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« Come può una proprietà possederne un’altra? »

22.06.2021, Cooperazione internazionale

Tra il 2016 e il 2019, in due villaggi masai nel nord della Tanzania, è stato condotto il progetto di ricerca pratica WOLTS focalizzato sulle interazioni tra l’estrazione mineraria, la pastorizia e i diritti fondiari delle donne.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

« Come può una proprietà possederne un’altra? »

Piccolo bambino, grande carico di lavoro: una donna Masai a Oleparkashi, Tanzania.
© Tobias Peier

Mundarara, un piccolo villaggio di meno di 5’000 abitanti rannicchiato tra colline verdeggianti, è raggiungibile unicamente tramite una strada in terra battuta, interminabile e accidentata, lungo la quale si possono scorgere giraffe, antilopi e struzzi. Da questa strada, è possibile vedere anche degli uomini masai che indossano ampi abiti rossi e tengono in una mano il bastone per guidare le mucche e nell’altra un telefonino portatile; oppure si possono osservare delle donne agghindate con gioielli che trasportano legna sulla testa; o ancora una miniera di rubini di media importanza dove, nei materiali di scavo, numerose donne cercano delle piccole pietre preziose. Durante la mia prima visita al villaggio, il nostro gruppo viene accolto da uno dei capi del posto, un uomo di mezza età grande e corpulento. Nel suo ufficio, una capanna d’argilla e paglia con alcune sedie traballanti, un tavolo e alcune foglie ingiallite sul muro, ci accoglie con una stretta di mano e uno sguardo malizioso. Dopo avergli spiegato il nostro approccio, poniamo a lui e ad alcuni altri anziani del villaggio presenti, alcune domande preliminari sullo sfruttamento minerario e i diritti fondiari nel villaggio. Quando poi gli chiedo se le donne sono autorizzate a possedere delle terre, mi risponde indignato in lingua masai: «Come può una proprietà possederne un’altra?».

La sua domanda riassume perfettamente la situazione di numerose donne masai: esse sono considerate come una proprietà degli uomini – prima da parte del loro padre e poi, dopo il loro matrimonio, da parte del marito. Qualsiasi tipo di possesso (bestiame, casa o terreno) è escluso. I Masai sono una delle etnie più patriarcali dell’Africa. Qui la poligamia è la regola. Le mutilazioni genitali e i matrimoni infantili sono ancora molto diffusi, malgrado le proibizioni legali. Le storie di numerose donne con le quali ci intratteniamo sono simili: praticamente nessuna di loro ha terminato la scuola elementare, le loro giornate di lavoro sono lunghe e massacranti (andare a cercare l’acqua e la legna per riscaldare, mungere le mucche, ecc.). I soldi che guadagnano vendendo dei gioielli, della legna da ardere o, più recentemente, degli scarti provenienti dalle miniere, spesso bastano a malapena per sopravvivere, tanto più che molti uomini non provvedono ai bisogni della loro famiglia.

Una fatica improba

Una discussione di gruppo con delle seconde spose mi è rimasta particolarmente impressa nella memoria. Immaginavo d’incontrare un gruppo di donne d’una certa età, mentre invece siamo stati accolti da tre ragazze tra i 14 e i 16 anni. Due di loro erano già in uno stato di gravidanza molto avanzato. Queste giovani ci hanno spiegato perché si ritenevano fortunate a essere delle seconde spose: «Abbiamo compassione per quelle donne che non hanno nessun’altra sposa a casa, perché hanno ancor più lavoro da fare. Il duro lavoro inizia col matrimonio. Quando si è a casa con la propria madre, si può dirle che si è stanche e che ci si vuol riposare. Ma una volta sposate, è il marito che ha tutto il potere e non si osa confessargli la propria stanchezza. Altrimenti ci picchia». (Citato in Daley, E., e altri, (2018). Gender, Land and Mining in Pastoralist Tanzania, p. 43).

Per la maggioranza delle donne masai la violenza fa parte della quotidianità. L’estrazione mineraria l’ha esacerbata in diversi modi, poiché ormai molte persone dall’esterno vengono nei villaggi a cercare pietre preziose. Nei due villaggi, sentiamo regolarmente parlare di stupri e addirittura d’omicidi, che rimangono impuniti. Molte donne si sentono abbandonate dal loro marito e dagli uomini incaricati d’amministrare i villaggi, e non è raro che la vittima stessa sia ritenuta responsabile d’uno stupro. 

Il mutamento dei ruoli

Malgrado ci siano tante storie dolorose, a più riprese veniamo anche a sapere di fatti positivi, di storie di cambiamento. Ed è soprattutto nel corso del nostro lavoro che ne veniamo a conoscenza. Sulla base d’una ricerca approfondita, proponiamo una serie di workshop scaglionati su due anni: si tratta di riunioni informative giuridiche concrete sui diritti fondiari, l’estrazione mineraria e l’uguaglianza dei sessi, nonché di discussioni interattive e di giochi di ruolo. 

