Tied Aid

Quando gli aiuti “aiutano” i propri interessi

29.11.2024, Cooperazione internazionale

L’aiuto vincolato a una contropartita è malvisto da decenni nella cooperazione internazionale. Ma ciò non sembra interessare i Paesi donatori. Al contrario: anche in Svizzera il cosiddetto “tied aid” sta tornando in voga. Analisi di Laura Ebneter

Laura Ebneter
Laura Ebneter

Esperta in cooperazione internazionale

Quando gli aiuti “aiutano” i propri interessi

Aiuti svizzeri per l'Ucraina, marzo 2022.

© Keystone / Michael Buholzer

 

«Quando cooperiamo allo sviluppo, vogliamo innanzitutto commissionare ordini all’economia locale. Ma qui si tratta della ricostruzione [dell’Ucraina]. Siamo in una logica diversa», ha dichiarato Helene Budliger-Artieda, direttrice della Segreteria di Stato dell’economia SECO, in un’intervista radiofonica per SRF nell’estate del 2024. Il riferimento è ai piani del Consiglio federale a sostegno dell’Ucraina. Il Consiglio federale intende stanziare 1,5 miliardi di franchi svizzeri nei prossimi quattro anni per sostenere l’Ucraina. Di questi, 500 milioni sono destinati a società svizzere che operano in Ucraina. Si tratta ancora di cooperazione allo sviluppo o di promozione delle esportazioni?

Si tratta dell’impopolare aiuto vincolato (tied aid), ovvero di fondi per lo sviluppo vincolati alla condizione dell’acquisto di beni e servizi dei Paesi donatori. Per questo motivo vengono spesso chiamati “buoni acquisto”. I Paesi partner non hanno altra scelta: in una situazione di emergenza, si accettano comunque i buoni della Migros, anche se così si danneggia il negozietto di paese, che a medio termine sarebbe più importante sostenere nell’interesse della popolazione locale.

Un cattivo affare per il Sud globale

Tutte le stime disponibili giungono alla stessa conclusione: se i Paesi devono acquistare beni e servizi dai Paesi donatori, i progetti costano il 15-30% in più rispetto ai casi in cui hanno la possibilità di scegliere un fornitore. La cooperazione senza contropartite non solo rafforza l’efficienza dell’impiego dei fondi e l’autodeterminazione dei Paesi partner. Promuovendo i mercati e le aziende locali, crea anche ulteriori impulsi positivi che vanno oltre i risultati dei progetti. Se si considerano i fornitori locali, si riducono anche i problemi di approvvigionamento dei pezzi di ricambio, poiché le catene di fornitura sono notevolmente più brevi. In caso contrario, i costi di manutenzione sono più elevati e possono rendere impossibile il successo a lungo termine se mancano i fondi dopo il completamento del progetto.

La storia non ci ha insegnato nulla?

L’aiuto vincolato è uno dei tasselli nel dibattito pluridecennale sull’efficacia del finanziamento dello sviluppo. Si tratta essenzialmente di due questioni strettamente legate: da un lato, una cooperazione internazionale orientata al futuro e basata su principi di efficacia ed efficienza. Il dibattito sull’aiuto non vincolato tocca quindi anche gli obiettivi di decolonizzazione: i Paesi partner dovrebbero essere in grado di determinare autonomamente il proprio percorso di sviluppo. Dall’altro, il dibattito verte sugli effetti potenzialmente distorsivi che si hanno nella concessione di fondi vincolati all’esportazione di beni e servizi dai Paesi donatori.
Inoltre si tratta di lotta ad armi pari. In effetti, i Paesi che si astengono dalla pratica dell’aiuto vincolato – cioè che indicono una gara d’appalto internazionale – criticano a ragione il fatto di essere svantaggiati se gli altri Paesi non fanno lo stesso. Per esempio, i fornitori svizzeri hanno accesso limitato agli altri mercati, mentre i fornitori internazionali hanno un buon accesso agli appalti pubblici svizzeri.

Per procedere in modo coordinato a livello internazionale, nel 2001 i Paesi donatori hanno concordato nell’ambito dell’OCSE la “Recommendation on Untying Official Development Assistance (ODA)” - Raccomandazione relativa allo svincolo dell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS). L’obiettivo dell’accordo congiunto era ed è tuttora quello di attribuire il maggior numero possibile di fondi per lo sviluppo in modo svincolato, rafforzando così l’efficienza e l’efficacia della cooperazione internazionale. La comunità internazionale concorda sul fatto che questa forma di aiuto pubblico allo sviluppo è paternalistica, costosa e inefficiente.

Poca trasparenza in Svizzera

Nel confronto internazionale, se si osservano le cifre ufficiali dell’aiuto non vincolato, la Svizzera fa bella figura. Secondo un’analisi dell’OCSE la Svizzera nel 2021 e 2022 ha donato il 3% dei fondi in maniera vincolata. Tuttavia, l’analisi fornisce un quadro incompleto, poiché la cifra include solo la concessione di fondi chiaramente vincolati. In effetti, esistono anche modi informali per favorire i fornitori nazionali. Ad esempio, il gruppo di candidati può essere ristretto mediante la lingua del bando, la portata finanziaria dei progetti o la scelta del canale di comunicazione.
Non esiste un quadro preciso dell’entità dell’aiuto vincolato in maniera informale. Sulla base delle statistiche di aggiudicazione è comunque possibile stimare quanti dei fondi messi in gara d’appalto finiscono destinati a fornitori nazionali. Secondo le analisi di Eurodad, la Rete europea sul debito e lo sviluppo, nel 2018 (non sono disponibili dati più recenti) il 52% di tutto l’aiuto non vincolato è stato assegnato a fornitori del proprio Paese. Con il 51%, la Svizzera si situa nella media. Complessivamente, solo l’11% dell’aiuto non vincolato è stato attribuito direttamente a fornitori dei Paesi partner.

In Svizzera, l’aiuto non vincolato è rimasto a lungo indiscusso. Anche l’attuale progetto della Strategia di cooperazione internazionale 2025-2028 (Strategia CI) recita: «[La CI] è coerente con il diritto commerciale internazionale, che mira a impedire la concessione di sussidi in grado di provocare distorsioni di mercato a favore delle imprese svizzere. La Svizzera tiene conto delle raccomandazioni dell’OCSE DAC Recommendation on Untying Official Development Assistance». Quando si tratta di prendere decisioni sui fondi ucraini destinati alle imprese svizzere, sembra che questo impegno sia tutta apparenza. Infatti, poche settimane dopo la pubblicazione della Strategia CI, il Consiglio federale ha scritto in un comunicato stampa: «Il Consiglio federale si sta adoperando affinché il settore privato svizzero svolga un ruolo di primo piano nella ricostruzione in Ucraina». Seguendo queste intenzioni, la Svizzera vuole anche reintrodurre formalmente l’aiuto vincolato.

Contributi di base non sempre indiscussi

Secondo le linee guida dell’OCSE, i contributi di base alle organizzazioni non governative dei Paesi donatori non sono considerati aiuto vincolato, perché le ONG operano nell’interesse pubblico e non sono orientate al profitto. Tuttavia, questo trattamento di favore è controverso a livello internazionale. Negli ultimi mesi, il movimento internazionale #ShiftThePower ha chiesto che un maggior numero di fondi per lo sviluppo vada direttamente alle organizzazioni del Sud globale. Per quanto questa rivendicazione sia giustificata, vale la pena analizzare più in dettaglio come i fondi possano raggiungere le organizzazioni partner del Sud globale. Dopotutto, indire gare d’appalto per più progetti e programmi a livello internazionale non significa automaticamente che ad aggiudicarsi l’appalto saranno le organizzazioni nel Sud globale. È quindi importante garantire che vengano condotti processi di aggiudicazione che consentano alle piccole organizzazioni del Sud globale di ricevere un finanziamento di base e di non rimanere relegate al ruolo di partner nell’attuazione dei progetti. Le ONG svizzere in particolare, che vantano tutte cooperazioni solide e di lunga data con numerose organizzazioni del Sud globale, svolgono un importante ruolo di congiunzione.

Verso un futuro alla pari?

Molti Paesi non nascondono il fatto che combinano l’aiuto pubblico allo sviluppo a interessi di politica estera. Carsten Staur, presidente danese del Comitato per l’aiuto allo sviluppo dell’OCSE, ha dichiarato in un’intervista rilasciata nel 2022 che nella storia non c’è mai stato aiuto pubblico allo sviluppo che non abbia perseguito in qualche modo obiettivi di politica estera e di sicurezza.

È curioso che a volere l’aiuto vincolato in Svizzera siano proprio i partiti politici solitamente favorevoli alle regole del libero commercio. Per la CI, invece, sembra che tali regole d’improvviso non siano appropriate. Chi pensa che la cooperazione internazionale sia inefficace, con decisioni politiche di questo tipo può quindi considerarsi co-responsabile dell’impiego meno efficiente dei fondi per la cooperazione internazionale.

