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Opinione
Risposte errate ai pericoli errati
02.03.2022, Giustizia climatica
I presidenti dei partiti dell'austerità PLR e UDC chiedono due miliardi di franchi supplementari per l’esercito. Soldi che sarebbero meglio spesi per finanziamenti urgenti a favore del clima.

E improvvisamente il portafogli si apre: la Germania vuole sbloccare 100 miliardi di euro di “fondi speciali”, in particolare per gli armamenti, e in Svizzera i presidenti dei partiti dell’austerità PLR e UDC chiedono due miliardi di franchi supplementari per l’esercito. Le reazioni violente alla brutale aggressione dell’Ucraina sono comprensibili. È una catastrofe per la popolazione del Paese, che desiderava prosperità, pace e, nella sua maggioranza, democrazia. Al momento, è difficile dire cosa significa il ritorno delle guerre interstatali in Europa.
Tuttavia la Russia di Putin non ha attaccato l’Ucraina perché l’Europa occidentale le è militarmente inferiore. Al contrario, i Paesi della NATO possiedono ovunque una superiorità a volte massiccia in materia di armi convenzionali - ad eccezione di alcune categorie di armi. Anche se dubitiamo della capacità di intervenire rapidamente in caso di attacco contro un Paese della NATO, non è certo per mancanza di armi. Nel 2020, la Russia ha speso 61,7 miliardi di dollari per gli armamenti. I quattro maggiori Paesi europei della NATO hanno speso globalmente tre volte tanto. Con l’annunciato aumento delle spese militari al 2% del PIL, la sola Germania supererà di gran lunga la Russia.
Vladimir Putin non vuole integrare i Paesi dell’UE o della NATO, e nemmeno ripristinare l’Unione Sovietica; gli stati dell’Asia centrale, per esempio, gli sono indifferenti finché sono governati in modo autocratico. Ciò che gli interessa è una Russia storica immaginaria che vuole riunificare. Certo, un autocrate isolato è pericoloso, ma in questo caso non è certo perché vuole attaccare degli avversari che gli sono superiori in termini di armi convenzionali, ma perché ha le dita sul pulsante dei missili nucleari. Nessuna delle minacce reali alla democrazia, ai diritti umani, alla pace e all’integrità dell’Europa può essere compensata da un aumento della spesa per gli armamenti.
Anche la neutralità climatica è una politica di sicurezza
Per ragioni comprensibili, la pubblicazione del rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) su "Impatti, adattamento e vulnerabilità" lunedì 28 febbraio, è passata inosservata agli occhi dell’opinione pubblica. Nella sua sintesi, negoziata politicamente, si indica che da 3,3 a 3,6 miliardi di persone “vivono già in un ambiente altamente vulnerabile al cambiamento climatico”. E si nota che “se il riscaldamento globale aumenta, gli effetti degli eventi meteorologici e climatici estremi, specialmente le siccità, influenzeranno sempre più i conflitti violenti all’interno degli Stati a causa della loro maggiore vulnerabilità”. E anche in assenza di guerre climatiche, più persone si ammaleranno e moriranno prematuramente: “Il cambiamento climatico e i relativi eventi estremi porteranno a un aumento significativo di malattie e morti premature a breve e lungo termine”.
I costi dell’adattamento al cambiamento climatico sono maggiori di quanto ipotizzato nell’ultimo rapporto dell’IPCC, il quale stima che saranno necessari 127 miliardi di dollari all'anno fino al 2030, e di più in seguito. I 100 miliardi di dollari di finanziamenti annuali per il clima promessi dai Paesi industrializzati per la prevenzione e l’adattamento entro il 2025 non saranno certamente sufficienti, per non parlare del fatto che questa somma non è mai stata raggiunta fino a oggi. In relazione alla sua impronta climatica globale, la Svizzera dovrebbe contribuire con 1 miliardo al raggiungimento di questo obiettivo; attualmente ne mette sul tavolo solo la metà, e questo denaro proviene in gran parte dal budget dell’aiuto allo sviluppo.
Sì PLR e UDC, si deve aprire il portafogli, ma per un finanziamento del clima che corrisponda alla responsabilità della Svizzera e che garantisca la sua neutralità climatica. Nessuna spesa è più necessaria per la sicurezza della Svizzera di quella che consiste nello sviluppo immediato delle energie rinnovabili. Le centrali a gas per i casi di emergenza, i cui piani sono stati presentati proprio pochi giorni prima dello scoppio della guerra, assomigliano oggi a uno scherzo di pessimo gusto.
Pubblicato il 11.04.22
su Il Corriere del Ticino
(Traduzione di Valeria Matasci)
Opinione
La soluzione non cresce nelle risaie
06.12.2022, Giustizia climatica
Il circo climatico sul continente africano ha ormai levato le sue tende. Un fondo per le perdite e i danni è finalmente diventato realtà. Non si sa però ancora come sarà organizzato e soprattutto come verrà alimentato.

© Dr. Stephan Barth / pixelio.de
Il bilancio complessivo della COP27 si può riassumere così: «È buona cosa averne parlato», ma adesso parliamo d’altro. All’inizio della conferenza internazionale sul clima, il «New York Times» ha bacchettato la Svizzera con un articolo che criticava le sue compensazioni all’estero. Un primo progetto condotto nell’ambito d’un accordo bilaterale sul clima tra il Ghana e la Svizzera è stato presentato cinque giorni più tardi. Per compensare le emissioni dell’amministrazione federale, i coltivatori di riso dell’Africa occidentale lavoreranno in modo più rispettoso del clima, riducendo le emissioni di metano. Questo progetto può certo sembrare sensato, ma non tiene in considerazione le sfide più importanti volte a ridurre i gas a effetto serra in Africa, dove 600 milioni di persone vivono senza energia elettrica e i due terzi della corrente sono prodotti oggi a partire da combustibili fossili. Un’elettrificazione decentralizzata, affidabile e senza CO2 è possibile; di conseguenza si dovrebbe utilizzare per tale scopo il denaro del «traffico di indulgenze» legato ai certificati di emissione.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo ha attirato l’attenzione su una sfida ancor più seria: un quinto dei Paesi dell’Africa subsahariana dipende dalle esportazioni di petrolio. Anche altre nazioni potrebbero sfruttare i loro giacimenti fossili. La Repubblica democratica del Congo, ad esempio, sta mettendo all’asta nuove concessioni; ma finché gli Stati Uniti estrarranno del gas naturale e l’Australia del carbone, il Nord non può assolutamente predicare l’abbandono a questo Paese, che figura tra quelli più poveri.
Inoltre, sono necessarie somme colossali affinché gli attuali esportatori possano rinunciare alla loro principale fonte di reddito. Un motivo in più per utilizzare i rimanenti proventi petroliferi per questa transizione. Ma finora, la corruzione, le appropriazioni indebite e il malgoverno hanno portato allo sperpero di una gran parte di queste risorse. E qui la Svizzera ha la sua parte di responsabilità, come dimostrato da una sentenza a inizio novembre: alcuni impiegati di Glencore hanno attraversato tutta l’Africa in aereo, con valige piene di denaro contante per ottenere petrolio a basso costo.