Durante queste riunioni, le donne si siedono dapprima in un angolo, gli uomini in un altro. Le donne parlano poco e se osano comunque esprimersi, sono sempre smentite dagli uomini presenti. Mi domandano spesso come si svolgono le faccende quotidiane nella mia famiglia. Sono io a prendere tutte le decisioni a casa mia? Queste discussioni sono molto interessanti poiché, anche da noi, le cose sono ben lungi dall’essere perfette: dico loro che nel nostro Paese le donne hanno il diritto di voto solo da 50 anni, che prima dovevano avere il permesso del loro marito per poter lavorare e che, ancora oggi, è difficile conciliare lavoro e famiglia. Il sessismo e la violenza fanno pure parte della quotidianità di numerose donne nel nostro Paese.

Le discussioni dimostrano che i ruoli destinati agli uomini e alle donne evolvono anche per i Masai. Numerose coppie d’una certa età si sono sposate a seguito della «prenotazione» di figlie che stanno per nascere (un uomo dà a una donna incinta un anello affinché la creatura che sta per venire al mondo, se è una bambina, gli sia riservata come futura sposa). Diversi giovani masai parlano d’un più grande numero di cosiddetti matrimoni d’amore. Questi ultimi rimangono spesso monogami e sono caratterizzati da una cooperazione molto più marcata delle coppie sposate. La divisione del lavoro evolve anche a seguito dell’estrazione mineraria, del cambiamento climatico e di altri fattori; le donne svolgono sempre più compiti «tradizionalmente» maschili, come far pascolare le mucche, ma senza abbandonare le mansioni «tradizionalmente» femminili, come andare a cercare la legna e l’acqua. Anche in questo caso, si possono intravvedere dei paralleli con la Svizzera, dove le donne entrano sempre di più a far parte di ambiti maschili «tradizionali», sia nella vita professionale che in quella politica, guadagnando però spesso molto meno e assumendo sempre una buona parte dei compiti d’assistenza e di cura.

L’intenzione non è quella di cambiare la cultura dei Masai, né d’imporre loro la nostra, bensì di mostrare che i ruoli e le relazioni tra i generi evolvono – sia nei Masai che in Occidente – e che tutti dobbiamo impegnarci per modellare e sostenere questo cambiamento. Un partecipante, uomo, l’ha espresso in modo preciso dicendo: «Possiamo sempre essere dei Masai e perpetuare le nostre tradizioni, ma alcune di queste sono nefaste e dobbiamo cambiarle».  

Per saperne di più sul progetto WOLTS, consultare.

Scoprite il rapporto completo

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« La politica di sviluppo esisterà sempre »

24.06.2021, Cooperazione internazionale

Mark Herkenrath è professore titolare di sociologia all’Università di Zurigo. Fra i suoi campi di ricerca vi sono le conseguenze della globalizzazione economica sullo sviluppo e la resistenza della società civile in America Latina e negli Stati Uniti d’America contro l’accordo di libero scambio panamericano (ALCA). Fa parte del team di Alliance Sud dal 2008, dove è stato responsabile del dossier di Politica fiscale e finanziaria prima di assumere la carica di direttore nel 2015.

Marco Fähndrich
Marco Fähndrich

Responsabile della comunicazione e dei media

« La politica di sviluppo esisterà sempre »

Mark Herkenrath a un evento della Piattaforma Agenda 2030 della società civile.
© Martin Bichsel

Nel 2015 è stata adottata l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, celebrata a livello internazionale come una pietra miliare. Finora, però, il Consiglio federale non ha attuato quasi nulla e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) sono poco conosciuti dalla popolazione. Per quale motivo?

Il Consiglio federale non si impegna a sufficienza per l’Agenda 2030. Non vuole stanziare fondi supplementari per la sua attuazione, bensì semplicemente integrare lo sviluppo sostenibile globale nelle politiche già esistenti. Inoltre, sta facendo troppo poco per far conoscere l’Agenda 2030 al grande pubblico. Questo dovrebbe essere il compito delle Organizzazioni Non Governative (ONG), malgrado ora non siano più autorizzate, in seguito all’ordine del capo del Dipartimento Federale degli Affari Esteri, Ignazio Cassis, ad utilizzare i fondi federali per il lavoro di formazione e sensibilizzazione in Svizzera.

Eppure, il Consigliere federale Cassis ha fissato la sostenibilità come obiettivo della nuova strategia di politica estera...