Per poter cooperare in modo sostenibile, efficace e alla pari, i Paesi partner dovrebbero essere in grado di determinare autonomamente il proprio percorso di sviluppo. Il fatto che noi in Svizzera dovremmo definire ciò di cui «necessitano» i Paesi partner non rende giustizia ai dibattiti internazionali sulla cooperazione internazionale orientata al futuro. Dovrebbe inoltre essere chiaro che l’aiuto vincolato è inefficiente e costoso. È quindi ora di abbandonare questa via e di investire in partenariati duraturi e paritari.

Articolo pubblicato da "La Regione" il 3 gennaio 2025.

Si parla di aiuto vincolato (tied aid) quando la concessione dei fondi è legata alla condizione che beni e servizi vengano acquistati da fornitori del Paese donatore. Ma esistono anche altre forme di condizionalità, per esempio quando i Paesi donatori stabiliscono requisiti in termini di misure anticorruzione, politica di libero scambio e liberalizzazione o rispetto di principi democratici. La condizionalità dei fondi per lo sviluppo è anche uno strumento strategico per raggiungere obiettivi di politica estera nei Paesi del Sud globale. Tuttavia, i Paesi partner non vedono questa pratica di buon occhio, in quanto impedisce loro di determinare autonomamente il proprio futuro. Questo è uno dei motivi per cui sono molto apprezzati i Paesi donatori più recenti, come la Cina, che fissano poche condizioni o addirittura nessuna.

Global Logo

global

La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Politica climatica

Scambio di certificati di CO2: tutto fumo e niente arrosto?

03.12.2024, Giustizia climatica

Sia con la legge sul CO2, sia con il nuovo programma di risparmio, la politica svizzera fa sempre più affidamento sui certificati di riduzione delle emissioni di CO2 provenienti dall’estero per raggiungere il suo obiettivo climatico entro il 2030. Ma il piano sembra destinato a fallire: i primi programmi stanno già rivelando serie lacune. Analisi di Delia Berner.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

Scambio di certificati di CO2: tutto fumo e niente arrosto?

Vecchi autobus e mascherine onnipresenti: Bangkok soffre per i gas di scarico, ma gli e-bus finanziati dalla Svizzera sono davvero utili in Thailandia?

© Benson Truong / Shutterstock

A gennaio 2024, la Svizzera ha attirato su di sé l’attenzione del mondo intero, soprattutto tra la comunità esperta nel mercato del carbonio. Infatti, per la prima volta in assoluto, le riduzioni di CO2 sono state trasferite da un Paese all’altro per mezzo di certificati nell’ambito del nuovo meccanismo di mercato dell’Accordo di Parigi sul clima. In concreto, l’introduzione degli autobus elettrici a Bangkok ha consentito alla Thailandia di ridurre le emissioni di CO2 di quasi 2000 tonnellate nel primo anno. La Svizzera ha acquistato questa riduzione per computarla al proprio obiettivo climatico.

Facciamo un passo indietro: entro il 2030, la Svizzera intende risparmiare più di 30 milioni di tonnellate di CO2 all’estero invece che sul territorio nazionale. I primi accordi bilaterali a questo proposito sono stati stipulati nell’autunno del 2020 e nel frattempo ve n’è più di una dozzina. Numerosi altri progetti sono in fase di sviluppo: dagli impianti di biogas e dai fornelli da cucina efficienti nei Paesi più poveri ai sistemi di climatizzazione rispettosi del clima e all’efficienza energetica negli edifici e nell’industria. Finora sono stati approvati solo due programmi al fine di essere considerati per l’obiettivo climatico svizzero. Le 2000 tonnellate di emissioni di CO2 risparmiate in Thailandia sono i primi certificati effettivamente scambiati. Da qui al 2030 resta ancora molto da fare per garantire che la Svizzera abbia un numero sufficiente di certificati da acquistare.

Il primo progetto rischia di fallire...

Ora la rivista “Beobachter”, dopo aver esaminato la documentazione in conformità con la legge sulla trasparenza, ha rivelato che proprio il primo programma a Bangkok rischia di non generare ulteriori certificati. Già un anno fa, l’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) aveva ricevuto accuse secondo le quali l’azienda produttrice dei bus elettrici stava violando il diritto del lavoro nazionale e il diritto alla libertà sindacale sancito dalla convenzione dei diritti dell’uomo. Dopo un accordo provvisorio raggiunto un anno fa, quest’anno sono emerse nuove accuse, che ora l’UFAM deve esaminare: la Svizzera non può autorizzare certificati creati in presenza di una violazione dei diritti umani. L’UFAM ha dichiarato al “Beobachter” che “può e sospenderà” l’ulteriore rilascio di certificati qualora le accuse vengano confermate. Un’ampia ricerca della rivista digitale “Republik” porta alla luce ulteriori accuse: la Svizzera sarebbe addirittura coinvolta in un thriller economico in Thailandia, perché avrebbe alimentato una bolla borsistica di dieci miliardi di franchi ignorando gli avvertimenti.

Anche il secondo progetto approvato genererà meno certificati di quanto prometta: una nuova ricerca di Alliance Sud su un progetto di fornelli da cucina in Ghana mostra che la pianificazione sovrastima le riduzioni di emissioni di 1,4 milioni di tonnellate. A questo punto risulta già chiaro che la compensazione all’estero non è generalmente più economica e certamente non è più facile da attuare rispetto alle misure di protezione del clima in Svizzera. Tali misure dovranno essere introdotte comunque, prima o poi, al fine di raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nette in Svizzera.

Altro che qualche difficoltà iniziale

I primi progetti mostrano le difficoltà nel garantire che grazie a essi venga effettivamente ridotta una certa quantità di CO2 e che siano efficaci in termini di costi. Proprio lo scetticismo sulla reale riduzione è il motivo per cui molti progetti di compensazione hanno fatto notizia negli ultimi anni. L’efficienza in termini di costi, poi, è rilevante poiché la maggior parte dei certificati viene pagata dalla popolazione svizzera attraverso una tassa sul carburante. Per verificare entrambi gli aspetti, l’UFAM dovrebbe esaminare il piano di finanziamento dei progetti. Ad esempio, dovrebbe assicurarsi che i costi di realizzazione non includano margini o profitti sproporzionati, ma che il più possibile dei fondi sia investito nella tutela del clima o nello sviluppo sostenibile, con il coinvolgimento della popolazione interessata nel Paese partner.

Tuttavia, è proprio qui che il sistema di compensazioni svizzere all’estero mostra i suoi punti deboli: dal momento che i certificati non vengono acquistati dalla Confederazione, ma dalla Fondazione per la protezione del clima e la compensazione di CO2 KliK, che converte in certificati i proventi della tassa sul carburante, i “dettagli commerciali” rimangono nascosti al pubblico. Quindi nessuno sa quanto costi una tonnellata di CO2 non emessa grazie all’uso di un bus elettrico a Bangkok o quanto denaro venga investito complessivamente nel progetto dei fornelli da cucina in Ghana, né tanto meno quanto ci guadagnino gli operatori del mercato privato. Nel caso del progetto in Ghana in questione, inoltre, sono state oscurate ampie parti della documentazione pubblicata sul progetto. La trasparenza è ancora peggiore rispetto agli standard quantomeno seri del mercato volontario del carbonio.

Duplice necessità di azione

Queste sfide vanno oltre le semplici difficoltà iniziali e rivelano una duplice necessità di azione da parte della politica svizzera. In primo luogo, è necessario migliorare la mancanza di trasparenza delle informazioni finanziarie sui progetti attraverso l’ordinanza relativa alla legge sul CO2, che è attualmente in fase di adeguamento all’ultima revisione della legge. In secondo luogo, occorre correggere l’idea che la compensazione all’estero sia un modo più economico e semplice per proteggere il clima. La Svizzera deve favorire la protezione del clima entro i propri confini nazionali e, dopo il 2030, raggiungere i suoi obiettivi climatici senza far nuovamente ricorso alle compensazioni di CO2. Alliance Sud invita il Consiglio federale a tenerne conto nella legge sul CO2 dopo il 2030.

Commercio mondiale

Nuova regolamentazione UE: colonialismo verde o opportunità di sviluppo?

21.06.2024, Commercio e investimenti

Un nuovo regolamento vieta le importazioni nell’UE dei sette prodotti che contribuiscono maggiormente alla deforestazione globale. Occorre garantire che ciò non equivalga a svantaggi per i piccoli produttori del Sud globale.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

Nuova regolamentazione UE: colonialismo verde o opportunità di sviluppo?

Chaem, Thailandia del nord.