È necessaria una regolamentazione del commercio delle materie prime per porre fine al coinvolgimento della Svizzera nella maledizione di queste ultime. La Berna federale potrebbe così mettere a disposizione dell’Africa molte risorse finanziarie in più che non acquistando certificati di emissione compensati con il riso.
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Global, Opinione
Il potere della formazione
22.06.2021, Cooperazione internazionale
Joyce Ndakaru vuole che le donne Masai siano ascoltate e non più trattate come proprietà degli uomini. La sua storia personale mostra che questo non deve rimanere un'utopia.
Sono cresciuta in una Boma (comunità) masai molto tradizionale in cui gli uomini prendevano tutte le decisioni e assegnavano tutte le responsabilità. Prima ancora di compiere 6 anni, dovevo mungere le mucche e le capre, andare a prendere la legna, spazzare per terra, pulire i piatti e cucinare un po’. Dagli 8 ai 12 anni si è considerate ragazze in piena crescita che presto diventeranno madri e così aumentano le responsabilità: ci si prepara a essere mogli, cominciando a badare alle mucche, cucinare pasti sostanziosi e prendere più legna.
Invece i ragazzi si occupano delle capre. Collezionano pietre, giocano - per le ragazze giocare è una vergogna – e si preparano a diventare persone di potere e in possesso di numerose mucche.
Ho potuto andare a scuola, e non perché mi volessero bene ma come punizione: non ero brava a mungere né a badare alle capre. Non mi piaceva nemmeno raccogliere la legna. Così mio padre ha deciso di mandarmi a scuola per mettermi in riga. Pensava che, costretta a ubbidire agli ordini dell’istitutrice e minacciata con punizioni corporali, avrei imparato a essere una bambina migliore. In realtà la scuola mi piaceva e sono sempre stata la prima della classe, dalla 3ª alla 7ª. Terminate le elementari, mio padre aveva già ricevuto numerose offerte per me come sposa e aveva scelto quella di uomo più vecchio di lui (all’epoca sulla sessantina).
Ero sul punto di sposarmi quando dei maestri di una scuola chiamata Masaïs Girls Lutheran Secondary School passavano di villaggio in villaggio alla ricerca di ragazze masai povere che rischiavano di essere vittime di matrimoni forzati. Mi hanno invitata a sostenere un esame scritto e sono stata scelta per andare alla scuola media. Ricordo che molte ragazze non avevano passato l’esame perché le loro famiglie avevano detto loro di non passarlo. Lo stesso era stato chiesto a me ma io non l’ho fatto. I professori hanno parlato del risultato dell’esame con la mia famiglia. Per mio padre, il fatto di voler andare alle medie era un disonore per la famiglia e la comunità. Mi ha rinnegata come figlia e scacciata di casa. Mia madre non poteva dire niente: in quanto donna era priva di qualsiasi potere.
Per molti anni, poi, non ho più potuto visitare la mia famiglia visto che mio padre mi avrebbe di sicuro data in moglie a qualcuno se fossi tornata Solo dopo qualche anno è venuto a trovarmi. Nonostante non mi abbiano data in moglie forzatamente, mi hanno sempre parlato male della scuola e me l’hanno presentata come un inferno. Mi hanno raccontato di come le mie compagne delle elementari avevano tutte avuto tanti figli e che avevano la propria casa e le loro famiglie, mi dicevano che ero persa e non sapevo niente della mia cultura.
Grazie a un anonimo benefattore sono riuscita a finire la scuola media. Poi ho incontrato Reginald Mengi, ex-proprietario di IPP News, ospite d’onore alla nostra cerimonia di consegna dei diplomi. Durante il suo discorso ha chiesto chi avrebbe voluto andare all’università per studiare giornalismo. Ho alzato la mano. Grazie al suo aiuto finanziario mi sono laureata e oggi sono responsabile di programmi, con oltre 9 anni di esperienza, in varie ONG in Tanzania, impegnata nella lotta per la parità dei sessi, madre responsabile e un modello e punto di riferimento per la mia famiglia e la comunità masai, soprattutto tra le donne.
Oggi il mio villaggio e la mia famiglia sono fieri di me. Le mie vecchie compagne di classe, tutte già nonne dopo essere state sposate a 12 o 13 anni, mi ammirano e ora rimpiangono di non essere andate a scuola. Mi dicono che sono molto fortunata a essere indipendente mentre loro dipendono dai propri mariti per qualsiasi cosa. Dicono anche che sembro molto più giovane di loro per via del mio stile di vita. Molte di loro mi hanno presa come esempio e ora mandano le proprie figlie a scuola, e quelle che come me si sono fatte strada dicono ai loro figli di imitarci. Pure mio padre ora è fiero di me. Gli mando dei soldi e aiuto i miei fratelli e le mie sorelle e altri membri della famiglia. Nonostante nessuna delle altre figlie di mio padre abbia avuto il permesso di istruirsi dopo di me, alcuni dei miei fratelli mandano le loro figlie a scuola.
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La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.
Global, Opinione
In continuo cambiamento
24.06.2021, Cooperazione internazionale
L'ultima opinione di Mark Herkenrath come direttore di Alliance Sud.

© Daniel Rihs / Alliance Sud
Eraclito ci ha insegnato che l’unica costante della vita è il cambiamento. Eppure son passati 13 anni, o quasi, da quando ho iniziato a lavorare presso Alliance Sud. Ora, per motivi familiari, è venuto il momento di dire addio – un buon momento per dare uno sguardo a ciò che ci si è lasciati alle spalle, ma al tempo stesso per guardare avanti.
Quando ho ripreso la responsabilità del dossier della politica fiscale presso Alliance Sud, nel 2008, il nostro ministro delle finanze Hans-Rudolf Merz credeva ancora che il segreto bancario elvetico fosse immutabile tanto quanto il massiccio del San Gottardo. Gli evasori fiscali e i potentati corrotti dei Paesi in via di sviluppo, desiderosi di nascondere i loro averi in Svizzera, erano liberi di farlo. Poi è arrivata la crisi finanziaria ed economica mondiale, portando un colpo fatale a un buon numero degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (OSM), che avrebbero dovuto essere raggiunti entro il 2015; in compenso essa ha galvanizzato la lotta contro l’evasione fiscale.
Improvvisamente anche le potenti nazioni industrializzate hanno voluto prendere delle misure contro i frodatori del fisco. Avevano infatti un urgente bisogno d’incrementare i redditi dello Stato per finanziare i loro piani di salvataggio delle banche. Queste misure ammontavano a miliardi! Alliance Sud ha però dovuto battersi per anni per far sì che la Svizzera estendesse finalmente lo scambio automatico d’informazioni in ambito fiscale ai Paesi in via di sviluppo. E lotta ancora contro gli incentivi funesti per le società multinazionali a trasferire i loro profitti, in gran parte non tassati, dai Paesi più poveri verso la Svizzera.
