti e centinaia di migliaia di persone sfollate interne e rifugiate. Le violenze sessuali su donne e bambini vengono utilizzate su larga scala come arma di guerra: la popolazione viene costretta ad abbandonare le proprie città e i propri villaggi, lasciando la propria terra, che viene immediatamente sfruttata per l’estrazione di ulteriori minerali. 
 

Mentre la domanda di minerali esplode, assistiamo a pratiche predatorie e illegali ai fini della loro estrazione: nelle miniere lavorano bambini, i conflitti armati vengono provocati in maniera mirata e vengono firmati accordi senza la minima trasparenza non solo da multinazionali, ma anche da Stati. A febbraio 2024, ad esempio, l’Unione europea ha negoziato un accordo con il Ruanda sulla commercializzazione di materie prime critiche, pur sapendo che i metalli offerti dal Ruanda sul mercato internazionale provenivano esclusivamente da saccheggi nella Repubblica democratica del Congo, con cui il Ruanda era in conflitto armato.

Cobalto proveniente da una regione nel Congo sotto il controllo di Glencore. 

© Pascal Maitre / Panos Pictures

 

ll 27 giugno a Washington, con la mediazione del governo Trump, è stato firmato un accordo di pace tra la Repubblica democratica del Congo e il Ruanda. L’accordo, preceduto da negoziati tra le autorità congolesi e americane sull’estrazione di materie prime rare, è in linea con la logica del presidente Trump di barattare la pace con minerali strategici. È il governo del business man: Trump si dice disposto a porre fine all’aggressione del confinante Ruanda contro la Repubblica democratica del Congo a condizione che quest’ultima cooperi con gli Stati Uniti nell’estrazione delle risorse. È evidente che questo accordo, di cui Donald Trump tanto si vanta, altro non è che un canale d’accesso a minerali essenziali per gli Stati Uniti.

 

Le multinazionali non sono interessate a creare posti di lavoro a lungo termine né a pratiche minerarie sostenibili.
 

 

Un accordo del genere porterà inevitabilmente a una pace senza pane e a conflitti tra le grandi potenze sul suolo africano. Tanto più che le multinazionali che potrebbero insediarsi in Congo sono guidate dal principio della massimizzazione del profitto e quindi esporterebbero le materie prime estratte per lavorarle nei rispettivi Paesi. Non sono infatti interessate a creare posti di lavoro a lungo termine né a pratiche minerarie sostenibili.
 

Con il conflitto tra le grandi potenze che sta nascendo in territorio congolese – in particolare tra Unione Europea e Stati Uniti – si potrebbe ripetere quanto accaduto in Congo-Brazzaville nel 1997. In quella situazione, il governo democraticamente eletto fu rovesciato perché il presidente Lissouba aveva firmato accordi di estrazione petrolifera con imprese americane, a scapito di quelle francesi che avevano sede nel Paese da decenni. Queste ultime non esitarono allora a riarmare l’ex presidente Sassou-Nguesso, con l’obiettivo di rovesciare Pascal Lissouba. Scoppiò una guerra che causò centinaia di migliaia di vittime e altrettante persone sfollate interne e rifugiate. In seguito fu etichettata guerra etnica.
 

Un altro esempio è il mega-progetto lanciato dagli Stati Uniti e sostenuto dall’UE per costruire un collegamento ferroviario tra la Repubblica democratica del Congo e lo Zambia fino al porto di Lobito in Angola. Il progetto, inaugurato in Angola dall’ex presidente USA Joe Biden negli ultimi giorni del suo mandato, mira ad accorciare le vie di trasporto delle materie prime. Ricorda i progetti dell’epoca coloniale, quando strade e ferrovie non venivano costruite con lo scopo di collegare tra loro e sviluppare le colonie, ma per collegare le zone o le regioni minerarie con gli oceani e i mari e facilitare così il trasporto delle materie prime alle metropoli. 