© Keystone / EPA / Barbara Walton

Il nuovo regolamento UE sulle catene di approvvigionamento a deforestazione zero (EU Deforestation Regulation, EUDR) entrerà pienamente in vigore il 1° gennaio 2025. Le sette materie prime che contribuiscono maggiormente alla deforestazione nel mondo – cacao, caffè, olio di palma, gomma, soia, legno e carne bovina – e i prodotti che ne derivano, come cioccolato, capsule di caffè, mobili, carta e pneumatici, potranno essere importati nell’Unione europea (UE) solo se si può dimostrare che provengono da aree di produzione che non sono state deforestate dopo il 1° gennaio 2020. Inoltre, occorre provare che non sono stati violati i diritti di chi vi lavora, gli standard anticorruzione e i diritti delle comunità indigene.

A seconda del rischio di deforestazione, i Paesi di produzione sono suddivisi in tre categorie e i siti di produzione sono monitorati con mezzi tecnologici sofisticati come la geolocalizzazione. Il regolamento fa parte del “Green Deal” europeo, che si basa su un’affermazione inconfutabile: dopo la Cina, i Ventisette sono i maggiori importatori di prodotti che causano la deforestazione. L’obbligo di diligenza (cioè il dovere di garantire che non vi sia stata deforestazione) spetta a tutti gli attori della catena del valore: dalla produzione, all’esportazione e all’importazione, indipendentemente dalle dimensioni degli attori.

A seconda delle dimensioni, tuttavia, verranno applicate condizioni più o meno severe. Secondo uno studio di Krungsri Research View, un istituto di ricerca della quinta banca thailandese, la Germania è il Paese più colpito dall’EUDR: esporta principalmente legno, gomma, carne bovina e cacao. Il Paese è seguito a ruota dalla Cina, con il suo export di legno e gomma. Tra i Paesi del Sud globale, a essere maggiormente colpiti sono il Brasile (caffè, soia, olio di palma), l’Indonesia (olio di palma), la Malesia (olio di palma), l’Argentina (soia, olio di palma, carne bovina), il Vietnam (caffè) e la Costa d’Avorio (cacao), la Thailandia (gomma) e il Guatemala (olio di palma e caffè). L’ONG Fern (Forests and the European Union Resource Network) si aspetta che probabilmente anche l’Honduras, il Ghana e il Camerun, che dipendono in modo particolare dalle esportazioni verso l’UE, saranno colpiti dal regolamento.

Il Sud globale contro l’EUDR

I Paesi del Sud globale criticano severamente l’iniziativa, considerandola una forma nascosta di protezionismo e un nuovo colonialismo verde. Nel settembre del 2023, 17 capi di governo di America Latina, Africa e Asia hanno inviato una lettera ai rispettivi Presidenti della Commissione europea, del Parlamento europeo e del Consiglio dei ministri, condannando l’approccio “one-size-fits-all” dell’EUDR e la mancanza di conoscenza delle peculiarità locali.

In effetti, conformarsi al regolamento sarà difficile soprattutto per le piccole aziende agricole e produttive, anche se, ad eccezione di alcuni produttori di caffè e cacao, sono soprattutto le grandi aziende produttrici ed esportatrici che riescono a piazzare i loro prodotti sui mercati europei.

Le conseguenze di questa iniziativa non si sono fatte attendere. Come sottolinea l’Istituto Internazionale per l’Ambiente e lo Sviluppo, gli importatori europei stanno già passando dal caffè etiope a quello brasiliano, più facile da tracciare.

Nel suo Rapporto sul commercio e lo sviluppo del 2023 l’Organizzazione delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (ex UNCTAD) ha espresso preoccupazione per l’accumularsi di iniziative unilaterali come l’EUDR e il CBAM (la tassa di compensazione delle emissioni di carbonio, imposta anche dall’UE su prodotti altamente inquinanti come l’alluminio). Ritiene che queste linee guida violino il principio della responsabilità comune ma differenziata sancito dall’Accordo di Parigi sul clima.

L’esempio della Thailandia

L’istituto Krungsri Research View si è concentrato in particolare sul caso della Thailandia, che evidenzia l’ambivalenza dell’EUDR. Sebbene i prodotti rientranti nell’EUDR rappresentino solo l’8,3% delle esportazioni verso l’UE e lo 0,7% di tutte le esportazioni thailandesi, il loro valore è in aumento.

Produrre ed esportare gomma, legno e olio di palma vorrà dire sostenere costi considerevoli per adeguarsi alle nuove normative; le piccole aziende produttrici perderanno la loro competitività e la Thailandia rischia di essere esclusa dalle catene globali del valore.
Tuttavia, se il processo è accompagnato a dovere, sia dal governo che dalle misure di supporto previste nell’ambito dell’EUDR, la Thailandia può acquisire competitività rispetto alla sua concorrenza e allo stesso tempo tutelare le sue foreste.

Impatto sulla Svizzera

Cosa significa per la Svizzera? La nuova disposizione interessa il nostro Paese in via indiretta, poiché qualsiasi esportazione dei sette prodotti citati verso l’UE deve soddisfare i requisiti dell’EUDR. Secondo Krungsri, la Svizzera è al 17o  posto in termini di impatto, il quale riguarda il cacao e soprattutto il caffè. Finora, il Consiglio federale ha deciso di non adattare il diritto svizzero all’EUDR finché non sarà possibile il riconoscimento reciproco con l’UE. In questo modo si vuole evitare di raddoppiare l’onere per le aziende svizzere. Entro quest’estate, intende condurre uno studio d’impatto e in seguito adottare una decisione.

Anche la società civile ci sta lavorando. Alliance Sud partecipa a un gruppo di lavoro che sta analizzando se e come l’EUDR possa essere adattato alla Svizzera senza causare svantaggi per i piccoli produttori dei Paesi del Sud globale. Potrebbero essere necessarie misure di accompagnamento, formazioni e consultazione delle comunità locali. La lotta al cambiamento climatico non deve andare a scapito del potenziale di sviluppo del commercio globale.

 

Global Logo

global

La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Strategia 2025 – 2028

Cooperazione allo sviluppo sull’orlo del precipizio

21.06.2024, Cooperazione internazionale, Finanziamento dello sviluppo

A metà maggio il Consiglio federale ha adottato il messaggio sulla Strategia di cooperazione internazionale 2025-2028, insistendo nel finanziare gli aiuti all’Ucraina a spese del Sud globale e ignorando i risultati della consultazione pubblica.

Laura Ebneter
Laura Ebneter

Esperta in cooperazione internazionale

Cooperazione allo sviluppo sull’orlo del precipizio

© Ruedi Widmer

A livello di contenuti, nella strategia 2025-2028 il Consiglio federale non rivela grandi sorprese e si concentra su temi e strategie di attuazione già collaudati. E lo fa in un mondo che, secondo la strategia, è più frammentato, instabile e imprevedibile. In questo contesto, il Consiglio federale opta per una maggiore flessibilità: il suo motto attuale. Una flessibilità che è necessaria per affrontare le crisi odierne, come ha dichiarato il consigliere federale Ignazio Cassis in conferenza stampa. Tuttavia, leggendo la strategia ci si rende subito conto che flessibilità in realtà significa che l’intera somma destinata ad aiutare l’Ucraina, pari a 1,5 miliardi di franchi, proverrà dal bilancio della cooperazione internazionale (CI) e quindi gli importi per altri Paesi e programmi saranno ridotti in modo “flessibile”.

Oggi qui, domani là

Alla conferenza stampa del 10 aprile concernente la conferenza di pace sul Bürgenstock e l’aiuto all’Ucraina, il consigliere federale Ignazio Cassis aveva tematizzato la continua riallocazione di risorse nell’ambito della CI, spiegando che l’allocazione di fondi è un processo strategico e dinamico e non una circostanza statica. Un tale approccio dinamico può avere una certa efficacia, ad esempio nel coniugare in modo flessibile i tre pilastri della CI, ossia l’aiuto umanitario, la cooperazione allo sviluppo e la promozione della pace (concetto noto anche come nexus ). Spesso comunque i confini tra questi approcci sono labili.

Una cooperazione internazionale che sposta costantemente le proprie risorse tra diverse regioni e da un Paese all’altro non può costruire partenariati seri e a lungo termine. Eppure, per operare con efficacia ed efficienza, sono proprio questi ciò che serve. Occorrono fiducia e impegno a lungo termine, cioè relazioni che si instaurano e curano attraverso i programmi della cooperazione allo sviluppo. Oppure, per riprendere le parole del consigliere federale Cassis in occasione di un incontro con le ONG nel 2022: «affidabilità, fiducia e prevedibilità». Se la CI della Svizzera finisce in balia di considerazioni geopolitiche, le mancheranno le reti e il personale necessari sul campo. La guerra in Ucraina ha segnato l’inizio di una nuova fase, ma ciò non deve indurre la CI svizzera ad abbandonare ciò che ha costruito in molti anni e i risultati ottenuti con i suoi Paesi partner.