Quando nel 2015 ho ripreso il testimone da Peter Niggli, diventando direttore d'Alliance Sud, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) avevano appena rimpiazzato gli obiettivi di Sviluppo del Millennio. Con l'Agenda 2030, i ricchi Paesi industrializzati si sono impegnati in un percorso politico volto non solo agli interessi nazionali a corto termine, bensì orientato al benessere a lungo termine degli esseri umani e del pianeta. È quindi ancor più sorprendente vedere con quanta frenesia certi consiglieri federali e parlamentari siano oggi contrariati dall’ingerenza delle ONG nella politica svizzera, in nome dei diritti umani e della protezione dell’ambiente.
Tanto allora come oggi, Alliance Sud era già politicamente controversa. Essa non deve lasciarsi impressionare dalle recenti reazioni contro una società civile attiva nella politica di sviluppo. Uno sviluppo del pianeta, socialmente giusto ed ecologicamente sostenibile, ha più che mai bisogno d’una Svizzera che orienti in maniera coerente ognuna delle proprie politiche – da quella estera a quella climatica, passando dalla politica economica – verso quest’obiettivo. Il team, i membri e gli alleati d'Alliance Sud, che qui desidero ringraziare calorosamente per la loro formidabile cooperazione, continueranno a impegnarsi risolutamente in questo senso anche in futuro – con il cuore, con un coinvolgimento costante e con la forza dei buoni argomenti.
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Reimmaginare l’Africa
01.10.2021, Cooperazione internazionale
Il mondo è frastornato dalle molteplici emergenze globali che vi si abbattono. Queste emergenze vengono aggravate dalla mancanza di leadership, fortemente diffusa tanto nel settore pubblico quanto in quello privato.

La co-presidente del Club di Roma e co-fondatrice di ReimagineSA spiega in questo testo la sua visione dell'Africa tra 50 anni.
© Mamphela Ramphele
Le conoscenze scientifiche si rivelano inadeguate quando si tratta di fare in modo che l’umanità reinventi nuovi modi di essere umana. Re-immaginare richiede di andare molto in profondità dentro di sé. Una tale re-immaginazione esige da noi una prontezza a disimparare il sistema di valori estrattivi, cioè di sfruttamento, e a riapprendere dalla natura che facciamo parte di una rete di vita interconnessa e interdipendente. Come ci insegnano le culture indigene di tutto il mondo – dobbiamo tornare ad essere indigeni e funzionare al ritmo della saggezza naturale. Tornare ad essere indigena permetterebbe all’umanità di uscire da queste emergenze con una nuova civiltà umana che sia in armonia con la natura.
Lentamente ma indiscutibilmente, la gioventù mondiale raccoglie la sfida della leadership di fronte agli errori dei propri genitori e delle proprie classi dirigenti. I movimenti mondiali come Fridays for Future, Extinction Rebellion, Rainbow Warriors e Avaaz si sono fatti carico di modellare il futuro che desiderano disperatamente veder emergere.
In Africa, i giovani colgono inoltre le opportunità di abbracciare la saggezza dei loro antenati. La saggezza dell’Africa parte dall’idea di una nazione di ricchezza – ce n’è abbastanza per tutti se si divide equamente. Il sistema di valori Ubuntu permette a tutti di condividere la prosperità generata da un lavoro di collaborazione. Non c’è opportunismo in Ubuntu.
Una parte considerevole degli oltre 600 milioni di Africani tra i 15 e i 49 anni trova delle soluzioni innovative di fronte alla moltitudine di sfide che deve affrontare in svariati contesti. Trasforma la penuria delle vecchie tecnologie di telecomunicazione e dei servizi finanziari in opportunità per creare ricchezza. I telefoni cellulari e i servizi finanziari online stanno sfruttando i flussi annuali di trasferimento di fondi (stimati a 44 miliardi di dollari statunitensi) in modo da stabilire una connettività più economica e affidabile tra la diaspora e il Paese d’origine.
Lentamente, l’Africa sta decostruendo i modelli educativi coloniali che hanno tenuto la sua giovane popolazione prigioniera di sistemi educativi che li allontanano dal loro ricco patrimonio culturale. I modelli educativi coloniali hanno mentalmente sottomesso gli Africani per generazioni, al punto che molti continuano a credere in una supremazia bianca e in un’inferiorità nera. È questa schiavitù mentale che continua a minare la capacità dell’Africa a sfruttare la propria ricchezza in modo da poter generare una prosperità condivisa.
Siamo testimoni della creazione di nuovi modelli educativi come le scuole Leap Math e Science Schools, con diciassette anni di presenza in Africa del Sud, che aiutano i giovani a liberarsi da questa schiavitù mentale per abbracciare la saggezza di Ubuntu. L’impatto salutare dell’interconnessione e dell’interdipendenza genera fiducia in sé stessi e ha ristabilito dignità e amor proprio. I risultati sono spettacolari nelle bidonville più povere dell’Africa del Sud, da dove vengono questi modelli. I diplomati del Leap diventano dei leader all’interno delle loro comunità distrutte in qualità di professori, ingegneri, società civile, politici e di molti altri professionisti. Questi risultati contraddicono l’idea di povertà che il mondo associa all’Africa. I giovani vedono la ricchezza dell’Africa, e sono loro stessi la sua ricchezza.
L’Africa è il continente più grande (massa continentale corrispondente a quella dell’Europa, della Cina e degli Stati Uniti combinati) nonché il più ricco in risorse (60% di terre coltivabili ; 90% di giacimenti minerari, sole e piogge in abbondanza; e ha la popolazione più giovane del pianeta - i giovani sono 1,4 miliardi in Africa). L’Africa ha bisogno di trovare un modello di sviluppo. Un tale modello deve adattarsi alla filosofia Ubuntu per sfruttare questa ricca base di risorse, tramite un’azione collettiva che liberi i talenti e la creatività della sua giovane popolazione.
Il mondo non può che trarre profitto da un’Africa che persegue un modello di sviluppo socio-economico più sostenibile e rigenerativo. Un’Africa così sarebbe in grado di condividere la sua ricchezza in modo più equo. La giovane popolazione africana, una volta liberata dalla schiavitù mentale e affermatasi come composta da cittadini innovativi ed energici, fornirebbe le competenze critiche e la creatività di cui avrebbe bisogno la comunità mondiale che invecchia. Il mondo ha bisogno di co-investire con l’Africa in uno sviluppo socio-economico rigenerativo e accelerato che condivida la massa continentale dell’Africa per assicurare l’approvvigionamento alimentare. Appoggiandosi alle conoscenze indigene dell’Africa in materia di agricoltura biologica e sui suoi ricchi sistemi alimentari marini, si potrebbe garantire un’alimentazione sana e sicura per tutti.