Il Consigliere federale Cassis si è pure distanziato dall’Agenda 2030 nel 2018, un anno dopo la sua investitura! Durante un’intervista alla Basler Zeitung, si è lamentato, infastidito, di non essere mai stato consultato sull’Agenda 2030 nel corso della sua carriera di membro del Parlamento. Ha criticato l’Agenda e il Patto dell’ONU sulla migrazione, affermando che si trattava di un’opera fittizia di diplomazia, in contraddizione con le scelte di politica interna. Nel frattempo però, sembra aver meglio compreso che un mondo equo e sostenibile è negli interessi della stessa Svizzera.

Con l’Iniziativa Multinazionali Responsabili, la società civile svizzera ha ottenuto un bel successo alle urne. In seguito alla votazione, alcuni politici borghesi vorrebbero limitare il margine d’azione delle ONG. Le ONG sono diventate troppo potenti? 

(Sorride.) Sembra che le ONG siano corse in massa alle urne la domenica di votazione, per riempirle dei loro bollettini di voto. In realtà, nella democrazia svizzera, è sempre l’elettorato ad avere l’ultima parola sulle questioni. E si forma la propria opinione. Durante la votazione sull’Iniziativa Multinazionali Responsabili, il 50,7% degli aventi diritto di voto si è detto a favore di una Svizzera aperta e solidale. La popolazione ha giustamente dato fiducia alle ricerche di casi ben documentati dalle ONG. Invece, la fiducia riposta nelle associazioni economiche e nei loro gruppi vacilla. Non si crede più alle dichiarazioni che “gli interessi economici rispecchiano sempre ciò che è bene per la Svizzera”. Ovviamente questo genera non pochi grattacapi negli ambiti borghesi della politica.

Nella cooperazione internazionale, la Svizzera punta sempre più sui partenariati con il settore privato. Alliance Sud segnala costantemente i rischi associati, ma non si aprono anche delle opportunità?

Certo, ci sono delle opportunità, ad esempio la creazione di nuovi impieghi, gli investimenti e l’utilizzo di tecnologie rispettose dell’ambiente. Ma questo non ci deve portare a nasconderne i rischi. I gruppi industriali stranieri estromettono frequentemente le imprese locali dei Paesi in via di sviluppo dal mercato, e trasferiscono gli utili privi d’imposizione nei paradisi fiscali come la Svizzera. Per non parlare poi delle violazioni dei diritti umani e dei problemi ecologici. Per i partenariati con il settore privato nell’ambito della cooperazione internazionale, quindi, dovrebbero esserci dei criteri di selezione rigorosi almeno tanto quanto i criteri di partenariato con le ONG. La Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) e la Segreteria di Stato dell’economia (SECO), però, sono ancora lontane da questo obiettivo.

Con il movimento a favore del clima e la pandemia di COVID-19, gli scienziati fanno sempre più sentire la loro voce per influenzare la politica: si tratta di un’evoluzione positiva?

Sì, è un buon sviluppo. In una democrazia funzionante, la popolazione e i suoi rappresentanti politici devono poter prendere delle decisioni ben informate. Per fare ciò, vi è bisogno degli esperti, non solo degli scienziati, ma anche delle conoscenze pratiche delle ONG e della competenza etica delle Chiese. Quando il mio ambito d’azione principale era quello scientifico, le dichiarazioni sulle questioni politiche d’attualità erano ancora in gran parte malviste. Persino gli articoli d’opinione apparsi sui quotidiani NZZ o Le Temps provocavano un certo disappunto. Fortunatamente, la situazione è migliorata.

Quest’anno Alliance Sud festeggia il suo 50esimo anniversario: qual è la direzione intrapresa dalla politica di sviluppo? E ce ne sarà ancora bisogno tra 50 anni?

La politica di sviluppo esisterà sempre: si tratta di una politica interna mondiale. Come affermato dall’Agenda 2030, è necessario prendere in considerazione l’impatto di ogni decisione politica sulla popolazione globale e sul futuro del pianeta. Tuttavia, la strada da percorrere per attualizzare il principio dello sviluppo mondiale sostenibile è ancora lunga. Nei potenti Paesi del nord, si costata una rinnovata tendenza a considerare i propri interessi nazionali a breve termine al di sopra del benessere della natura e dell’umanità. La cooperazione internazionale è di nuovo, e sempre più, sottomessa agli interessi di politica economica e migratoria. Ora e in futuro, Alliance Sud sarà pertanto necessaria per promuovere una politica per un mondo giusto.

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La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

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La società civile: il nuovo soggetto storico

05.10.2021, Cooperazione internazionale

Jean Ziegler, autore di “Il capitalismo spiegato a mia nipote. Nella speranza che ne vedrà la fine”, invita ONG e movimenti sociali a sostenere un nuovo ordine sociale mondiale basato su diritti, solidarietà, reciprocità e sostegno con i più poveri.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

La società civile: il nuovo soggetto storico

Ribelle e visionaria: Jean Ziegler non rinuncia alla lotta per un mondo più giusto
© Sébastien Agnetti/13 Photo

In occasione dei cinquant’anni di Alliance Sud, abbiamo chiesto al celebre sociologo ginevrino, ex relatore speciale dell'ONU sul diritto all'alimentazione, cosa ne pensi del lavoro svolto dalle ONG nell'ultimo mezzo secolo e dove veda la necessità di agire in futuro. Secondo lui, ciò che la società civile ha raggiunto è immenso − l'Iniziativa per multinazionali responsabili sarebbe stata impensabile in Svizzera venti anni fa − ma è solo l'inizio.