Sul filo del rasoio

Con la decisione di finanziare gli aiuti all’Ucraina attingendo dal bilancio della cooperazione internazionale, il Consiglio federale sta dicendo di no su vari fronti. In primo luogo, è un diniego al Sud globale, che da anni chiede ai Paesi benestanti di adempiere l’obiettivo riconosciuto a livello internazionale dello 0,7% del reddito nazionale lordo per l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS). Con il progetto del Consiglio federale entro il 2028 la Svizzera raggiungerà un APS dello 0,36% (esclusi i costi dell’asilo). Dov’è dunque la tradizione umanitaria, di cui si parla spesso e volentieri, quando ne abbiamo più bisogno?

In secondo luogo, è anche un diniego alle organizzazioni, ai partiti e ai Cantoni che hanno partecipato alla consultazione. Una netta maggioranza (75%) di coloro che hanno risposto a una domanda a questo riguardo ha dichiarato esplicitamente che gli aiuti all’Ucraina non devono andare a scapito di altre regioni e priorità della CI, come l’Africa subsahariana o il Medio Oriente. Nessuno dei partiti politici, eccetto l’UDC (il quale d’altronde, secondo il programma di partito, vorrebbe abolire la cooperazione allo sviluppo) sostiene il finanziamento della ricostruzione dell’Ucraina con i fondi della CI. Purtroppo, per la sua attuazione il Parlamento non ha ancora trovato una soluzione che abbia il sostegno della maggioranza nel dibattito sulle finanze federali.

Una Svizzera sempre meno credibile

All’estero non è passato inosservato il fatto che la Svizzera si stia adagiando sul suo comodo e redditizio status speciale di Paese neutrale e stia partecipando in maniera insufficiente alla difesa dell’Ucraina, indipendentemente dal fatto che il sostegno sia di natura militare o umanitaria. Con un tasso di indebitamento del 17,8% del prodotto interno lordo, la Svizzera sul piano internazionale non può spiegare in modo credibile perché non può stanziare ulteriori fondi per l’Ucraina. Allo stesso tempo, con le loro proposte di finanziamento per il riarmo dell’esercito e la tredicesima mensilità AVS, l’UDC e il PLR alimentano l’idea che la Svizzera possa abbandonare completamente i suoi obblighi internazionali.

Così il nostro Paese si isola sempre di più, perdendo credibilità a livello internazionale. Addio ruolo di mediatore, addio tradizione umanitaria e partner affidabile. Il Consiglio federale ha interpretato bene i segni dei tempi, ma ha scelto la strada dell’isolamento. Solo il Parlamento può ancora correggere il tiro e invertire la direzione per l’Ucraina e il Sud globale.

 

Global Logo

global

La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Fiscalità internazionale

Il Sud all’offensiva

13.06.2024, Finanza e fiscalità

All’ONU è stato dato il via ai negoziati preparatori della convenzione quadro sulla cooperazione internazionale in materia fiscale. L’esperto di politica fiscale di Alliance Sud è rimasto impressionato dal potere negoziale dei Paesi africani.

 

Dominik Gross
Dominik Gross

Esperto in politica fiscale e finanziaria

Il Sud all’offensiva

© UN Photo / Manuel Elías

L’ONU non è certo la migliore agenzia di pubbliche relazioni per sé stessa, soprattutto quando si tratta di politica fiscale. Così, a fine aprile, l’opinione pubblica mondiale non si è nemmeno quasi accorta che stava accadendo qualcosa di storico tra le mura della sede delle Nazioni Unite sull’East River a New York: per la prima volta nella storia, i governi dei 196 Stati membri delle Nazioni Unite si sono riuniti per negoziare la concezione futura della convenzione quadro dell’ONU sulla cooperazione fiscale, decisa dall’Assemblea Generale lo scorso dicembre. A trainare il processo è soprattutto il gruppo di Stati africani all’ONU, il cosiddetto “Gruppo Africa”. Mai come negli ultimi sei mesi i Paesi del Sud globale (G77) erano riusciti a portare avanti le loro esigenze in materia di politica fiscale all’ONU.

Entro agosto l’obiettivo è definire l’organizzazione e il contenuto a grandi linee della convenzione fiscale, cioè negoziare i cosiddetti “terms of reference”. Se l’Assemblea Generale li approverà a settembre, si potrà passare alla redazione della convenzione stessa e dei contenuti nel dettaglio. Su questa base potranno essere elaborate riforme fiscali giuridicamente vincolanti, che dovranno essere attuate dagli Stati membri. I Paesi del Sud globale e il movimento globale per la giustizia fiscale hanno quindi un’opportunità unica di porre fine al dominio dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) nella politica fiscale internazionale e di rendere l’ONU l’attore centrale, creando così le condizioni organizzative per una politica fiscale multilaterale più equa.

Il dilemma del Nord

Tentativi simili di porre fine al dominio fiscale dei paesi ricchi del Nord se ne sono verificati a più riprese negli ultimi 60 anni. Tuttavia, oggi le chances di riuscita sono più alte che mai, per due motivi:

1.    Con le sue riforme sulla tassazione delle società multinazionali, l’OCSE ha deluso. All’inizio del processo negoziale relativo a BEPS 2.0 (Base Erosion and Profit Shifting) nel gennaio del 2019, che in definitiva ha portato all’imposizione minima nell’autunno del 2022, l’obiettivo dichiarato era ancora quello di prevenire l’evasione fiscale da parte delle multinazionali nel commercio transfrontaliero, distribuire in modo più equo il gettito dell’imposta sull’utile in tutto il mondo e fermare la concorrenza fiscale tra i Paesi, che spinge sempre più al ribasso le imposte sulle imprese. Dopo cinque anni di negoziati l’OCSE non è riuscita a presentare altro che questa versione dell’imposizione minima, il cui gettito aggiuntivo confluisce proprio nelle aree a bassa tassazione per le imprese del Nord e non dove vengono realizzati gli utili. Nel Sud globale c'è grande frustrazione per questo risultato. Ora si intendono risolvere le ingiustizie dell’attuale sistema fiscale internazionale al di là della tassazione delle imprese nell’ambito delle Nazioni Unite.

2.    Gli sviluppi politici mondiali degli ultimi anni e le nuove esperienze di marginalizzazione a livello multilaterale che ne derivano hanno unito i Paesi africani in termini di politica fiscale. Si pensi alla discriminazione dell’accesso ai vaccini durante la pandemia di coronavirus, al rifiuto degli Stati creditori del Nord di adottare misure efficaci contro la crisi del debito sovrano nel Sud globale o ancora all’apatia della comunità internazionale quando urgeva combattere la crisi alimentare in numerosi Stati africani, innescata dalla guerra in Ucraina e dalla crisi di sicurezza delle navi cargo sulle vie marittime. Questa nuova unità africana dà nuovo peso agli interessi di politica fiscale del continente in seno alle Nazioni Unite. Le nazioni africane hanno mostrato un potere che non si vedeva da tempo nella politica economica globale.

Ad aprile, la cerchia rappresentante il Sud globale si è dimostrata altrettanto sicura di sé nei negoziati e ha avanzato sistematicamente richieste fondate. Tali richieste nell’ambito della politica fiscale internazionale spaziano da vari aspetti della tassazione delle imprese, alla lotta ai flussi finanziari sleali, all’imposizione dell’economia digitale, a tasse ambientali e climatiche, alla tassazione dei patrimoni elevati, a questioni relative allo scambio di informazioni nonché alla trasparenza fiscale e agli incentivi fiscali. Dall’inizio di giugno è consultabile la prima bozza scritta per la struttura di base della convenzione (terms of reference). Il documento tiene conto delle richieste del G77 in quasi tutti i punti e costituisce la base per il prossimo ciclo di negoziati.

La Svizzera segue senza particolari ambizioni

L’offensiva del Sud mette i Paesi OCSE in una posizione difficile: da un lato, vogliono trasferire all’ONU il minor numero possibile di questioni precedentemente negoziate all’interno dell’OCSE e dei forum correlati, perché essi stessi sono tra i beneficiari delle riforme decise finora. Lo si sa: questo vale anche per la Svizzera. Nel frattempo, si limita a seguire i Paesi dell’OCSE nel processo delle Nazioni Unite, senza particolari ambizioni. All’inizio del processo, la Segreteria di Stato per le questioni finanziarie internazionali (SIF) sperava di non dover nemmeno partecipare ai negoziati, perché considerava il processo una farsa. Evidentemente, si è trattato di un errore di valutazione. Se il gruppo dell’OCSE tenta di ostacolare il processo ONU aggrappandosi all’OCSE come forum autorevole in termini di questioni fiscali globali, offende ancora una volta i Paesi del Sud a livello multilaterale. Alla luce degli attuali grandi conflitti geopolitici con la Russia e la Cina, “l’Occidente” non può più permetterselo. Dopo tutto, a nessuno conviene che l’Africa, il continente più grande, vada a spasso nel campo geopolitico della Russia e della Cina.