I minerali africani che alimentano l’economia mondiale, comprese le terre rare recentemente scoperte e indispensabili all’elettronica, devono essere sfruttati in modo sostenibile. Le pratiche minerarie estrattive non solo danneggiano i paesaggi africani, ma compromettono anche il benessere del suo popolo. Per garantire la sostenibilità del flusso di benefici della ricchezza mineraria per l’insieme della comunità mondiale, è necessaria una trasformazione radicale degli approcci estrattivi in approcci rigenerativi.
Il mondo deve cogliere le crisi esistenziali della pandemia di COVID e del cambiamento climatico come delle opportunità di riapprendere a cooperare come comunità mondiale. Ciò permetterebbe di passare da degli approcci degenerativi a degli approcci rigenerativi che favoriscono un benessere sostenibile per tutti. Si tratta di cambiare i modi di consumo eccessivi per fare delle scelte più giudiziose che ci permettano di restare entro i limiti del pianeta. Ciò implica anche l’adozione della saggezza della natura, secondo la quale non ci può essere un Io senza un Noi. L’umanità è inestricabilmente legata e interdipendente.
L’Africa che immagino tra 50 anni è un continente che si è riappropriato della sua eredità, in quanto culla dell’umanità e della prima civilizzazione umana, modellando l’intelligenza della natura affinché ognuno contribuisca al meglio delle proprie capacità al benessere di tutti nell’intero ecosistema. L’Africa offrirebbe allora al mondo un modello per reimparare a diventare pienamente umani.
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Opinione
Da 50 anni al servizio di una Svizzera solidale
05.10.2021, Cooperazione internazionale
Alliance Sud ha 50 anni, la Direzione dello sviluppo e cooperazione e Sacrificio Quaresimale 60; l’Aiuto delle Chiese evangeliche svizzere spegne 75 candeline: qualche decennio fa soffiava un vento di cambiamento per una responsabilità mondiale.

Bernd Nilles, presidente di Alliance Sud e direttore di Sacrificio Quaresimale
© Fastenopfer
Alliance Sud ha 50 anni, la Direzione dello sviluppo e cooperazione (DSC) e Sacrificio Quaresimale 60, mentre l’Aiuto delle Chiese evangeliche svizzere (ACES) spegne 75 candeline: qualche decennio fa soffiava un vento di cambiamento per una responsabilità mondiale. Oggi c’è motivo di festeggiare, o piuttosto di non farlo, visti i numerosi problemi non risolti su questo pianeta? Nuove crisi e sfide emergono di continuo e per quanto riguarda la crisi climatica è una vera e propria corsa contro il tempo.
Quando i nostri padri fondatori e le nostre madri fondatrici hanno creato la Comunità di lavoro swissaid / Sacrificio Quaresimale / Pane per tutti / Helvetas nell’agosto del 1971, poco dopo l’introduzione del suffragio femminile, erano sicuramente lungi dal pensare che il lungo viaggio sarebbe durato cinque decenni. All’inizio l’accento è stato messo sulla sensibilizzazione della popolazione svizzera riguardo alla situazione nei Paesi in via di sviluppo e alle interdipendenze mondiali; è stato solo più tardi, negli anni '80, che le attività di politica di sviluppo sono arrivate a completare il quadro. L’intuizione precoce che una svolta a lungo termine potesse essere negoziata soltanto con dei cambianti a Nord e a Sud era visionaria e il fatto che Alliance Sud ha potuto far parlare le opere umanitarie svizzere con una sola voce credibile in materia di politica di sviluppo è un successo storico.
Approfitto di questa occasione per ringraziare tutte le persone che hanno contribuito a scrivere questa storia e a renderla possibile. Nel corso di questi 50 anni Alliance Sud ha spesso smosso gli ambienti politici e contribuito all’ampliamento e al perfezionamento della cooperazione allo sviluppo e si è sempre data da fare per una Svizzera solidale.
Anche Alliance Sud è pronta a proseguire il suo sviluppo. Si è assunta questo compito nel 2021; in futuro concentrerà quindi i suoi sforzi soprattutto nelle attività a favore di una Svizzera solidale per creare un impatto in questo campo. L’approccio sembra adeguato vista la persistenza delle sfide e delle ingiustizie nel mondo, soprattutto là dove la politica svizzera ha delle responsabilità. Inoltre il potere e l’influenza del settore economico restano sproporzionati e portano spesso a delle decisioni politiche prese a discapito delle popolazioni e dell’ambiente. In questo contesto dovrebbe essere legittimo chiedersi perché delle consigliere e dei consiglieri federali richiedano ora un maggior coinvolgimento politico dell’economia, quando parallelamente si cerca di limitare il margine di manovra della società civile. Il Consiglio federale e il Parlamento non dovrebbero forse garantire che in Svizzera tutti possano e debbano partecipare alla vita politica?
Quello che è un bene per l’economia non per forza è un bene per la Svizzera e per il mondo. Le decisioni politiche sensate e sostenibili dipendono anche dalle voci dei cittadini e della società civile, non abbiamo mai smesso di sottolinearlo negli ultimi 50 anni. Grazie alle nostre competenze, al dialogo e al dibattito vogliamo continuare a giocare un ruolo attivo per il futuro e a difendere la giustizia mondiale.
Bernd Nilles, presidente di Alliance Sud e direttore di Sacrificio Quaresimale
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Global, Opinione
Cambiare il modo di comunicare
06.10.2021, Cooperazione internazionale
Il nostro mondo si sta capovolgendo. Le sfide future esigono un ripensamento radicale mondiale. Le organizzazioni di sviluppo devono essere all'altezza di questa sfida. Non solo nei loro programmi, ma anche nella loro comunicazione istituzionale.

L'ex First Lady Melania Trump in Kenya: sempre più spesso le celebrità si mettono a disposizione per buone cause (e foto), anche in Svizzera. Questo cementa una comprensione paternalistica dello sviluppo.
© Saul Loeb/AFP
Testo di Jörg Arnold, che è stato responsabile del marketing e della raccolta di fondi presso Caritas Suisse dal 2002 al 2018. E' cofondatore di Fairpicture (fairpicture.org).
“Dobbiamo imparare a comunicare sulla cooperazione internazionale odierna, che è diversa da quella praticata 30 anni fa. Il mondo è cambiato e con esso il nostro modo di comunicare. Oggi disponiamo di un linguaggio comune a livello internazionale, quello dell'Agenda 2030”, ha dichiarato Patrizia Danzi, direttrice della DSC, in occasione del sessantesimo anniversario dell'organizzazione. Negli ultimi anni, le foto anonime di bambini emaciati sono in buona parte scomparse dalle e-mail e dai siti web delle organizzazioni umanitarie. Ma questa realtà ha anche cambiato il modo in cui le organizzazioni di sviluppo occidentali parlano del Sud?
In Svizzera, più di 100 organizzazioni di donatori riconosciute dalla ZEWO (Zertifizierungsstelle für gemeinnützige NPO) si impegnano a rendere il mondo migliore per tutti. Dozzine di altre organizzazioni non certificate vi si aggiungono. Tutte vogliono alleviare le sofferenze e creare una base sostenibile per sconfiggere la povertà, la fame e l'ingiustizia. Hanno imparato a comunicare il contenuto delle loro attività e a farlo conoscere alle loro donatrici e ai loro donatori. Cercano di fare capire meglio la situazione in cui vivono le persone bisognose, di rafforzare l'impegno in favore di un aiuto concreto e di mettere così in evidenza le proprie attività.