Quest'anno Alliance Sud celebra i suoi cinquant’anni, come diverse altre ONG. Cos’è cambiato dagli anni '70?

La società civile è diventata il nuovo soggetto storico. Ora è in grado di mobilitare la coscienza collettiva e di combattere efficacemente le oligarchie finanziarie che dominano il pianeta. In occasione della conferenza ministeriale dell'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) a Seattle nel 1999, per la prima volta la gente, con una coscienza radicalmente alternativa, ha fatto fallire la riunione di un potere mondiale. Questo mondo alternativo, della giustizia, dei diritti umani, si è opposto a quello della massimizzazione del profitto ed è diventato visibile. È stato un momento storico e misterioso. A partire dal Forum sociale mondiale di Porto Alegre, nel 2001 − che all'inizio si svolgeva sempre nella stessa data del Forum di Davos - la società civile si è strutturata. Da Seattle in poi, non ha mai più taciuto, al punto che l’OMC non ha potuto riunirsi in città occidentali e nel 2001 è dovuta andare a Doha, capitale di un oscuro emirato. Seattle ha segnato la svolta e da allora la società civile ha guadagnato un enorme slancio. In Svizzera c'è stata l’Iniziativa per multinazionali responsabili, che sarebbe stata semplicemente impensabile venti anni fa. I movimenti sociali e le ONG, tra cui Alliance Sud, hanno giocato un ruolo decisivo nella lotta contro le oligarchie che dominano il Paese e hanno incarnato un'espressione di opposizione radicale che ha trovato l’adesione della maggioranza del popolo svizzero.

Ma ora la Svizzera vuole mettere la museruola alle ONG...

Sono l'oligarchia del capitale finanziario globalizzato e il suo lacchè Ignazio Cassis che vogliono far tacere le ONG! Eppure, è perfettamente logico che le ONG ricevano soldi dalla cooperazione allo sviluppo: se ci si impegna a combattere la disuguaglianza, la fame e l’assenza di diritti nel mondo, bisogna anche poter svolgere un'azione politica locale nel Paese d'origine. È compito delle ONG lottare contro il saccheggio delle tasse e l'impunità così come il fatto che la Svizzera accoglie dei mafiosi, dittatori ed élite corrotte dei Paesi in via di sviluppo.

Pensa che il nostro lavoro sia ancora necessario e, se sì, su quali temi dovremmo concentrarci?

Siamo solo all'inizio, la vostra lotta è più necessaria che mai! Il sistema capitalista e la sua visione dell'uomo, secondo la quale l'essere umano è efficiente solo in funzione del suo interesse privato, devono essere abbattuti. Per il neoliberalismo, l'egoismo è il motore della storia. Per gli anticapitalisti dei movimenti sociali, l'uomo è abitato dal desiderio di solidarietà, reciprocità e complementarità con i poveri. Sono due visioni dell'uomo completamente diverse, la prima delle quali porta alla massimizzazione del profitto e alla disuguaglianza − ogni cinque secondi un bambino sotto i 10 anni muore di fame. Il capitalista dice: “non possiamo fare nulla”. Noi, vogliamo un ordine mondiale che non sia più basato sul mercato, ma sui diritti: il diritto all’alimentazione, a un sistema normativo che il potere pubblico assicuri attraverso la società civile e che permetta una vita dignitosa, soddisfacente e libera dalla disperazione. Secondo il World Food Report della FAO, l'agricoltura mondiale potrebbe nutrire dodici miliardi di esseri umani senza problemi, cioè quasi il doppio dell'umanità. Non c'è quindi fatalità nel massacro della fame. Un bambino che muore di fame è assassinato.  

In uno dei suoi ultimi libri, “Il capitalismo spiegato a mia nipote” (Meltemi 2021), desidera che sua nipote ne veda la fine, ma non propone una vera alternativa. Non è un po' facile, visto che è l'unico sistema economico rimasto?