Nei negoziati fiscali dell’ONU, i Paesi dell’OCSE si nascondono dietro la loro presunta panacea chiamata “capacity building”. In altre parole, sostengono volentieri le autorità fiscali del Sud globale con più know-how e fondi, al fine di catturare gli evasori fiscali. Everlyn Muendo del Tax Justice Network Africa (TJNA) nella sala conferenze 3 (a differenza dell’OCSE, nella sala dei negoziati dell’ONU la società civile è presente e può intervenire) ha dato una risposta appropriata a questa domanda: «We cannot capacity build our way out of the imbalance of taxing rights between developed and developing countries and out of unfair international tax systems».

Non è la mancanza di know-how e di capacità tecniche a costare al Sud globale il gettito fiscale, ma il sistema fiscale internazionale stesso e l’iniqua ripartizione dei diritti fiscali tra Nord e Sud che è inscritta in questo sistema. Nel prossimo futuro, il Gruppo Africa e i suoi alleati non si accontenteranno di un risultato negoziale che non offra la prospettiva di cambiamenti fondamentali del sistema fiscale internazionale. Il prossimo ciclo di negoziati si terrà a New York nei mesi di luglio e agosto.

 

 

L'esperto Dominik Gross durante le trattative a New York:

Global Logo

global

La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Votazione del 9 giugno

La legge sull’elettricità è necessaria per proteggere maggiormente il clima

16.05.2024, Giustizia climatica

Per tutelare il clima, la Svizzera deve assicurare il proprio approvvigionamento elettrico da fonti rinnovabili. Pertanto Alliance Sud sostiene la legge sull’elettricità, che sarà sottoposta a votazione il 9 giugno 2024.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

La legge sull’elettricità è necessaria per proteggere maggiormente il clima

La legge sull’elettricità promuove l’espansione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili in Svizzera. L’approvvigionamento di elettricità da fonti rinnovabili come il sole, l’acqua e il vento è imprescindibile perché la Svizzera possa progredire nella decarbonizzazione e raggiungere i suoi obiettivi climatici sempre più sul territorio nazionale, invece di compensare le sue emissioni all’estero. Si noti che questa legge nel Parlamento federale è stata sostenuta da membri di tutti i partiti. Anche il consigliere federale Albert Rösti ha appoggiato la proposta di legge, già in veste di consigliere nazionale. L’espansione delle rinnovabili è ormai un denominatore comune non solo in Svizzera, ma anche nell’ambito dei negoziati per il clima delle Nazioni Unite. All’ultima conferenza sui cambiamenti climatici COP28 di Dubai, la comunità internazionale si è posta l’obiettivo di triplicare la capacità mondiale di generare energie rinnovabili entro il 2030.

Tuttavia nei negoziati globali e nella politica climatica svizzera finora si è trascurato un secondo punto fondamentale: l’abbandono delle energie fossili. Infatti, anche ampliando le rinnovabili, se si continua a inquinare con i combustibili fossili i gas serra non diminuiranno.
Questo aspetto deve essere tenuto maggiormente in considerazione nella politica climatica svizzera.

Per il momento, comunque, dopo il 59% dei consensi espressi per la legge sulla protezione del clima un anno fa, il 9 giugno offre l’opportunità di ottenere ancora una volta dalla popolazione un chiaro segnale a favore di un futuro rispettoso del clima. Lo scorso giugno ce lo ha mostrato: la protezione del clima ha il sostegno della maggioranza!

Cosa porterà la nuova legge sull’elettricità?

•    Una transizione energetica più veloce
La legge sull’elettricità consente una rapida espansione delle energie rinnovabili, in particolare dell’energia solare. Oltre l’80% degli impianti è costruito su edifici e infrastrutture esistenti.

•    Indipendenza dall’estero
Le nostre energie rinnovabili consentono di eliminare gradualmente petrolio, benzina e gas. Anche il crescente fabbisogno di corrente elettrica per le auto elettriche, le pompe di calore e l’industria potrà essere soddisfatto in futuro con energia pulita e domestica.

•    Elettricità in armonia con la natura
La legge sull’elettricità chiarisce dove l’espansione delle energie rinnovabili dovrebbe essere prioritaria. In contrasto, le aree di valore ecologico e paesaggistico diventano poco attraenti per l’espansione.

•    Prezzi dell’energia convenienti e stabili
I costi energetici diminuiranno complessivamente perché il petrolio, la benzina e il gas saranno sostituiti da elettricità rinnovabile a basso costo. L’elettricità prodotta in Svizzera riduce anche il rischio di shock dei prezzi. Non saranno introdotte nuove tasse.

Ulteriori informazioni:
https://www.legge-elettricita.ch/

Intervista con Micheline Calmy-Rey

«La Svizzera deve esprimersi in modo più chiaro sul diritto internazionale umanitario»

23.04.2024, Cooperazione internazionale

Nell’attuale contesto di guerra, l’ex consigliera federale Micheline Calmy-Rey deplora la mancanza di una posizione chiara da parte della diplomazia svizzera. In quanto garante delle Convenzioni di Ginevra, la Svizzera dovrebbe intensificare il suo impegno a favore della popolazione civile.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

«La Svizzera deve esprimersi in modo più chiaro sul diritto internazionale umanitario»

Ramallah, in Cisgiordania, già prima del 7 ottobre è stata al centro di scontri tra esercito israeliano e palestinesi.

© Klaus Petrus

 

Signora Calmy-Rey, a 20 anni dal lancio dell’Iniziativa di Ginevra, in Medio Oriente si sta perpetrando la peggiore guerra dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948. Qual è la sua opinione riguardo al ruolo della Svizzera in questo conflitto?

L’Iniziativa di Ginevra, sostenuta dalla Svizzera, rappresentava un piano di pace alternativo firmato dalle società civili di Palestina e Israele e mirava a una risoluzione globale del conflitto con una soluzione a due Stati. Nel 2022, il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) ha ritirato il suo sostegno a questa iniziativa, pur rimanendo a favore di una soluzione a due Stati. Va detto che l’obiettivo di uno Stato palestinese è diventato secondario nell’agenda internazionale dell’ultimo decennio. Il conflitto, considerato senza speranza, è stato ignorato e si è continuato a propagare la soluzione a due Stati, ma i Paesi occidentali non hanno fatto nulla per concretizzarla. Niente lo dimostra meglio dell’indebolimento dell’Autorità palestinese. Si pensava che la normalizzazione delle relazioni tra gli Stati del Golfo e Israele avrebbe risolto il conflitto in poco tempo, ma come possiamo vedere, non è il caso. Oggi sta riemergendo l’idea di una soluzione a due Stati, ma la sua attuazione rimane difficile in quanto le questioni dello status di Gerusalemme, della colonizzazione e del diritto al ritorno dei rifugiati continuano ad attendere una risposta.

I tempi però sono cambiati. La soluzione a due Stati non è forse ancora più difficile da realizzare oggi rispetto a 20 anni fa?

Sì, ha ragione. Prendiamo l’evoluzione del numero di coloni ebrei nei territori palestinesi occupati: nel 1993 erano 280 000, oggi sono 700 000. La costruzione della barriera di separazione ha trasformato la Cisgiordania in micro-enclavi completamente ingovernabili. Oltre il 90% del territorio tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano è sotto il diretto controllo israeliano. Finora, la soluzione a due Stati non è altro che un pio desiderio.

 

Eine sieben Meter hohe Mauer, die das Westjordanland von Jerusalem und Israel.

Checkpoint Qalandia

© Klaus Petrus

Bau einer israelischen Siedlung bei Bet El nordöstlich der palästinensischen Stadt Ramallah, Westjordanland

Colonia ebraica di Bet El nei pressi di Ramallah.  

© Klaus Petrus

 

Cosa ne pensa del lavoro della cooperazione svizzera allo sviluppo nella regione attualmente?

Mi è difficile riconoscere una posizione chiara della Svizzera. Il messaggio è incoerente. Nella sua dichiarazione ufficiale, ha invitato le parti ad adempiere agli obblighi previsti dal diritto internazionale e dal diritto umanitario internazionale. Insieme ad altri 120 Stati, ha votato a favore di una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che chiedeva un immediato cessate il fuoco umanitario. Tuttavia, alcuni ambienti hanno criticato questo atteggiamento. Allo stesso tempo, il capo del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) dichiarava che la Svizzera avrebbe sospeso i finanziamenti a 11 organizzazioni in Palestina e Israele, rispondendo così alla richiesta di alcuni partiti politici di esaminare l’opportunità di eliminare gli aiuti allo sviluppo alla Palestina. Alla fine, solo tre organizzazioni palestinesi sono state colpite dal blocco dei finanziamenti. Durante il dibattito sul preventivo nella sessione invernale, il Parlamento ha anche deciso di non tagliare i 20 milioni di franchi che la Confederazione versa annualmente all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA). Tuttavia, dopo l’annuncio del licenziamento immediato di 12 dipendenti sospettati di essere collegati all’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre, la situazione potrebbe cambiare nuovamente. Purtroppo c’è il rischio che il contributo svizzero all’UNRWA venga sospeso, nonostante l’emergenza umanitaria a Gaza.

Mi è difficile riconoscere una posizione chiara della Svizzera.