Attraverso la loro comunicazione, queste organizzazioni influenzano significativamente l'opinione del pubblico sui Paesi del Sud. Le loro campagne di raccolta di fondi ad alta penetrazione trasmettono emozioni che convincono i donatori a mettere mano al portafoglio. Che sia sotto forma di rapporti periodici selettivamente indirizzati o di sofisticate campagne di marketing diretto: modellano la percezione dell'ingiustizia, della povertà, del malessere e della violenza nel continente africano, in America Latina e in Asia con immagini che sollecitano un'azione urgente.
Un test decisivo per le organizzazioni di sviluppo
Il lavoro di comunicazione delle organizzazioni di sviluppo è impegnativo. Devono costantemente legittimare le proprie attività nella sfera politica e presso l’opinione pubblica, raccogliere donazioni nel mentre e, come componente chiave della loro missione per la società civile, svolgere anche un lavoro di sensibilizzazione. Per soddisfare tutte queste esigenze, le organizzazioni hanno quindi investito molto nei loro concetti di comunicazione negli ultimi anni. Ma la sfida maggiore che devono affrontare riguarda il discorso che trasmettono sui Paesi del Sud. È su questo tema che di gioca la prova decisiva della loro credibilità.
Le organizzazioni di sviluppo occidentali devono affrontare una serie di critiche. Pensiamo, ad esempio, alle attiviste e agli attivisti ugandesi di nowhitesaviors.org: si sono rivolti ai media per denunciare quelle che considerano rappresentazioni discriminatorie delle persone del continente africano nelle comunicazioni delle ONG. A seguito di un'ondata di critiche virulente, l'organizzazione britannica Comic Relief ha chiuso la sua fruttuosa campagna di raccolta di fondi con celebrità che “visitano i progetti in Africa” sollecitando le donazioni. Le autrici e gli autori di peacedirect si esprimono senza mezzi termini in uno studio del maggio 2021 intitolato Time to Decolonise Aid. Sostengono che molte pratiche e atteggiamenti attuali nel sistema degli aiuti riflettono pratiche coloniali dalle quali derivano - cosa che la maggior parte delle organizzazioni e dei donatori del Nord sono ancora riluttanti a riconoscere. Sempre secondo loro, alcune pratiche e norme moderne rafforzano le dinamiche e le credenze coloniali, come l'ideologia del “salvatore bianco” che si riflette nel simbolismo delle donazioni e della comunicazione usato dalle ONG internazionali.
Gli stereotipi compromettono la cooperazione allo sviluppo
Una comunicazione stereotipata, basata su modelli coloniali: l'accusa contro la pratica delle organizzazioni di sviluppo è grave. Non solo mette in discussione in modo critico la posizione etica fondamentale delle organizzazioni, ma rivela anche una contraddizione rispetto all’obiettivo della società civile di cancellare le relazioni di potere ineguali.
Con il Manifesto per una comunicazione responsabile nell’ambito della cooperazione internazionale adottato a Berna il 10 settembre 2020, le organizzazioni affiliate e partner di Alliance Sud hanno inviato un chiaro segnale in questo senso. Gli autori notano in modo autocritico nell'introduzione al manifesto: “Le popolazioni del Sud sono spesso presentate come oggetti e destinatari dell'aiuto, mentre le organizzazioni di sviluppo e il loro personale sono descritti come esperti e soggetti attivi. (...). Degli stereotipi sono spesso riprodotti in questo contesto. Le immagini paternalistiche dello sviluppo suggeriscono che i Paesi sviluppati mostrano ai Paesi sottosviluppati come fare le cose correttamente”.
Fissare interi continenti e i loro abitanti in immagini di povertà e dipendenza è discriminatorio. Allo stesso tempo, è degradante rinchiudere le persone nel ruolo di riconoscenti destinatari degli aiuti . È tempo che le organizzazioni di sviluppo si liberino di un approccio alla raccolta di fondi accuratamente coltivato per molti anni, non senza successo. Il fatto che la comunicazione stia diventando sempre più importante nella nostra società globalizzata costringe anche le organizzazioni di sviluppo a pensare di più agli effetti della propria comunicazione e a quanto essa può contribuire a far emergere una giustizia mondiale.
La comunicazione è il programma
Crisi climatica, migrazione, aiuti umanitari: la comunicazione delle organizzazioni di sviluppo nella società dell'informazione del XXI secolo non si limita alla comunicazione istituzionale e alla raccolta di fondi. Attraverso le loro storie, modellano attivamente il cambiamento sociale e i modi di pensare predominanti. Le organizzazioni di sviluppo devono assicurarsi che la loro comunicazione corrisponda alle realtà vissute e alle visioni e agli obiettivi di vita delle persone rappresentate. Le unità organizzative operative, ma anche i dipartimenti di comunicazione, dovrebbero quindi impegnarsi in un processo di teoria del cambiamento in cui sviluppare una logica di azione orientata all'efficacia per le loro attività, sulla base di un'analisi autoriflessiva della situazione. Questo approccio è necessario per ottenere gli effetti che l'organizzazione nel suo insieme cerca di raggiungere. Per padroneggiare la complessità dei problemi - dalle persone rappresentate ai destinatari della comunicazione -, gli attori locali, con le loro diverse prospettive, le loro competenze e i loro diritti, devono essere integrati in questi processi. Sono finiti i giorni in cui le organizzazioni di sviluppo potevano permettersi di comunicare senza tener conto delle persone al centro del loro impegno nella società civile.
Jörg Arnold è un sociologo ed è stato responsabile del marketing e della raccolta fondi di Caritas Svizzera dal 2002 al 2018. È cofondatore di Fairpicture (fairpicture.org).
Pubblicato il 10 novembre 2021
Su L’Osservatore Online
(Traduzione di Valeria Matasci)
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Opinione
Libertà di espressione: la nostra carta vincente
21.03.2022,
Il presidente della Confederazione Ignazio Cassis ha indicato alle organizzazioni di sviluppo le tre caratteristiche qualitative più importanti della cooperazione internazionale della Svizzera: Affidabilità, fiducia e prevedibilità.... Bingo!