Questo non è corretto! Il mistero della libertà che si manifesta nell'uomo farà crollare il capitalismo. È la lotta degli uomini e delle donne portatori di questa nuova coscienza di reciprocità tra tutti i popoli, che romperà uno dopo l'altro i meccanismi di oppressione. Quando la coscienza sarà finalmente liberata dall'alienazione capitalista, da questa violenza strutturale, allora inizierà l'instaurazione, l'invenzione in libertà di istituzioni e di un nuovo ordine, che sarà basato sul rispetto di tutti i diritti economici, sociali e culturali. Due miliardi di esseri umani non hanno accesso all'acqua potabile, 62 Stati membri dell'ONU praticano la tortura, lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo devasta il pianeta. Sappiamo che non vogliamo questo ordine cannibale del mondo e lottiamo per distruggerlo. Cosa nascerà tra le rovine, non lo sappiamo. Le faccio un esempio: il 14 luglio 1789, gli operai e gli artigiani del sobborgo industriale di Parigi marciarono sulla Bastiglia per liberare i loro compagni. La Bastiglia cadde. Se la sera del 14 luglio un giornalista avesse chiesto a uno degli insorti quale sarebbe stata la Costituzione della prima repubblica francese (che fu adottata quattro anni dopo, instaurò la sovranità popolare, i diritti umani e liquidò la monarchia assoluta), sarebbe stata una domanda assurda. Il cittadino che prese la Bastiglia non aveva idea di quello che il movimento sociale avrebbe prodotto. Eppure oggi, 250 anni dopo, i tre-quarti degli Stati vivono sotto una costituzione repubblicana che afferma il rispetto dei diritti umani. Nessuno può anticipare il nuovo mondo che nascerà dalle speranze che portiamo dentro di noi.

Lei è un grande amico di Cuba, uno degli ultimi Stati socialisti al mondo. Come giudica la situazione sull’isola e la repressione del regime nei confronti dei manifestanti?

A differenza della Birmania, dove c'è la repressione, a Cuba ci sono stati degli arresti temporanei, il ristabilimento dell'ordine sociale nelle strade, ma nessuna repressione assassina come nei Paesi satelliti dell'oligarchia capitalista. Il flagello di Cuba è il blocco statunitense. Nemmeno un Paese come la Svizzera sarebbe sopravvissuto a 62 anni di blocco economico totale. Ma grazie alla volontà di sacrificio dei cubani, hanno creato un sistema sanitario di cui io stesso ho beneficiato perché mi hanno fatto due trasfusioni di sangue, mi hanno salvato. Da allora ho del sangue cubano! E i cubani hanno sconfitto la fame.

Davvero? I negozi sono vuoti e le code per le provviste sono infinite...

C'è la livreta [buoni pasto]. In Brasile e in Congo la gente muore di fame, non a Cuba.

Secondo lei l'unico problema di Cuba è dunque il blocco degli americani, il sistema economico e politico non c'entra niente?

Ci sono sempre problemi, uno dei principali è quello di evitare la disuguaglianza, la rinascita di una società di classe, pur permettendo all'iniziativa individuale di fiorire. I cubani cercano costantemente questo equilibrio, limitando la proprietà privata di terreni o di immobili. Questo è un compito essenziale della rivoluzione e, permettendo lo sviluppo del settore privato, diventa molto difficile; quindi, è certamente possibile che vi siano errori nell'allocazione delle risorse. Ma Cuba è un esempio luminoso per tutto il mondo, a cominciare dai Paesi in via di sviluppo. Ricordi cosa diceva Marx: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Il comunismo è l'orizzonte della nostra storia. Cuba è sulla buona strada. Cuba merita tutta la nostra solidarietà.

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Uscire dal caos per rimanere nel Caucaso

06.12.2021, Cooperazione internazionale

La nuova strategia della Cooperazione svizzera per il Caucaso meridionale - Georgia, Armenia e Azerbaigian - punta sullo sviluppo delle regioni spopolate e sull’integrazione delle minoranze etniche e dei migranti.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

Uscire dal caos per rimanere nel Caucaso

© Isolda Agazzi

Sono le 6 del mattino, nella notte ancora buia Aleksander esce in fretta, sigaretta in bocca, per andare a mungere le mucche. "Di solito è un lavoro da donne, ma oggi lo faccio io", dichiara questo laureato in matematica dell'Università di Tbilisi, tornato nel suo villaggio natale del sud della Georgia per prendersi cura della madre anziana. Con sua moglie, indaffarata a preparare la colazione, ha adibito alcune camere della casa agli ospiti al fine di integrare il suo modesto reddito di agricoltore. La mungitura viene fatta a macchina? "No, a mano", risponde in un inglese elementare che impara dalla figlia la quale frequenta la scuola elementare del villaggio. Nell’orto coltiva una profusione di frutta e verdura e fiori, onnipresenti in Georgia, e questo dà al villaggio, situato a 1.300 metri di altitudine, un aspetto allegro e ridente d’estate. Ma l'inverno è duro: la casa è riscaldata solo da una stufa a legna perché il gas, riconoscibile in tutto il Paese dai tipici tubi di adduzione, non è giunto in questo angolo remoto, al confine con la Turchia e l'Armenia.                                                                   

Agricoltura poco produttiva

“La Svizzera ha una presenza importante in Georgia, dove sostiene l'agricoltura e l'allevamento", ci spiega Danielle Meuwly, responsabile della cooperazione svizzera per il Caucaso meridionale, accogliendoci nel suo ufficio di Tbilisi. “Il contrasto tra le città e le campagne è enorme: il 40% della popolazione lavora nell'agricoltura, ma essa è poco produttiva e contribuisce solo all'8% del PIL”.