 

I giovani chiedono riforme che pongano fine al saccheggio, affinché le materie prime smettano di essere una maledizione e portino prosperità e benessere alla popolazione

 

La giovane popolazione africana, che assiste ogni giorno alla partenza di migliaia di container pieni di queste ricchezze e li vede lasciare il continente per destinazioni lontane (Europa, USA, Canada, Cina...), chiede profonde riforme. Riforme che pongano fine al saccheggio, affinché le materie prime smettano di essere una maledizione e portino prosperità e benessere alla popolazione. In particolare, i profitti derivanti dalle riserve strategiche di minerali di transizione dovrebbero essere massimizzati a beneficio dei Paesi estrattori, in modo che possano migliorare le condizioni di vita e si riduca l’impatto sociale e ambientale dell’attività estrattiva. 
 

Responsabilizzare le imprese
 

È quindi giunto il momento di estrarre dai cassetti delle Nazioni Unite le misure internazionali pertinenti, come i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, le Linee guida OCSE per le imprese multinazionali e le linee guida del gruppo di esperti del Segretario generale delle Nazioni Unite sui minerali critici per la transizione energetica. 

 

Se la transizione energetica vuole essere giusta ed equa, dovrebbe pagare chi inquina e non chi ne subisce le spese. 

 

Impegni come l’iniziativa per multinazionali responsabili in Svizzera hanno urgente bisogno di sostegno. Il successo di iniziative simili dipende anche da una sufficiente sensibilizzazione della popolazione nei confronti dei drammi umani e dei danni ambientali provocati dall’industria mineraria in Africa. Tali iniziative sostengono la società civile nei Paesi africani, la quale si impegna giorno e notte ai fini di una maggiore responsabilità sociale e ambientale delle imprese minerarie. 
 

Quando si tratta di stipulare contratti sull’estrazione mineraria, spesso manca trasparenza e le comunità locali ne rimangono all’oscuro. Qui le multinazionali del settore si trovano in una chiara posizione di potere, e ovviamente la sfruttano appieno per calpestare i diritti della popolazione ed eludere qualsiasi buona prassi. Vengono ignorate le regole fondamentali della salute pubblica e lesi i diritti della popolazione locale. Con le loro pratiche causano inquinamento atmosferico e avvelenano le acque, provocando malattie spesso sconosciute alla popolazione, mietendo così vite umane e aggravando ulteriormente la crisi della salute pubblica. 
 

La popolazione africana è ancora in attesa che i Paesi del Nord ne riconoscano il ruolo. Un ruolo, quello dell’Africa, che merita finanziamenti a favore del clima e compensazioni per gli sforzi richiesti alla popolazione in termini di tutela dell’ambiente. Se la transizione energetica vuole essere giusta ed equa, dovrebbe pagare chi inquina e non chi ne subisce le spese. 
 

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La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Iniziativa per la responsabilità ambientale

Rispettare i limiti del pianeta? Ma certo!

24.01.2025, Giustizia climatica

Il 9 febbraio i cittadini e le cittadine voteranno su un’iniziativa popolare che chiede alla Svizzera di ridurre la propria impronta ecologica. Si tratta di una condizione indispensabile per attenuare le disuguaglianze a livello globale e proteggere insieme il nostro pianeta. Alliance Sud dice «sì» all’iniziativa per la responsabilità ambientale.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

Rispettare i limiti del pianeta? Ma certo!

© Alleanza per la responsabilità ambientale

Finché non sarà possibile trasferirsi su un pianeta alternativo, proteggere la Terra è nell’interesse di tutta l’umanità. Alcuni anni fa, il ricercatore svedese Johan Rockström ha spiegato in un documentario insieme a David Attenborough, leggendario naturalista della BBC, cosa deve fare l’umanità per proteggere le basi della vita per tutti: deve rispettare i «limiti planetari». Questo concetto illustra come vi siano dei limiti oltre i quali la natura non sopporta più l’inquinamento e il rischio di giungere a dei punti di non ritorno è reale. Se l’ecosistema collassa giungendo a uno di questi punti, diventa impossibile evitare la perdita delle condizioni fondamentali per la vita. La considerevole scomparsa di biodiversità e l’eccesso delle emissioni di gas serra sono tra le aree in cui è più urgente intervenire. È per questo che nell’Accordo di Parigi sul clima, ad esempio, è stato fissato l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Oltre tale limite, l’umanità corre il grave rischio che si verifichino danni irreversibili.

 

L’iniziativa popolare è una risposta alla mancata volontà da parte di Consiglio federale e Parlamento di discutere seriamente la questione delle risorse.