Markus Allemann, Presidente di Alliance Sud e Direttore di SWISSAID
© SWISSAID
Durante l’ultimo incontro annuale, il presidente della Confederazione Ignazio Cassis ha indicato alle organizzazioni di sviluppo i suoi tre principali criteri di qualità per la cooperazione internazionale della Svizzera: affidabilità, fiducia e prevedibilità... Tutto giusto! L'Alliance Sud del futuro è sulla buona strada:
Affidabilità: da gennaio, Alliance Sud è stata rafforzata da due altri nomi prestigiosi della cooperazione allo sviluppo della società civile. Accogliamo infatti Solidar Suisse e Terre des hommes in qualità di nuovi membri! Con Helvetas, l'EPER, Azione Quaresimale, Caritas e Swissaid, Alliance Sud è l’interlocutore più affidabile della società civile quando si tratta di creare un ambiente propizio e sostenibile per le popolazioni del Sud. Per permetterci di proseguire la nostra crescita in modo ordinato, da quest’anno ci siamo raggruppati in un’associazione e proponiamo una seconda categoria di membri: le organizzazioni non governative, comprese quelle attive per i diritti umani e per l’ambiente, possono diventare membri associati e sostenere così il nostro lavoro. Ringraziamo la Croce Rossa svizzera per aver dato l’esempio diventando già il primo membro associato.
Fiducia: questo criterio di qualità è più difficile da forgiare. La fiducia richiede affidabilità e si ottiene solo con il tempo. Da 50 anni, Alliance Sud è un attore affidabile – e competente – nei confronti del Parlamento, del governo e dell’amministrazione. Con un margine di manovra politica invidiabile! Contrariamente ai suoi membri, Alliance Sud non riceve sostegno dallo Stato e non è quindi legata da una clausola contrattuale di riservatezza che include lo scambio d’informazioni con il Dipartimento federale degli affari esteri, nonché con altri uffici dell’amministrazione federale. Di conseguenza, Alliance Sud può in ogni momento mettere in campo la sua competenza ed esprimersi. La libertà di espressione è la sua carta vincente.
Prevedibilità: il presidente della Confederazione Cassis ha precisato con queste parole ciò che intendeva dire: «La Svizzera fa ciò che dice e dice ciò che fa». Ciò che è prevedibile, è che Alliance Sud dimostrerà senza compromessi, ma in modo costruttivo, che la Svizzera non fa sempre quello che dice. La coerenza politica è il “nostro pane quotidiano”, gli obiettivi di sostenibilità sono il nostro quadro di riferimento. In questo processo di negoziazione sono da prevedere dei conflitti dato che, non di rado, la Svizzera ufficiale fa ricorso ad altri principi.
Affidabilità, fiducia, prevedibilità: siamo felici d’aver potuto assumere Andreas Missbach, che da gennaio è a capo d’Alliance Sud in qualità di direttore. Dopo mezzo secolo, Andreas infonde un forte slancio ai collaboratori d'Alliance Sud e ai suoi membri.
Markus Allemann
Presidente d'Alliance Sud e direttore di SWISSAID
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Global, Opinione
«I conflitti con la Cina aumenteranno»
21.06.2022, Cooperazione internazionale
La Cina sta sfidando il dominio dei valori occidentali e cambierà la globalizzazione. Ne è convinto il professor Patrick Ziltener. Stabilità interna e un ordine mondiale in cui la Cina possa continuare a crescere sarebbero gli obiettivi prioritari.

Patrick Ziltener, professore titolare presso l’Università di Zurigo, è sociologo e specialista dell’Asia orientale. Le ricerche che svolge hanno valore pratico e ritiene che nelle università svizzere ci sia carenza di competenze in merito alla Cina: «Non abbiamo idea di quanto la Cina stia plasmando il mondo».
Attualmente molti considerano che sia cominciata la fine della globalizzazione; la Cina ha conosciuto una rapida crescita a partire dagli anni ’90. Si aspetta che in futuro la Cina possa contare meno sulla globalizzazione, intesa come dinamica del mercato mondiale?
Patrick Ziltener: tutto lascia intendere che la globalizzazione continuerà a essere promossa, ma non secondo le stesse modalità di spinta che il processo ha conosciuto negli ultimi 40 anni. La Cina è piuttosto esplicita riguardo al suo interesse per il progresso della globalizzazione, che però sarà di carattere più cinese. Le regole, gli standard e i metodi cinesi saranno più diffusi e non sarà l’Occidente a continuare a dettare le regole. Quello che ci sfugge alla vista è che l’Asia orientale ha dato un impulso alla globalizzazione mentre in Occidente già stagnava: la Cina ha portato avanti il progetto di Partenariato economico globale regionale (RCEP) del Pacifico, mentre Donald Trump ha affossato il Partenariato Trans-Pacifico (TPP), dominato dall’Occidente.
In altre parole, non abbiamo più una globalizzazione globale, ma una globalizzazione divisa, con sfere di influenza che si globalizzano a velocità e intensità diverse.
Esatto: consolidamento e liberalizzazione nell’area del Pacifico e nulla in Occidente. L’OMC è ancora bloccata e la Cina non la considera l’arena principale. Si concentra invece sull’integrazione regionale e, naturalmente, sulla Nuova via della seta. Prima il Paese asiatico era un «rule taker», ora è divenuto un «rule maker». Non dobbiamo dimenticare che la Cina è già competitiva in tutti gli ambiti sul mercato mondiale. Quando la Banca Mondiale pubblica un appalto per qualsivoglia progetto, nel 40% dei casi se lo aggiudicano attori cinesi.
Tuttavia, la Cina non si è proprio affidata alle ricette dei globalizzatori, incarnati dall’«Uomo di Davos» e dal consenso di Washington, per la sua crescita. Quali sono stati i fattori di successo dell'ascesa cinese?
La Cina ha studiato tutto, ha studiato come sono cresciuti il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan o Singapore e da ciò ha imparato che l’integrazione nel mercato mondiale è possibile e può sviluppare una dinamica molto vivace, ma che il tutto deve avvenire in maniera controllata. Si stabiliscono incentivi e si aprono spazi, ma sempre in modo graduale e mai causando un “big bang” mediante una politica economica ideologica, bensì piuttosto pragmatica. Si è iniziato con le zone economiche speciali di Shenzhen e nella provincia di Fujian, poi si sono valutate queste esperienze, si sono adattate le leggi e i regolamenti e poi si sono gradualmente estesi ad altri settori. Questa combinazione di elementi di mercato e di controllo ha alimentato una dinamica incredibile, preparata e accompagnata da una politica infrastrutturale statale. Il tutto non è mai stato guidato dall’idea di una completa liberalizzazione.
E la Cina non ha semplicemente dato carta bianca alle aziende straniere.
Ci sono sempre linee rosse da qualche parte all’orizzonte e la libertà d’azione delle aziende dipende interamente da come si inseriscono nell’agenda cinese: o viene steso loro il tappeto rosso, oppure viene chiesto loro di andarsene. Ecco perché le esperienze delle imprese sono così contraddittorie. Per un certo periodo, sembrava persino che l’influenza delle imprese statali si sarebbe gradualmente ridotta, fino a scomparire. Ma non è più il caso ed è chiaro che il settore controllato dallo Stato è e sarà sempre una delle colonne portanti. Le tendenze autoritarie sono evidenti anche nell’economia: in ogni azienda devono essere formati gruppi di partito, anche nelle aziende straniere. Walmart in Cina ha dunque al suo interno un gruppo del partito comunista. Nella maggior parte dei casi, questi gruppi non hanno un’influenza diretta sulle attività operative delle aziende, ma sono una sorta di riassicurazione: se qualcosa non va nella giusta direzione, c’è questo strumento a portata di mano per aggiustare la rotta secondo quanto auspicato dal Governo.