Come valuta l’annuncio della Svizzera di voler organizzare una conferenza di pace sull’Ucraina?

La Svizzera lo ha annunciato ufficialmente al WEF di Davos. Di solito, prima si tengono discussioni preliminari e si definiscono gli obiettivi dell’incontro, poi viene diramato l’annuncio ufficiale. A Davos, la Svizzera ha invertito la procedura. In ogni caso la situazione è diversa dalla classica mediazione tra due Stati in conflitto. La conferenza di pace sarà stata preceduta da quattro riunioni di consigliere e consiglieri per la sicurezza provenienti da oltre 80 Paesi. Tutte erano pubbliche, l’ultima si è svolta a Davos. È stato quindi necessario adattare il metodo. Mi fa piacere che la Svizzera stia facendo passi avanti e stia sfruttando i suoi punti di forza, che non sono affatto trascurabili. Tuttavia, in questa fase possiamo parlare solo di “pre-preparazione”.

Secondo lei che cosa succederà ora?

È improbabile che la Russia partecipi direttamente al primo vertice. Allo stesso tempo, una conferenza di pace senza la Russia è impensabile. A Davos, la nostra Presidente e il nostro Ministro degli Esteri hanno espresso il desiderio di coinvolgere la Russia. Hanno affermato che la Svizzera vuole collaborare con il maggior numero possibile di capi di Stato, soprattutto con quelli che finora hanno teso a schierarsi dalla parte della Russia. Se la Svizzera vuole davvero plasmare la discussione e non limitarsi al ruolo di Paese ospitante, dovrà anche dettare il tono in termini di contenuti. Per questo è importante la partecipazione degli Stati filorussi e della Russia stessa. Un accordo sulla maggior parte dei punti del piano di pace ucraino al momento è irrealistico. La Svizzera dovrebbe determinare in maniera astratta i punti su cui esiste un denominatore comune tra gli Stati sostenitori dell’Ucraina e quelli della Russia. Inoltre, vi sono sfide tecniche per le quali si potrebbero raggiungere accordi provvisori nell’interesse delle parti, ad esempio sul grano, sullo scambio di prigionieri, sulla sicurezza delle centrali nucleari, ecc.

Mi auguro che la Svizzera si esprima in modo più forte e chiaro per il rispetto del diritto internazionale umanitario. Dopo tutto, Ginevra è la sua culla e la Svizzera è garante delle Convenzioni di Ginevra.

Lei è stata all’origine della candidatura della Svizzera al Consiglio di sicurezza dell’ONU. Che bilancio ne traccia dopo un anno di attività?

In seno al Consiglio di sicurezza la Svizzera ha potuto portare avanti la sua tradizionale politica estera. Con il Brasile, ha facilitato l’accesso umanitario dopo il terremoto nel nord della Siria. Tuttavia, è entrata nel Consiglio di Sicurezza in un momento in cui il multilateralismo è sull’orlo della crisi, paralizzato dal veto delle grandi potenze. Mi sarei aspettata che fosse un po’ più dinamica nel sostenere l’applicazione del diritto internazionale umanitario. È un peccato che non faccia di più su questo piano, poiché quello che sta accadendo in Ucraina o nel conflitto israelo-palestinese, in cui le Convenzioni di Ginevra vengono calpestate da tutte le parti, è semplicemente inaccettabile: bombardamenti indiscriminati a Gaza, attacchi criminali di Hamas del 7 ottobre. È inaccettabile che numerosi civili israeliani vengano giustiziati, che i palestinesi di Gaza siano in balia di Hamas e che venga ostacolata la consegna degli aiuti. Mi auguro che la Svizzera si esprima in modo più forte e chiaro per il rispetto del diritto internazionale umanitario. Dopo tutto, Ginevra è la sua culla e la Svizzera è garante delle Convenzioni di Ginevra.

Westmauer oder Klagemauer im Jüdischen Viertel der Altstadt von Jerusalem mit jüdischen Gläubigen und Ultraorthodoxen.

Muro del Pianto nel quartiere ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme.

© Klaus Petrus

Nel contempo, il multilateralismo sembra aver perso efficacia... Ha ancora fiducia nelle istituzioni dell’ONU e quale ruolo dovrebbero svolgere la Svizzera e la Ginevra internazionale?

Il Consiglio di Sicurezza è bloccato dai veti di entrambe le parti. Ma Ginevra è sede di molte organizzazioni tecniche e, quando si parla di erosione del multilateralismo, è importante osservare anche la situazione qui. Il Palazzo delle Nazioni è stato recentemente chiuso per quindici giorni per risparmiare sui costi di riscaldamento, il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) taglierà 4000 posti di lavoro e anche l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) sta pianificando licenziamenti su larga scala. Ginevra ospita un numero impressionante di organizzazioni tecniche delle Nazioni Unite che si trovano attualmente in difficoltà. L’ONU si basa anche sui dati necessari per il buon funzionamento della globalizzazione: si occupa di frequenze di telefonia mobile, brevetti e marchi, salute pubblica, condizioni di lavoro, clima e coordinamento dell’aiuto umanitario. C’è un notevole bisogno di riforme alle Nazioni Unite. Ciò non vale solo per il Consiglio di Sicurezza, ma anche per le organizzazioni tecniche, i cui processi di lavoro devono diventare più efficienti.

Come valuta la cooperazione allo sviluppo della Svizzera? Secondo lei si dovrebbe attingere al budget ordinario della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) per finanziare la ricostruzione in Ucraina?

La priorità della Svizzera era ed è tuttora quella di aiutare le popolazioni più povere. A livello di politica estera, trovo insostenibile tagliare gli aiuti ai Paesi più poveri – aiuti che costituiscono una voce di budget regolare riportata di anno in anno e un obiettivo sostenibile della DSC – per ridirigere i fondi al sostegno della ricostruzione in Ucraina. Tale aiuto è certo un obiettivo nobile e necessario, ma speriamo anche limitato nel tempo e che a parer mio dovrebbe beneficiare di un finanziamento speciale.

Alt Bundesrätin Micheline Calmy Rey

Micheline Calmy-Rey

L’ex consigliera federale Micheline Calmy-Rey è stata a capo del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) dal 2002 al 2011. Ha perseguito una politica di neutralità attiva, coinvolgendo la Svizzera in diverse mediazioni internazionali e iniziative di pace. L’esempio più noto è la mediazione tra la Federazione Russa e la Georgia, che ha facilitato alla Russia di entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2011, ma si ricordano anche le mediazioni tra Turchia e Armenia. Nel 2008, Micheline Calmy-Rey ha negoziato con successo gli accordi di rappresentanza della Georgia in Russia e viceversa.

Intervista pubblicata da "La Regione" il 22 aprile 2024.

Global Logo

global

La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Articolo, Global

L’illusione della volontarietà

28.03.2024, Giustizia climatica

Sotto la pressione della società civile e dei media, il mercato del carbonio è caduto in discredito. E a ragione: il sistema attuale non mantiene le sue promesse e pone il Sud globale in una posizione di svantaggio.

Di Maxime Zufferey

L’illusione della volontarietà

Un ricorso eccessivo alla compensazione invece di una riduzione sostanziale delle emissioni non è in alcun modo sostenibile.

© Ishan Tankha / Climate Visuals Countdown

Il mercato volontario del carbonio consente lo scambio di crediti di carbonio. Così un’azienda che continua a emettere CO2 può compensare le proprie emissioni finanziando progetti che riducono le emissioni altrove. In teoria, la compensazione del carbonio è considerata l’approccio di mercato più efficace per ottenere risultati in termini di riduzione delle emissioni a livello globale. Si basa sull’idea di massimizzare l’impatto delle risorse che abbiamo a disposizione per ridurre le emissioni utilizzandole laddove sono più economiche. Ad esempio, dopo aver ridotto le emissioni meno costose, un’azienda potrebbe destinare risorse a progetti tecnologici a basse emissioni di carbonio o a progetti di riforestazione, in modo da compensare matematicamente le emissioni che non è ancora riuscita a ridurre. In pratica, però, l’uso di crediti di compensazione a basso costo è fortemente criticato perché compromette la priorità assoluta di ridurre le emissioni e concorre a mantenere uno status quo insostenibile. Il crescente controllo da parte della società civile ha recentemente messo in dubbio le promesse, spesso ingannevoli, di “neutralità carbonica” formulate da alcune aziende con il pretesto della compensazione, quando in realtà le loro emissioni continuano ad aumentare.