 

L’iniziativa per la responsabilità ambientale chiede alla Svizzera di ridurre, entro dieci anni, il suo consumo di risorse a un livello tale che la sua quota di popolazione, in proporzione a quella mondiale, richieda un solo pianeta. Con ciò l’iniziativa considera che ci sono molte altre persone sulla Terra che vogliono e che hanno il diritto di avere un futuro degno di essere vissuto. Con l’«Agenda 2030», la comunità degli Stati delle Nazioni Unite si è posta l’obiettivo che nessuno debba più vivere nella povertà entro il 2030. Oggi le persone che vivono in povertà consumano poche risorse, soprattutto nel Sud del mondo, ma ne avranno bisogno un po’ di più in futuro per vivere una vita al di fuori della povertà. È quindi necessario che le società ricche e consumatrici riducano il loro consumo di risorse più della media globale. L’iniziativa popolare è una risposta alla mancata volontà da parte di Consiglio federale e Parlamento di discutere seriamente la questione delle risorse, e ciò malgrado un dato di fatto: continuare come ora significherebbe oltrepassare i limiti del pianeta.

 

Ulteriori informazioni:

 

Consiglio streaming: «Breaking Boundaries: The Science of our Planet», 2021, con Johan Rockström e David Attenborough, disponibile su Netflix.

Global, Opinione

La fiaba del freno all'indebitamento: Tremotino al governo?

05.04.2024, Cooperazione internazionale, Finanza e fiscalità

La Confederazione deve davvero risparmiare? Urge un ripensamento, poiché il tasso d’indebitamento è il miglior amico della cooperazione internazionale. Grazie ad esso, la Svizzera può facilmente permettersi di contabilizzare i costi degli aiuti all’Ucraina come spese straordinarie, salvando così la cooperazione allo sviluppo nei Paesi del Sud globale.

La fiaba del freno all'indebitamento: Tremotino al governo?

Andreas Missbach, Direttore di Alliance Sud  / © Daniel Rihs

 

A lezione di storia s’impara che i progressi scientifici figurano nelle note a piè di pagina. Recentemente ho avuto il piacere di constatare che questo vale anche per la Berna federale. In una nota a piè di pagina del piano finanziario di legislatura, l’Amministrazione federale delle finanze sottolinea la discrepanza tra lo standard internazionale sulla sostenibilità del debito e la prassi svizzera.

In franchi, nonostante la pandemia, nel 2022 il debito era inferiore rispetto al periodo 2002-2008, quando la Svizzera non era affatto in crisi. In ogni caso, non è il debito assoluto a essere decisivo, ma il suo rapporto rispetto al prodotto interno lordo. Quanto è elevato dunque questo tasso? Diamo un’occhiata all’ultima edizione delle cosiddette Basi della gestione finanziaria della Confederazione, una pubblicazione dell’Amministrazione federale delle finanze destinata alle e ai parlamentari. Nel 2022 il tasso d’indebitamento, secondo la definizione dell’UE, era del 26,2% e il tasso d’indebitamento netto, calcolato secondo il metodo del Fondo Monetario Internazionale (FMI), del 15,3%. Tuttavia, secondo il piano finanziario di legislatura (pubblicato un mese dopo le Basi citate), il tasso d’indebitamento netto era pari al 18,1%. Evidentemente non sono solo il Dipartimento della Difesa e il capo dell’esercito ad avere problemi con le cifre.

La ministra delle finanze Karin Keller-Sutter ha dichiarato alla NZZ che il freno all’indebitamento è il suo migliore amico. A noi invece sembra che il freno all’indebitamento sia più simile a Tremotino, che nella fiaba dei fratelli Grimm canzona beffardo: «Nessuno lo sa, nessuno lo sa...». Tuttavia – e questa frase non si potrà mai ripetere abbastanza – indipendentemente dal modo in cui si misura il tasso d’indebitamento della Svizzera, bisogna riconoscere che è ancora ridicolmente basso rispetto agli standard internazionali.

I benefici di un basso indebitamento compensano i suoi costi? È ciò che si chiede Marius Brülhart, professore di economia politica all’Università di Losanna. Poiché ridurre il debito non è gratis. Come sottolinea il professore, ogni franco utilizzato per rimborsare il debito pubblico è un franco che non è disponibile per altri servizi pubblici. E lo scrive sulla rivista di politica economica della SECO. Anche il presidente del Centro Gerhard Pfister ha capito il messaggio, propugnando un finanziamento straordinario per i costi legati all’Ucraina (rifugiati e ricostruzione).