Il Paese è piuttosto disuguale: nel 2021, il coefficiente di Gini (ovvero la misura globale della disuguaglianza nella distribuzione) è del 36,4, il che fa della Georgia l'89° Paese più disuguale al mondo secondo la World Population Review, una classifica americana.

Per migliorare le conoscenze degli agricoltori, la Svizzera ha lanciato un progetto di formazione professionale in agricoltura, in collaborazione con l'Istituto Plantahof. Per aumentare il reddito di chi coltiva le terre è stato avviato un programma di sostegno alle PMI nelle zone rurali, in collaborazione con l'ONG Swisscontact. La Svizzera promuove anche la conservazione delle foreste, nello spirito del nuovo codice forestale che regola rigorosamente la deforestazione. Ma quest’ultimo deve essere ancora accettato dalla popolazione e, soprattutto, riuscire a offrire agli abitanti come Aleksander un'alternativa alla legna per riscaldarsi e cucinare. 

La Svizzera rappresenta gli interessi della Russia in Georgia e vice versa

Queste attività fanno parte della nuova strategia 2022 - 2025 della Cooperazione svizzera per il Caucaso meridionale, che sarà pubblicata all'inizio di dicembre. “Si tratta di una strategia regionale che copre anche l'Armenia e l'Azerbaigian e riunisce la DSC, la Seco e la Divisione Sicurezza umana del DFAE” – continua Danielle Meuwly – “Il nostro ufficio è in Georgia per ragioni pratiche e perché è il paese con il bilancio più ingente. L'impegno della Confederazione in questa regione è importante e svolge in particolare un mandato di protezione.”

Dopo la guerra dell'agosto 2008 e il riconoscimento da parte della Russia dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, la Georgia ha rotto le relazioni diplomatiche con Mosca. Dal 2009, la Svizzera rappresenta gli interessi della Russia in Georgia e quelli della Georgia in Russia.

In Abkhazia, una regione estremamente povera che sopravvive grazie all'aiuto umanitario internazionale, la cooperazione svizzera attua progetti per rinnovare i blocchi sanitari nelle scuole e migliorare la capacità delle donne a produrre formaggio nel rispetto delle regole igieniche.

Integrare le minoranze

“Al di là dell'aspetto diplomatico, cerchiamo di costruire un ponte e una cooperazione tra le persone e la società civile di entrambe le parti”, ci spiega Medea Turashvili, responsabile delle questioni di sicurezza umana, che continua: “Ci assicuriamo che i diritti delle minoranze religiose e dei gruppi etnici siano protetti.” In un Paese che ha subito invasioni incessanti da parte di mongoli, turchi, arabi, persiani e russi, non è affatto evidente. La religione, rappresentata dalla potente Chiesa ortodossa georgiana, è sempre stata un rifugio per la popolazione e ancora oggi fa parte integrante dell'identità nazionale.”

Anche se i cristiani ortodossi sono in larga maggioranza, ci sono anche musulmani georgiani, azeri, ceceni, armeni e altre minoranze poco integrate. Come sottolinea Danielle Meuwly “spesso le persone delle minoranze etniche e religiose non parlano nemmeno la lingua georgiana, perché il sistema educativo non permette loro di impararla correttamente. Hanno quindi legami molto più forti con la loro comunità d'origine che con il loro ambiente diretto. Il nostro obiettivo è di ridurre questo grado di alienazione di modo che le varie comunità possano vivere in pace. Nella regione meridionale, dove vive una grande comunità azera, abbiamo aperto centri di servizio per fornire informazioni in azero. Prima delle elezioni del 2018 e del 2020, abbiamo lavorato con i partiti politici per facilitare la preparazione di un codice di condotta". 

Assistenza alla reintegrazione dei migranti

Nella pianura di Kakhetia, nell'est del Paese, abbondano frutteti e vigneti. La regione è famosa per il vino, del quale la Georgia fu il primo paese produttore al mondo e che ogni famiglia produce ancora nelle proprie cantine. Ma nei villaggi si susseguono le case abbandonate e i balconi di legno finemente cesellati cadono a pezzi. La maggior parte degli abitanti, soprattutto i giovani, sono andati all'estero. In un Paese dove lo stipendio medio è di 300-400 euro al mese, le nuove generazioni vanno a cercare fortuna in Europa occidentale, trovando occupazione spesso nell'edilizia, nel caso degli uomini, e nell'aiuto domestico, nel caso delle donne. La Georgia conta 1,7 milioni di lavoratori migranti su una popolazione di quasi quattro milioni.