I mercati del carbonio: un bilancio

Dalla sua nascita alla fine degli anni ’80, e in particolare dalla firma del Protocollo di Kyoto nel 1997, il mercato del carbonio è sempre stato oggetto di controversie. Il suo sviluppo ha portato alla nascita di mercati paralleli, talvolta difficili da distinguere a causa delle loro potenziali sovrapposizioni: il mercato del carbonio della “compliance” e il mercato “volontario”. Il mercato della compliance prevede riduzioni obbligatorie delle emissioni ed è regolamentato a livello nazionale o regionale. Il più noto di questi mercati è il sistema di scambio di quote di emissione dell’Unione Europea (EU-ETS), al quale la Svizzera ha aderito nel 2020. In base a questo meccanismo, alcuni grandi emettitori – centrali elettriche e grandi aziende industriali – sono soggetti a un tetto massimo di emissioni, che possono compensare acquistando certificati da altri membri che hanno ridotto le loro emissioni oltre l’obiettivo fissato. Tale limite massimo viene abbassato annualmente. Nonostante la sua attuazione estremamente complessa, questo sistema ha contribuito a una certa riduzione delle emissioni nei settori interessati. Tuttavia, è stato criticato il fatto che nei primi tempi l’assegnazione di certificati gratuiti ai grandi emettitori sia stata troppo generosa e che non siano stati prescritti obiettivi di riduzione sufficientemente ambiziosi. Inoltre, il prezzo del carbonio è ancora troppo basso; dovrebbe riflettere i costi sociali di una tonnellata di emissioni ed essere gradualmente aumentato a 200 USD. Il mercato volontario, invece, non prevede attualmente alcun obiettivo minimo di riduzione e rimane in gran parte non regolamentato. In questo tipo di mercato vengono utilizzati anche crediti di emissione di qualità molto diversa e a prezzi molto diversi (talvolta vengono offerti a meno di 1 USD).

I limiti del mercato volontario

La crisi di fiducia che ha colpito il mercato volontario del carbonio è dovuta non solo alla mancanza di regolamentazione e alla frammentazione del quadro normativo, ma anche ai limiti tecnici di questo meccanismo. I crediti di carbonio raramente corrispondono all’esatta unità di “compensazione” richiesta; il loro effetto è sistematicamente sovrastimato. Ciò è dovuto all’inaffidabilità del metodo di quantificazione e alla mancanza di un sistema di controllo integrale e privo di conflitti di interesse. Ma non è tutto, spesso infatti non è chiaro se i progetti di compensazione soddisfino il criterio dell’addizionalità , cioè se non sarebbero stati realizzati lo stesso senza il contributo finanziario dei crediti di emissione. È il caso in particolare dei progetti nell’ambito delle energie rinnovabili, che sono diventati la fonte di energia più economica nella maggior parte dei Paesi. Rappresentano una sfida importante anche le doppie contabilizzazioni , laddove un credito di emissione viene contabilizzato sia da parte del Paese ospitante sia da parte dell’azienda straniera. Questa procedura contraddice il principio secondo cui un credito può essere dedotto solo da un’unica entità. Il rischio di doppie contabilizzazioni è aumentato con l’Accordo di Parigi perché, a differenza del Protocollo di Kyoto, richiede anche ai Paesi in sviluppo di ridurre le emissioni.

Solleva molti dubbi, inoltre, la questione della permanenza delle compensazioni contabilizzate. L’estrazione e la combustione dei combustibili fossili fanno parte del ciclo del carbonio a lungo termine, mentre la fotosintesi e quindi l’assorbimento del carbonio da parte degli alberi o l’assorbimento negli oceani fanno parte del ciclo biogenico del carbonio a breve termine. Sembra quindi illusorio voler compensare l’accumulo a lungo termine di CO2 nell’atmosfera con progetti di compensazione limitati a pochi decenni. Inoltre, gli stessi cambiamenti climatici causati dall’uomo stanno compromettendo la permanenza del carbonio nei serbatoi temporanei come il suolo e le foreste, vista l’intensificazione degli incendi, dei periodi di siccità e della diffusione di parassiti. Esiste anche il rischio di rilocalizzazione delle emissioni (leakage) se, ad esempio, un progetto di protezione delle foreste in una particolare regione porta alla deforestazione altrove. Le prospettive di soluzioni tecnologiche con dispositivi per la cattura e il sequestro del carbonio non devono essere sopravvalutate. Attualmente non sono né competitive né disponibili a breve termine nella misura richiesta. Probabilmente anche in futuro continueranno a svolgere un ruolo limitato, benché necessario.

Il colonialismo del carbonio acuisce le ingiustizie

A prescindere da tutto ciò, un ricorso eccessivo alla compensazione invece di una riduzione sostanziale delle emissioni è assolutamente insostenibile. Come sottolinea CarbonMarketWatch nel suo rapporto (Corporate Climate Responsibility Monitor) sull’integrità degli obiettivi di protezione del clima delle aziende che si autodefiniscono leader in campo climatico, l’attuazione dei loro attuali piani per il raggiungimento delle “zero emissioni nette” dipende fortemente dalla compensazione. Se proseguisse a questo ritmo, il fabbisogno di terreno per generare quote di emissione supererebbe di gran lunga la disponibilità di suolo, minacciando direttamente la sopravvivenza delle comunità locali, la biodiversità e la sicurezza alimentare. Allo stesso tempo, i progetti popolari di riduzione delle emissioni nel mercato volontario, come la riforestazione o altre “soluzioni basate sulla natura”, sono spesso basati su modelli “fortezza” di conservazione della natura, in cui le aree protette sono delimitate e militarizzate – a scapito degli abitanti originari. Questi progetti non nascono affatto in “spazi vuoti” dove chi inquina può piantare alberi a tappeto, bensì interessano spesso aree abitate da comunità indigene. La nuova corsa all’oro delle soluzioni basate sulla natura attraverso la privatizzazione dei pozzi di carbonio naturali esacerba conflitti fondiari storicamente complessi e rischia di significare l’esproprio per le popolazioni locali . A maggior ragione quando questi progetti limitano il diritto delle comunità indigene all’autodeterminazione e al consenso libero e informato prima dell’approvazione di qualsiasi progetto che riguardi i loro territori.

Nel complesso, il sistema attuale è in larga misura inadeguato ad affrontare l’urgenza della crisi climatica ed è anche profondamente ingiusto. Concede diritti di inquinamento ai maggiori emettitori di gas serra, soprattutto alle grandi aziende e alle economie del Nord del mondo, le quali possono continuare a fare affari come prima, mentre limita i sistemi economici e gli stili di vita in particolare del Sud globale. Questo colonialismo del carbonio trasferisce quindi la responsabilità della lotta al cambiamento climatico e alla deforestazione  dalle grandi aziende alle comunità locali, che sono le meno responsabili del cambiamento climatico.

 

Pubblicato sulla Regione il 27 marzo 2024.

 

 

Global Logo

global

La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Articolo

Un nuovo Eldorado per i commercianti di materie prime

07.12.2023, Giustizia climatica

In un mercato del carbonio che comincia a rivelare i suoi limiti, un attore inaspettato si è autoinvitato ai negoziati: i commercianti di materie prime hanno recentemente intensificato il loro commercio di CO2 senza ridurre gli affari nel settore dei combustibili fossili.

Di Maxime Zufferey

Un nuovo Eldorado per i commercianti di materie prime

Il mercato del carbonio fa gola anche ai commercianti di materie prime.

© Nana Kofi Acquah / Ashden 

Gas naturale etichettato “carbon neutral” o cemento etichettato “a emissioni zero”: l’elenco dei beni di consumo apparentemente neutrali per il clima si è allungato sempre di più negli ultimi anni. Il trucco contabile alla base della compensazione delle emissioni di CO2 prevede che l’attore che emette gas a effetto serra – che si tratti di un’azienda, un individuo o un Paese – paghi affinché un altro attore eviti, riduca o azzeri le proprie emissioni. In questo modo, le aziende possono posizionarsi sul mercato come meglio credono, presentandosi alla loro clientela quali aziende impegnate nella tutela del clima, senza tuttavia ridurre le proprie emissioni. Il mercato volontario del carbonio, che oscilla tra un vero e proprio boom e la recente crisi di fiducia innescata dalle accuse di greenwashing, si trova di fronte a un bivio.

Da un lato, vi è la realtà economica di un mercato volontario del carbonio che è quadruplicato fino a raggiungere i 2 miliardi di dollari solo nel 2021, con il potenziale di crescere fino a 50 miliardi di dollari entro il 2030. Ciò ha attirato l’interesse dei maggiori emettitori, principalmente dei commercianti di materie prime. Questa crescita esponenziale del mercato è dovuta in parte al fatto che il settore privato subisce pressioni perché assuma sempre più impegni a favore di emissioni nette pari a zero; in parte al fatto che la compensazione è un’alternativa con vantaggi finanziari e logistici rispetto alla riduzione della propria impronta di carbonio. Dall’altro, vi sono sempre più rapporti sulla scarsa qualità dei progetti del mercato volontario del carbonio. Mettono in guardia riguardo allo sviluppo incontrollato di un mercato il quale effetto reale sulla protezione del clima è quasi inesistente o addirittura controproducente. Il Politecnico federale di Zurigo e l’Università di Cambridge hanno dimostrato che solo il 12% del volume totale dei crediti esistenti nelle aree di compensazione più importanti – energie rinnovabili, fornelli e forni, silvicoltura e processi chimici – riduce effettivamente le emissioni. La piattaforma di giornalismo investigativo Follow the Money ha segnalato cifre massicciamente gonfiate in relazione al progetto di punta Kariba di South Pole. La società con sede a Zurigo ha successivamente annullato il suo contratto di carbon asset developer per il progetto in Zimbabwe. L’ONG Survival International ha mosso gravi accuse contro un progetto di compensazione volontario nel Kenya settentrionale, realizzato sulle terre delle comunità indigene. L’inchiesta ha portato alla luce violazioni potenzialmente gravi dei diritti umani che mettono a rischio le condizioni di vita delle popolazioni pastorali.