C’è quindi un barlume di speranza all’orizzonte? Urge un ripensamento, poiché il tasso d’indebitamento è il miglior amico della cooperazione internazionale. Grazie ad esso, la Svizzera può facilmente permettersi di contabilizzare i costi degli aiuti all’Ucraina come spese straordinarie, salvando così la cooperazione allo sviluppo nei Paesi del Sud globale.

 

Pubblicato sul Corriere del Ticino il 3 aprile 2024

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Meinung

Non darsi per vinti vale la pena

05.10.2020, Cooperazione internazionale

Nel 2019 global aveva descritto le attività dell’azienda agricola svizzera GADCO in Ghana. Il quadro della situazione non essendo risultato di loro gradimento, l’autrice dell’articolo e il suo collaboratore ghanese hanno subito delle intimidazioni.

Non darsi per vinti vale la pena

Holy Kofi Ahiabu

Meinung

La pandemia ombra

10.12.2020, Cooperazione internazionale

In Nigeria, la violenza contro le donne e le ragazze è aumentata durante il lockdown imposto per lottare contro il coronavirus. UN Women ha definito questo fenomeno, osservato in tutto il mondo, “pandemia ombra”.

La pandemia ombra
L’economista agraria ed eco-femminista nigeriana Oladosu Adenike Titilope è conosciuta sulla scena internazionale per il suo infaticabile impegno quale militante per la giustizia climatica e i suoi sforzi per il risanamento del lago Ciad. In Nigeria, quale vicepresidente del National Youth Service Corps (NYSC), Adenike ha diretto numerosi progetti comunitari che mirano a mettere in pratica gli OSS. Altre informazioni sul suo blog: www.womenandcrisis.blogspot.com.
© Oladosu Adenike Titilope

Meinung

Aiuto d’urgenza sì, ma non così

18.09.2015, Cooperazione internazionale, Finanziamento dello sviluppo

Il Consiglio federale vuole aumentare l’aiuto d’urgenza per la Siria e altri paesi in crisi. E’ assolutamente necessario. Ma Alliance Sud critica questa decisione di prendere soldi nella CAS a lungo termine. (in francese)

Aiuto d’urgenza sì, ma non così

© Pascal Mora

Meinung

OMC: la rivincita dell'Africa

15.02.2021, Commercio e investimenti

La nigeriana Ngozi Okonjo-Iweala è stata eletta a dirigere l'Organizzazione mondiale del commercio (OMC). Una vera e propria prima per l'Africa e per una donna.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

OMC: la rivincita dell'Africa

Ngozi Okonjo-Iweala
© Isolda Agazzi

Opinione

Un esercito che piange miseria e dei fatti fragili

03.10.2023, Cooperazione internazionale

Nei contesti fragili aiuta solo un esercito forte? Ricerche accademiche mostrano che la cooperazione allo sviluppo può giocare un ruolo importante anche in situazioni molto difficili, scrive il nostro direttore Andreas Missbach.

Un esercito che piange miseria e dei fatti fragili

© Ala Kheir

I vertici della Direzione dello sviluppo e della cooperazione organizzano una conferenza stampa in un luogo fortemente simbolico. Qui spiegano minuziosamente perché la Svizzera, di fronte alle ripetute crisi e alla crescente povertà, deve urgentemente consacrare più fondi alla cooperazione internazionale (CI). E questo, malgrado il Consiglio federale abbia già deciso che la CI sarà ridotta nel 2024 e che la sua crescita sarà in seguito nulla in termini reali.  

Impensabile in Svizzera? No, perché è proprio ciò ch’è successo in agosto, con altre persone e in altre dimensioni. Il capo dell’esercito Thomas Süssli ha infatti chiesto un aumento del budget militare all’1% delle spese pubbliche entro il 2030, anche se, nella sua pianificazione finanziaria, il Consiglio federale aveva già deciso di voler raggiungere il valore posto come obiettivo dal Parlamento solo nel 2035. La NZZ ha definito questa decisione come un «rifiuto di ottemperare», eppure un tale coraggio e una certa combattività sarebbero auspicabili anche da parte della direzione della DSC.