Come si definisce di fatto la giusta direzione? È cambiato qualcosa o si tratta sempre e comunque di crescita e forza economica?
L’obiettivo assolutamente primario è la stabilità politica, ovvero ciò che in inglese si chiama regime survival. Segue la crescita economica, ma non la semplice crescita pura e semplice, bensì l’affermarsi di aziende cinesi competitive a livello globale, come Huawei. La politica comunica apertamente in quali ambiti risiedono le priorità, che si tratti di aviazione, tecnica agricola o robotica. In questi ambiti un giorno sul mercato mondiale si farà strada la concorrenza di alcune grandi aziende cinesi che metteranno paura alla nostra ABB, alla nostra Novartis e, prima o poi, anche alla Nestlé.
Torniamo all’immediata attualità: nel contesto della guerra in Ucraina il governo cinese è confrontato con un dilemma. Da un lato, gradirebbe un’alleanza “eurasiatica” con la Russia contro gli Stati Uniti, dall’altro, l’Occidente è molto più importante per l’economia cinese. Condivide questa analisi? In caso affermativo, come si muoverà Pechino in questa situazione?
L’intera situazione è estremamente sgradevole per la Cina, come si è potuto notare anche nella prima conferenza stampa nella quale ha dovuto barcamenarsi la portavoce del Ministero degli Esteri. Da un lato, la Cina insiste sul principio della non interferenza e del non impiego di mezzi bellici. Dall’altro, e questo vale anche per la popolazione, è in gran parte l’Occidente a venire incolpato, sostenendo che l’espansione della Nato verso est e il contenimento della Russia siano le cause principali della guerra. In realtà, la Cina non approva il comportamento della Russia e questa è la buona notizia a mio avviso: in linea di principio la Cina non ricorrerà mai a un simile mezzo; ad esempio, non incorporerà mai Taiwan nella madrepatria, come ha fatto la Russia con la Crimea. Si tratterà invece di un gioco strategico, il quale è già iniziato quando Xi Jinping ha dichiarato che il problema legato a Taiwan non sarebbe stato trasmesso alle generazioni future.
Ma come potrà funzionare senza mezzi militari se Taiwan non è esattamente favorevole a entrare a far parte della Cina?
Credo che lo scenario più probabile sia quello a lungo termine, che prevede di confinare e asfissiare gradualmente il vicino Paese. Una prima mossa potrebbe essere quella di dire che la Cina non considera più sicure le forniture e il traffico navale con Taiwan. Le ripercussioni che si scatenerebbero sulla borsa in Taiwan sono ovvie. Grazie a simili metodi, facendo mancare in pratica la terra sotto i piedi a Taiwan, prima o poi la Cina non dovrà far altro che cogliere il frutto maturo.
Lei ha svolto ricerche riguardo alla Nuova via della seta e all’influenza cinese sull’Africa. Condivide le note accuse secondo cui la Cina sia semplicemente un’altra potenza coloniale?
La mia definizione di colonialismo include misure coercitive attuate attraverso l’uso della forza o la minaccia della forza. È la famosa politica delle cannoniere, che non vedo in Cina. Ora, naturalmente, si può usare il termine neocolonialismo, cioè dominanza e manipolazione attraverso mezzi non militari. Ciò sta accadendo in una certa misura. Soprattutto nella fase iniziale della Nuova via della seta, i cinesi sono arrivati e hanno chiesto: «Che cosa volete?». E se il presidente di un Paese africano diceva di volere un’autostrada che portasse alla sua città o al suo villaggio natale, questa veniva costruita, e senza considerazioni economiche. La situazione è un po’ cambiata, i progetti sono selezionati e realizzati meglio. Questo per me in ogni caso è l’aspetto più notevole: si tratta di un organismo che apprende. C’è un’analisi, una condivisione di esperienze e poi si stabiliscono nuovi standard, e questo accade in continuazione.
Ma la popolazione spesso la vede in modo diverso.
I primi risultati della ricerca mostrano che i progetti di successo, ad esempio una nuova linea ferroviaria in Nigeria, influenzano positivamente l’atteggiamento nei confronti della Cina. Tuttavia nella maggior parte dei Paesi che ho esaminato la popolazione nutre molta sfiducia nei confronti del proprio governo e altrettanta verso la Cina. Ciò che intraprendono insieme poi, a condizioni non trasparenti, viene accolto con grande diffidenza, come a dire: «La nostra élite corrotta fa comunella con la Cina e fa man bassa delle nostre materie prime».
Quindi, in definitiva, principalmente materie prime, come nella classica divisione coloniale del lavoro?
La Cina è interessata a una fornitura ininterrotta di materie prime, che sono fondamentali per l’industria cinese, in particolare per i settori avanzati come l’informatica e le tecnologie della comunicazione. Naturalmente dove si tiene la grande corsa alle materie prime, ad esempio in Congo o in Zambia, anche la Cina è attiva, come un attrice tra gli altri (peraltro anche la Svizzera ospita alcuni di tali attori centrali). La ricerca però mostra una differenza: le imprese cinesi sono interessate alla fornitura costante di queste risorse alla Cina, indipendentemente dal prezzo sul mercato mondiale, mentre le aziende occidentali vi reagiscono e aumentano o riducono l’estrazione, assumono o licenziano personale. La Cina inoltre con queste risorse conclude cosiddetti «swap deal», offre cioè la possibilità di pagare progetti infrastrutturali mediante materie prime. Non è una novità, esistevano già da molto prima che la Cina ne facesse uso e la Cina stessa li ha sperimentati: ci sono stati progetti infrastrutturali giapponesi in Cina che il Paese ha pagato con sue risorse. Pechino però non si limita unicamente ad assicurarsi progetti nell’ambito delle materie prime, ma punta anche su progetti infrastrutturali come dighe, stadi sportivi, edifici parlamentari o la sede dell’Unione africana. La Cina non lo vende come aiuto allo sviluppo, la considera piuttosto una situazione “win-win” ed è convinta di fare meglio dell’Occidente.
E qual è la vera differenza rispetto ai progetti infrastrutturali finanziati dall’Occidente?
Non c’è alcuna valutazione dell’impatto ambientale, né tantomeno una valutazione dell’impatto sociale, né vengono poste condizioni a questo proposito; ciò ovviamente rende l’opportunità attraente per i politici africani. Non sono previste neppure disposizioni in materia di trasparenza o misure anticorruzione. Il secondo grande vantaggio per i governi africani è la rapidità. La Cina riesce a costruire un aeroporto in due, tre o quattro anni e, soprattutto quando si devono vincere le elezioni, questo gioca un ruolo molto importante.
Quindi la Cina sta indebolendo la democrazia in Africa (altro topos questo) o addirittura sta favorendo l’autoritarismo?