Le rimesse dei migranti sono una preziosa fonte di reddito per le famiglie. La Georgia è il quinto Paese d'origine dei richiedenti asilo in Svizzera, da quando nel 2018 i suoi cittadini sono stati esentati dall'obbligo di visto per i Paesi Schengen. Ma queste persone non hanno alcuna possibilità di ottenere lo statuto di rifugiati e vengono sistematicamente respinti. In Kakhetia e in altre province, la Cooperazione svizzera porta avanti progetti per reintegrare gli ex migranti e rivitalizzare le comunità.

Alliance Sud accoglie favorevolmente il fatto che la Svizzera aiuti la reintegrazione socio-economica dei rimpatriati, ma chiede alla Confederazione di non subordinare la sua politica di assistenza all'accettazione dei richiedenti asilo respinti, come si è, per altro, impegnata a fare. Vista la carenza di manodopera in molti settori in Svizzera, Alliance Sud chiede al Consiglio federale di mettere in atto una politica di migrazione regolare per permettere ai migranti di trovare lavoro in Svizzera senza cadere nel lavoro in nero. 

Isolda Agazzi, di ritorno dalla Georgia

 

BOX: Società civile indipendente ma strettamente sorvegliata

La società civile è un attore importante in Georgia. Principalmente finanziata da donatori occidentali, tra cui la Svizzera, il suo rapporto con il governo è fatto di alti e bassi.

"Nel complesso, possiamo svolgere le nostre attività senza ostacoli, ma negli ultimi anni il partito al potere ha avuto la tendenza a screditare le organizzazioni della società civile con posizioni critiche, accusandole infondatamente di mancanza di competenza o di lavorare di concerto con i partiti di opposizione. Questo atteggiamento ostile rende difficile difendere le nostre raccomandazioni presso i diversi rami del governo", ci dichiara Vakhtang Menabde, direttore del programma di sostegno alle istituzioni democratiche presso l'Associazione georgiana dei giovani avvocati (Gyla).

Dal 2012, la Georgia è governata dal partito Sogno georgiano, che è succeduto al governo del Movimento Nazionale Unito. Secondo l'attivista, quest'ultimo aveva fortemente limitato l'indipendenza del sistema giudiziario e la libertà della società civile. Dopo le elezioni del 2012, sono stati avviati alcuni processi di liberalizzazione. "Anche se sono state lanciate diverse ondate di riforme, la maggior parte di esse hanno solo migliorato alcuni difetti del sistema, ma non hanno cambiato le reali caratteristiche istituzionali. Ecco perché, purtroppo, l'indipendenza del potere giudiziario in Georgia è fortemente limitata a tutt’oggi", continua Vakhtang Menabde. 

Per quanto riguarda il ruolo della società civile, l'ONG Gyla sostiene da anni le riforme del sistema giudiziario, del governo locale e della legge elettorale. Vakhtang Menabde ritiene che molte delle sue raccomandazioni siano state effettivamente incluse nella legge, ma le proposte più cruciali, che porterebbero a reali cambiamenti di potere, sono state trascurate: "per riassumere, le società civili in Georgia operano essenzialmente in un ambiente libero, ma molto polarizzato e teso".

Inoltre, diversi scandali recenti hanno dimostrato che gli attivisti della società civile, i giornalisti e le associazioni politiche sono strettamente controllati dai servizi di sicurezza dello Stato. In una lettera aperta pubblicata ad agosto, una dozzina di ONG ha denunciato gli eccessivi poteri dei servizi segreti e la loro violazione della privacy.

Société civile indépendante, mais surveillée de près

La société civile est un acteur important en Géorgie. Principalement financée par les bailleurs occidentaux, dont la Suisse, ses relations avec le gouvernement connaissent des hauts et des bas. « Dans l'ensemble, nous pouvons mener nos activités sans entraves, mais depuis quelques années le parti au pouvoir a tendance à discréditer les organisations de la société civile critiques, en les accusant sans fondement de manquer de compétences ou de travailler en accord avec les partis d'opposition. Cette attitude hostile complique la défense de nos recommandations auprès des différentes branches du gouvernement », nous confie Vakhtang Menabde, directeur du Programme de soutien aux institutions démocratiques auprès de l'Association géorgienne des jeunes avocats (Gyla).

Depuis 2012, la Géorgie est gouvernée par le parti Rêve géorgien, qui a succédé au gouvernement du Mouvement national uni. Selon le militant, celui-ci avait limité fortement l'indépendance du système judiciaire et la liberté de la société civile. Après les élections de 2012, certains processus de libéralisation ont commencé. « Même si plusieurs vagues de réformes ont été lancées, la plupart d'entre elles n'ont amélioré que certaines failles du système, mais elles n'ont pas modifié les véritables caractéristiques institutionnelles. C'est pourquoi, malheureusement, l'indépendance du pouvoir judiciaire en Géorgie est aujourd'hui sévèrement limitée », continue-t-il.  