A proposito di eserciti: a seguito del colpo di Stato in Niger, sono stati numerosi i commenti che hanno presentato «l'Africa» come il continente delle eversioni e delle democrazie fallite. Tramite il sito di microblogging X, il senegalese Ndongo Samba Sylla, economista dello sviluppo, ha rimesso i fatti al loro posto: «L’apice dei colpi di Stato che hanno avuto successo nel continente si situa tra il 1970 e il 1979, e in seguito tra il 1990 e il 1999, con 36 colpi di Stato per ognuno di questi decenni. Da allora sono in forte diminuzione. La maggioranza dei Paesi africani non ha mai vissuto azioni sovversive violente dal 1990, un terzo non né è mai stato confrontato dall’indipendenza».  

La recente moltiplicazione dei colpi di Stato militari nei Paesi del Sahel (e non in tutta l’Africa) si spiega, eccezion fatta per il Sudan, grazie a due fattori comuni a tutti i colpi di Stato che hanno avuto successo. Innanzitutto, sono avvenuti in ex colonie francesi che, secondariamente, sono caratterizzate per ragioni politiche da una presenza militare straniera (nel caso del Gabon, si potrebbe aggiungere «o colonie francesi sfruttate da gruppi petroliferi europei»). Ndongo Samba Sylla parla perciò di una «crisi dell’imperialismo francese», piuttosto che di una crisi della democrazia.  

Certo, degli avvenimenti come quelli del Niger alimentano anche il dibattito sul senso della cooperazione allo sviluppo negli Stati fragili. L’utilità della CI è fondamentalmente rimessa in questione, sia prima di un colpo di Stato («la CI non ha portato una democrazia stabile ai Paesi»), sia dopo («cosa ci fate ancora lì?»). Si tratta senza dubbio di questioni complesse, che occuperanno anche Alliance Sud nel dibattito parlamentare riguardante il messaggio sulla cooperazione internazionale.  

Ma anche in questo caso, sono i fatti a contare. A fornirceli è il professore Christoph Zürcher, della Graduate School of Public and International Affairs dell'Università di Ottawa, che ha realizzato una verifica sistematica di 315 valutazioni individuali della cooperazione internazionale per l’Afghanistan, il Mali e il Sudan del Sud, dal 2008 al 2021.

Questo studio suggerisce che la CI non può stabilizzare o rappacificare gli Stati nel contesto di conflitti militari e d’interessi geopolitici. Ma la ricerca mostra pure che gli investimenti nell’educazione, nella salute e nello sviluppo rurale, come ad esempio il sostegno alle strutture agricole, riscuotono successo e giungono alla popolazione locale. Conclusione dello studio: i progetti che si orientano verso le persone, e che non ambiscono a una completa trasformazione del Paese, hanno un impatto positivo.

Global, Opinione

Neutralità inflazionistiche

29.09.2022, Cooperazione internazionale

Per il 2020 o il 2021, l’ONU constata un degrado dell’indice di sviluppo umano nel 90 % dei Paesi. Il pianeta brucia, o è sommerso dall’acqua, e la Svizzera discute di neutralità piuttosto che di solidarietà.

Neutralità inflazionistiche

© Parlamentsdienste 3003 Bern

Cassis, Pfister, Blocher: questi tre illustri signori tentano di profilarsi attribuendo alla parola neutralità un aggettivo. Ma prima parliamo del sostantivo: la neutralità della Svizzera era vitale finché i Paesi confinanti erano in guerra. Fu il caso durante quella franco-tedesca del 1871 e ancor di più durante la Prima Guerra mondiale, quando le differenti simpatie per i belligeranti divisero il Paese.  

Durante la Seconda Guerra mondiale, la neutralità è stata accompagnata da un altro elemento ben conosciuto: l’affarismo con i belligeranti. Fino al 1944, alcune imprese elvetiche hanno fornito grandi quantità d’armamenti alla Germania nazista. Durante la guerra si poteva ancora parlare di una situazione di emergenza, ma in seguito l’affarismo è rimasto, mentre la neutralità ha assunto una parvenza benevola. La neutralità, intesa come «facciamo affari con tutti e non ci preoccupiamo delle sanzioni», è stata una delle tre ragioni (con la piazza finanziaria e le leggi fiscali) grazie alle quali la Svizzera è diventata la piattaforma mondiale del commercio di materie prime.