L’intenzione autodichiarata della Cina di non interferire negli affari interni di altri Paesi è abbastanza credibile. In linea di principio, il tipo di regime non ha importanza. Che si tratti di regime autoritario, dittatura o democrazia, se c’è un progetto adatto, viene realizzato. In secondo luogo, la Cina non sta cercando di esportare il proprio regime. Malgrado ciò tramite i successi dello sviluppo promuove la stabilità di questi diversi regimi, almeno in alcuni casi, e poi c'è il lato autoritario. Ciò che mi pare in particolar modo preoccupante è che la Cina esporta anche metodi per stabilizzare i regimi attraverso l’influenzamento dell’opinione pubblica e le tecnologie di sorveglianza. Per esempio, forma esperti nelle tecniche di manipolazione che utilizza essa stessa, ad esempio sui social media. Quindi è già qui che si annida il pericolo dell’autoritarismo nonché del rafforzamento delle tendenze autoritarie di governi che sono saliti al potere democraticamente.
Un ultimo topos: con i suoi investimenti e i suoi progetti, la Cina sta trascinando l’Africa nel vortice della schiavitù del debito.
Sì, è una tendenza che c’è stata. Da un lato, ciò è dovuto al fatto che la Cina non ha ancora molta esperienza nella gestione del debito e sta sperimentando solo ora che il sovraindebitamento può diventare un problema. Tuttavia, la ricerca non è riuscita a dimostrare che la Cina persegua una strategia attiva di indebitamento al fine di rendere dipendenti i Paesi, di modo che non siano più in grado di onorare i propri debiti e la Cina possa quindi dettare qualsiasi condizione. Ci sono alcuni Paesi in cui la percentuale di debito nei confronti di Pechino è così elevata da far concludere che questi Paesi dipendono effettivamente dalla Cina, come ad esempio il Gibuti. La maggior parte dei Paesi però ha più di un creditore.
La Cina ha concetti di ordine economico e politico completamente diversi. Se formula alternative alle ricette neoliberali del “Washington Consensus” può essere positivo, ma che fine fanno il sistema delle Nazioni Unite e i valori che ci sono cari: diritti dell’uomo, diritti delle minoranze, partecipazione politica della società civile e così via?
Qui dovrebbe scattare il campanello d’allarme, perché la Cina ha dichiarato un’offensiva con la sua affermazione: «Cambieremo questo sistema: sarà meno caratterizzato dall’Occidente e avrà tratti asiatici e in particolare cinesi più forti». Ciò che dal punto di vista cinese è un’eccessiva enfasi sui diritti di libertà individuale viene relativizzato a favore dei diritti economici e sociali allo sviluppo e del diritto alla sicurezza; dal nostro punto di vista, ciò significa elementi più autoritari. Per la prima volta dalla fine della Guerra fredda, un attore sta formulando apertamente un’agenda offensiva, sfidando il dominio delle istituzioni e dei valori occidentali. Questo aspetto deve essere preso estremamente sul serio. Ciò che abbiamo visto finora sono azioni simboliche. Ad esempio la mobilitazione degli Stati amici da parte di Pechino a difesa contro l’accusa riguardante il peggioramento della situazione dei diritti dell’uomo. La Cina ne fa un teatro all’ONU e dice: «Va bene, 24 Paesi occidentali ci criticano, ma 50 membri dell'ONU si oppongono e sostengono che l’accusa è ingiustificata». Tali conflitti aumenteranno, e non solo sul piano simbolico. L’ONU diventerà meno capace di agire sotto molti aspetti, in particolare nelle misure che l’Occidente ha messo in atto, come le sanzioni o gli interventi a tutela dei diritti dell’uomo.
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La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.
Opinione
Due giornate d’estate mentre la guerra continua
05.07.2022, Cooperazione internazionale
Ignazio Cassis si è davvero rimboccato le maniche per organizzare la "sua" conferenza di Lugano sull’Ucraina. È giunto il momento che il Presidente della Confederazione mostri la stessa energia anche nella lotta contro la crisi alimentare globale.

Dopo tutte le incertezze e discussioni che hanno preceduto la conferenza per la ricostruzione dell'Ucraina, alla fine dei due giorni di incontri e sorrisi i diplomatici svizzeri si saranno probabilmente dati una pacca sulla spalla, anche se i grandi nomi della politica mondiale hanno saltato l’appuntamento di Lugano. Non c'è da stupirsi, visto che anche il ministro degli esteri Cassis nelle scorse settimane aveva declinato l’invito alla conferenza internazionale contro la crisi alimentare a Berlino. La "Dichiarazione di Lugano" ha comunque raggiunto un obiettivo importante e ha fissato le condizioni politiche per la ricostruzione democratica dell'Ucraina, in cui la società civile internazionale e locale svolgerà un ruolo centrale.
La fine della guerra sembra però ancora lontana e fino ad allora la ricostruzione non potrà essere affrontata in modo completo e sostenibile. È quindi necessario alleviare il più possibile le drammatiche conseguenze, in Ucraina e a livello globale. Anche in Svizzera c'è molto da fare, visto che alcune pratiche nefaste della sua piazza finanziaria e del suo commercio di materie prime alimentano guerre e corruzione altrove. Ciò vale in particolare anche per Lugano, dove negli ultimi anni la crescente ed economicamente allettante presenza russa solo di rado è stata fonte di una riflessione critica.
La popolazione vuole più cooperazione internazionale
La popolazione svizzera ha dimostrato grande solidarietà per l'Ucraina: finora ha fornito quasi 300 milioni di franchi svizzeri tramite donazioni alle organizzazioni umanitarie. Sebbene la Svizzera ufficiale abbia annunciato a Lugano di voler raddoppiare la cooperazione bilaterale a 100 milioni, è inaccettabile che questo denaro provenga dall'attuale bilancio della cooperazione internazionale. Il parlamento elvetico vuole utilizzare due miliardi in più all'anno a partire dal 2030 per il proprio esercito; ma per una politica della pace globale, come auspica la maggioranza della popolazione, i politici non sono disposti a mettere mano al borsellino. Per quanto sia importante sostenere la ricostruzione e la popolazione civile in Ucraina − 50 "milioncini" aggiuntivi non sono certo sufficienti − è fondamentale che questo denaro venga speso in modo aggiuntivo e non a spese di contributi altrettanto urgenti in altri Paesi.
Agenda troppo piena per l'Agenda 2030?
A New York è iniziato questa settimana il Forum politico di alto livello sull'attuazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Agenda 2030). Purtroppo, il Presidente della Confederazione non sarà presente sul posto perché, a quanto pare, lo attendono cose più importanti. Speriamo che Cassis trascorra il suo prezioso tempo pensando a una promozione della pace globale e che si goda qualche giorno d'estate in Collina d’Oro. Qui, come noto, visse anche il Premio Nobel per la letteratura Hermann Hesse, che poco dopo la Prima guerra mondiale scrisse un testo intitolato “Una giornata di estate al sud”, nel quale la guerra appena terminata sembrava ormai già un lontano ricordo.
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