Che cos’è dunque il mercato volontario del carbonio? Una soluzione di marketing mal concepita e un pericoloso abbaglio che distrae dall’urgente necessità di misure trasformative a tutela del clima da parte del settore privato? Oppure un’autentica opportunità commerciale per sostenere le misure di protezione del clima delle aziende e un’iniezione di fondi multimiliardari, urgentemente necessari, per progetti di riduzione delle emissioni e di salvaguardia della biodiversità nei Paesi in sviluppo?

Certificati di CO2: la materia prima del futuro

In qualità di pioniere dello scambio bilaterale di certificati di CO2 nell’ambito dell’Accordo di Parigi, la Svizzera è un attore importante nel mercato del carbonio, compreso il suo segmento volontario. È il Paese di origine del principale fornitore di certificati di CO2 volontari, South Pole, e del secondo più grande certificatore, Gold Standard. È forse ancora più sorprendente il posizionamento dei giganti del commercio di materie prime svizzeri e in particolare di quelli con sede a Ginevra in  questo mercato. Sono il fiore all’occhiello di un settore che sta registrando un anno record dopo l’altro. Tuttavia, i nuovi investimenti si spiegano anche con il potenziale che offre questo mercato opaco di ricavare margini considerevoli pur continuando a emettere come prima. Un mercato, si noti bene, che non è regolamentato né in termini di prezzi né di distribuzione dei proventi dalla compensazione di CO2. Secondo Hannah Hauman, responsabile degli scambi di quote di emissione presso Trafigura, il segmento del carbonio è oggi il più grande mercato di materie prime al mondo e ha già superato il mercato del petrolio greggio.

Trafigura, uno dei maggiori commercianti indipendenti di petrolio e metalli al mondo, nel 2021 ha deciso di aprire un proprio ufficio di carbon trading a Ginevra e di lanciare il più vasto progetto di riforestazione di mangrovie sulla costa pakistana. Un anno dopo, il volume degli scambi di quote di emissione ammontava già a 60,3 milioni di tonnellate. Nel suo rapporto annuale per il 2022, il trader energetico Mercuria, con sede a Ginevra, non solo ha dichiarato la sua neutralità rispetto alle emissioni di carbonio, ma ha anche affermato che il 14,9% del suo volume di trading è costituito da mercati di carbonio, rispetto al 2% del 2021. All’inizio del 2023, il cofondatore di Mercuria Marco Dunand ha annunciato la realizzazione di Silvania, un veicolo di investimento con un capitale di 500 milioni di dollari specializzato in soluzioni basate sulla natura (SBN). Poco dopo, con lo Stato brasiliano di Tocantins ha lanciato il primo programma per ridurre le emissioni da deforestazione e degrado forestale con un volume fino a 200 milioni di crediti di carbonio volontari. Tuttavia, il petrolio e il gas rappresentano ancora la principale attività dell’azienda (quasi il 70%). Il vicino di Mercuria sulle rive del Lemano, Vitol, il più grande commerciante privato di petrolio al mondo, ha oltre dieci anni di esperienza nei mercati del carbonio e intende espandere le sue attività in questo settore. L’azienda punta a raggiungere un volume di mercato nello scambio di quote di emissione di CO2 paragonabile alla sua presenza sul mercato del petrolio. In altre parole: 7,4 milioni di barili di greggio e prodotti petroliferi al giorno nel 2022, il che corrisponde a più del 7% del consumo globale di petrolio. Anche il commerciante di greggio Gunvor intende aumentare il volume di scambi di CO2 nei prossimi anni, comunicando tuttavia in maniera meno trasparente; lo stesso vale per Glencore, che è attiva da molti anni nel settore dei pagamenti compensativi per la biodiversità, il fulcro della sua strategia di sostenibilità. Glencore ha stimato le sue emissioni lungo l’intera catena del valore a 370 milioni di tonnellate di CO2-equivalenti nel 2022, più di tre volte le emissioni totali di CO2 della Svizzera.

Queste aziende si dichiarano forze trainanti della transizione e affermano di aver accelerato lo sviluppo integrando lo scambio di quote di emissioni nei loro portafogli. Rimane il fatto che stanno perseguendo una duplice strategia di investimento sia nelle fonti energetiche a basse emissioni di carbonio sia nei combustibili fossili, con un bilancio ancora nettamente a favore dei combustibili fossili. Del resto, nessuno di questi commercianti di materie prime ha ancora annunciato l’intenzione di abbandonare i combustibili fossili. Eppure ciò è essenziale se vogliamo rimanere al di sotto dell’aumento di temperatura di 1,5°C come previsto dall’Accordo di Parigi. La situazione piuttosto è capovolta: le aziende fanno molto affidamento sulle operazioni di compensazione per adempiere ai loro obblighi climatici e perseguono così i loro obiettivi di profitto a breve termine, ritardando al contempo l’abbandono graduale dei combustibili fossili a livello mondiale. Data la mancanza di una regolamentazione che limiti gli investimenti nei combustibili fossili e nelle attività che pregiudicano il clima, è illusorio credere che l’industria del commercio delle materie prime possa realizzare la transizione e che gli obiettivi siano raggiungibili attraverso il mercato volontario del carbonio. Finché le aziende non faranno tutto il possibile per ridurre le proprie emissioni, le soluzioni basate sulla natura non saranno altro che greenwashing e le dichiarazioni d’intenti a favore della transizione rimarranno di facciata: queste aziende stanno fingendo di spegnere il vastissimo incendio che esse stesse hanno alimentato.

Dubai nel ruolo dell’arbitro

Nel mese di dicembre 2023 la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28) a Dubai probabilmente definirà la rotta per il futuro e la credibilità del mercato volontario del carbonio. Uno dei temi oggetto di negoziazione è l’attuazione dell’articolo 6.4 dell’Accordo di Parigi, che potrebbe fungere da quadro uniforme per un vero e proprio mercato globale del carbonio. La COP è presieduta da Sultan Al Jaber, CEO dell’undicesimo produttore mondiale di petrolio e gas, la Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), che ha appena aperto un ufficio di carbon trading. Anche le multinazionali del settore dei combustibili fossili e delle materie prime si sono assicurate una presenza massiccia al tavolo dei negoziati. Le necessità di trasparenza, di regole universali e di controlli efficaci nel mercato volontario del carbonio rischiano quindi di essere trascurate.

Sebbene i sostenitori del mercato volontario del carbonio riconoscano alcune delle attuali debolezze del settore, rimangono convinti che le varie iniziative di autoregolamentazione, come la Voluntary Carbon Markets Integrity Initiative (VCMI), e la creazione di standard permetteranno di differenziare chiaramente i crediti di carbonio ad alta integrità. Gli oppositori, invece, non credono nel potere di trasformazione di un mercato volontario attraverso l’autoregolamentazione. Considerano il dibattito sulla compensazione delle emissioni di CO2 una potenziale manovra diversiva che consolida lo status quo. Chiedono un completo cambiamento di paradigma. L’attuale mercato della compensazione delle emissioni di carbonio basato sul principio “tonnellata per tonnellata” – cioè una tonnellata di CO2 emessa in un luogo è matematicamente compensata da una tonnellata di CO2 risparmiata altrove – dovrebbe essere trasformato in un mercato separato per i contributi al clima basato sul principio “tonnellata per denaro”, cioè una tonnellata di CO2 emessa in un luogo è finanziariamente internalizzata nella misura del costo sociale reale di una tonnellata di emissioni. Si tratterebbe di uno strumento utile per integrare gli impegni di riduzione quantificabili, non per sostituirli. È inoltre urgentemente necessaria un’accurata due diligence per tutti i progetti legati al carbonio, con meccanismi di salvaguardia dei diritti umani e della biodiversità e un efficace meccanismo di denuncia.

 

Articolo

Un impegno che può costare caro

22.06.2020, Cooperazione internazionale

Per decenni il modello di sviluppo neoliberale ha consapevolmente ignorato la soppressione dei diritti umani e dei suoi difensori. È giunto il momento di un cambiamento di paradigma.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Un impegno che può costare caro
Una volta completata, la Grande Diga del Rinascimento in Etiopia (GERD), che sbarra il fiume Nilo Blu, sarà la più grande centrale idroelettrica dell'Africa.
© Pascal Maitre/Panos