Non essendo membro dell'ONU, fino agli anni Novanta la Svizzera non ha rispettato le sanzioni dell'ONU, ad esempio contro la Rhodesia (diventata Zimbabwe) o il Sudafrica dell’apartheid. Marc Rich, il padrino del commercio svizzero di materie prime, la cui impresa è diventata Glencore e i cui «Rich-Boys» hanno fondato società come Trafigura, ha parlato del commercio petrolifero con il regime iniquo dell’Africa australe come del suo affare più importante e più redditizio. Ma anche i commercianti di cereali stabiliti sulle rive del Lemano hanno approfittato dell’embargo sui cereali imposto dagli Stati Uniti all’Unione sovietica e hanno quindi sfruttato la situazione, sebbene la Svizzera non fu del tutto neutrale a livello ideologico e pratico (v. l’affare Crypto) durante la guerra fredda.  

Passiamo agli aggettivi: la «neutralità cooperativa» d'Ignazio Cassis avrebbe relativizzato l’affarismo, definendo chiaramente il nuovo status quo dopo l’invasione russa dell’Ucraina (con l’applicazione delle sanzioni UE). Ma il Consiglio federale ha risposto picche all’aggettivo del presidente della Confederazione.  

La «neutralità decisionista» del presidente dell’Alleanza di Centro Gerhard Pfister è meno chiara. Se si legge la sua recente intervista nel giornale Le Temps, i «diritti umani, la democrazia e la libertà d’espressione» limiterebbero l’affarismo. Stando all’intervista accordata ai giornali di Tamedia, si tratta piuttosto dei valori del «modello economico e sociale occidentale», ossia «lo Stato di diritto, la sicurezza della proprietà privata e il benessere sociale».

La «neutralità integrale» dell’ex consigliere federale Christoph Blocher vuole invece un ritorno all’affarismo assoluto. Già tempo fa l’aveva difeso contro gli oppositori dell’apartheid. Il Gruppo di lavoro Africa del Sud (ASA), che ha fondato e presieduto, è insorto contro le sanzioni e ha dato una piattaforma ai politici di destra e ai militari sudafricani per far passare i loro messaggi disumani. L'ASA ha pure organizzato viaggi propagandistici, all’insegna di «Sulle tracce dei boeri».

Anch’io avrei ancora degli aggettivi d’aggiungere, perché ciò che sarebbe più approppriato per la Svizzera sarebbe una neutralità «compassionevole» (rifugiati) e «compatibile con il mondo» (i diritti umani prima dell’affarismo).      

Articolo pubblicato dal Corriere del Ticino il 21 settembre 2022

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Opinione

Providencia: la paura è ancora qui

17.03.2021, Giustizia climatica

A metà novembre del 2020 l’uragano Iota, classificato a forza 4, ha lambito le coste caraibiche, investendo soprattutto l' isola di Providencia, dove è stato distrutto il 98% delle strutture. Ecco la testimonianza di Hortencia Amor Cantillo.

Providencia: la paura è ancora qui

Il paradiso di Providencia trasformato nell'anticamera dell'inferno
© Hortencia Amor Cantillo

Con mio marito e i miei due figli ho già affronta due uragani negli anni passati, ma non è stato niente in confronto a Iota, della cui forza non ci siamo subito resi conto. È stato terrificante. È arrivato di notte. La prima impressione, all’alba, è quella lasciata dalla distruzione e dalla devastazione. È come vivere uno stato di shock: è semplicemente impossibile credere a ciò che si ha davanti agli occhi.

Più nessun tetto sopra la testa

I livelli di distruzione erano così importanti che non sapevamo più da dove ricominciare. La mia famiglia ha perso la piccola pensione (posada) che ci permetteva di vivere (il turismo è da sempre fonte per il nostro sostentamento economico); anche il piccolo centro per bambini e adolescenti che gestivo è stato in gran parte distrutto.

Bisogna dire che molte persone hanno perso davvero tutto. Alcuni sono rimasti solo con quello che avevano addosso. Molti si sono rifugiati nelle poche case in cemento rimaste parzialmente in piedi. Poco dopo l’uragano, il governo ha inviato delle tende che purtroppo si sono rivelate di scarsa qualità; con le forti piogge l’acqua è penetrata dal suolo al loro interno. Si tratta di tende che andrebbero bene per qualche giorno, ma alcune persone ci vivono ormai dal 16 novembre e si lamentano perché tutto al loro interno è bagnato. Le persone che hanno ricevuto le tende le hanno sistemate sui pavimenti di cemento, dove prima sorgevano le loro case, o nei bagni, siccome alcuni di essi sono costruiti in cemento. Per le donne e gli uomini che hanno perso tutto le condizioni di vita sono molto difficili. La tempesta si è portata via tutto. Anche il nostro tetto, al secondo piano della casa, è stato completamente rimosso; ne abbiamo recuperate alcune parti, ma il resto nessuno sa dove sia finito. In ogni caso siamo stati fortunati.

Un po’ di fortuna nella nostra sfortuna

All’incirca una settimana dopo la tempesta è arrivata un’ONG che ha iniziato a distribuire un pasto caldo al giorno. Il suo personale alloggia in diverse parti dell’isola. Qui a San Felipe, si sono installati nella chiesa cattolica; a mezzogiorno suonano le campagne e la gente si reca a prendere il pranzo e un frutto. La squadra è sempre presente, ma anche per loro non è facile perché il cibo è preparato a San Andrés e poi trasportato in aereo sull’isola di Providencia. I soccorritori stanno cercando delle soluzioni per preparare i pasti sul posto e aggirare gli intoppi connessi alla complicata logistica che spesso provocano ritardi nella fornitura degli alimenti. Grazie a Dio, finora, abbiamo beneficiato del loro sostegno!

Il governo s’impegna in prima linea a fornire i tetti alle case che sono rimaste ancora in piedi; molti di essi sono il frutto di donazioni da parte di privati. I tetti sono installati con l’aiuto dell’esercito, della polizia nazionale, della marina e dell’aereonautica, della protezione civile e della Croce Rossa. Tutti questi attori e queste organizzazioni sono sul posto per contribuire alla ricostruzione. Il processo è però molto lento, soprattutto per coloro che hanno subito la distruzione completa della propria casa e che attendono il loro turno per il sostegno. Per le persone che si ritrovano con la casa solo parzialmente danneggiata, la ricostruzione potrà essere più rapida, ma non conosciamo le tempistiche effettive. Nel frattempo tutti riflettono sul da farsi ed elaborano piani d’azione. Stiamo facendo tutto il possibile per velocizzare il processo. Evidentemente per determinate attività dipendiamo dall’aiuto: per ripristinare le spiagge abbiamo bisogno di macchinari e sulle coste, in particolare, ci sono molti detriti che non possiamo rimuovere da soli.

Restiamo qui

La natura impiegherà ancora più tempo per riprendersi. Qui ci sono alcuni alberi molto alti: li chiamiamo «cotton trees». Vivo sull’isola da 26 anni e li ho da sempre ammirati. Sono dei giganti dai tronchi molto possenti; devono essere molto vecchi. Ora molti di questi alberi sono stati completamente sradicati, alcuni sono rimasti in piedi ma hanno perso tutti i loro rami e le loro foglie. Ci vorranno parecchi anni per vederli ricrescere. Anche le barriere coralline sono state distrutte e ci vorrà molto tempo per la loro riabilitazione.

Ogni anno, da luglio alla fine di novembre, arriva la stagione degli uragani. La paura è sempre con noi e sarà difficile superare un altro uragano di questa intensità. Non siamo i soli in questa situazione; le coste degli Stati Uniti, il Messico e il Nicaragua sono anch’essi esposti al rischio di uragani. Siamo consapevoli del fatto che catastrofi di questo genere possono avvenire di continuo. Come sostiene anche mio marito, d’ora in poi ogni casa dovrebbe avere una stanza costruita in cemento dove potersi rifugiare. In ogni caso le catastrofi accadono in tutto il mondo, terremoti e così via.

Qualcuno mi ha chiesto se avessi voluto lasciare Providencia. Ho risposto di no perché di pericoli ce ne sono di ogni sorta in tutto il mondo. È triste e fa male, ma siamo qui e ci restiamo. L’isola di Providencia era il nostro piccolo paradiso e faremo tutto il possibile per farla ritornare tale.