En ce qui concerne le rôle de la société civile, l’ONG Gyla préconise depuis des années des réformes concernant les organes judiciaires, le gouvernement local et la loi électorale. Vakhtang Menabde estime que nombre de ses recommandations ont été réellement reflétées dans la loi, mais les propositions les plus cruciales, qui entraîneraient de réels changements de pouvoir, ont été négligées. « Pour résumer, les sociétés civiles en Géorgie opèrent essentiellement dans un environnement libre, mais très polarisé et tendu », conclut-il.

Par ailleurs, plusieurs scandales récents ont montré que les militants de la société civile, les journalistes et les associations politiques sont surveillés de près par les Services de sécurité de l’Etat. Dans une lettre ouverte publiée en août, une dizaine d’ONG a dénoncé les pouvoirs excessifs des services de renseignement et leur atteinte à la vie privée.

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Articolo, Global

« La povertà è una scelta politica »

05.10.2020, Cooperazione internazionale

Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema si congeda pubblicando un rapporto allarmante. Le cifre sulla diminuzione della miseria nel mondo sono contestabili e sopravvalutano il ruolo della cooperazione allo sviluppo.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

« La povertà è una scelta politica »

Philip Alston, già relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani, durante una visita al villaggio di Kampung Numbak nella provincia di Sabah, in Malesia.
© Bassam Khawaja

L'australiano Philip Alston (70 anni), professore di diritto internazionale e diritti umani all’Università di New York, apre uno dei dibattiti più urgenti con il suo ultimo rapporto in veste di relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema. I governi, i media e pure le organizzazioni per lo sviluppo continuano a ripetere che durante gli ultimi decenni la povertà nel mondo si è considerevolmente ridotta, in particolare grazie al generoso aiuto dei Paesi ricchi.

La narrazione secondo la quale la povertà sia nettamente diminuita si basa generalmente sui calcoli della Banca Mondiale, che fissa il limite di povertà estrema a 1,9 dollari americani al giorno. Questa cifra arbitraria è ricavata dalla media delle soglie di povertà, definite a livello nazionale, di 15 tra i Paesi più poveri del pianeta. Secondo questi calcoli il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema sarebbe passato da 1,895 miliardi nel 1990 a 736 milioni nel 2015, calando così dal 36% al 10% della popolazione mondiale. Viene spesso ignorato il fatto che non si tratta in nessun caso di una tendenza planetaria: nell’Africa subsahariana e in Medio Oriente, ad esempio, il numero di persone che vive in situazioni di forte deprivazione è addirittura aumentato di 140 milioni nel corso di questo periodo. È inoltre risaputo che la riduzione della povertà ha principalmente interessato la Cina, dove il numero di persone estremamente povere è passato da 750 milioni a 10 milioni nel corso del periodo in questione, sempre secondo i calcoli della Banca Mondiale.

È interessante analizzare più da vicino le statistiche alla base di queste stime. La soglia di povertà di cui sopra non è adattata ai diversi bisogni vitali nei vari Paesi o regioni, ma è considerata come un valore assoluto e costante, adeguato unicamente alla parità di potere di acquisto[1]. In Portogallo, ad esempio, la soglia della povertà espressa in termini di parità di potere di acquisto è di 1,41 euro, una somma a malapena sufficiente per sopravvivere. Tuttavia nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo la soglia di povertà nazionale è ancora più alta rispetto all’indice di 1,90 dollari stabilito dalla Banca Mondiale. Le statistiche nazionali mostrano di conseguenza dei tassi di povertà molto più elevati rispetto a quelli che si basano sui calcoli della Banca Mondiale. Due esempi: secondo quest’ultima la Tailandia non si troverebbe in condizioni di povertà estrema nonostante le statistiche nazionali registrino invece un tasso del 9%; in Sudafrica, invece, si passa dal 18,9% al 55%.

Prendendo in considerazione una soglia di povertà più realistica (ma pur sempre arbitraria) di 5,5 dollari al giorno, le statistiche mondiali apparirebbero meno rosee: tra il 1990 e il 2015 il numero di persone povere nel mondo passerebbe da 3,5 a 3,4 miliardi, ovvero dal 67% al 46% della popolazione mondiale (che durante questo periodo ha registrato un forte incremento). Questo calcolo non tiene però conto del fatto che numerose persone toccate dalla povertà, come i senzatetto, i migranti economici, i rifugiati o i collaboratori domestici, non sono incluse nelle statistiche in quanto le indagini su cui queste si basano vengono condotte nelle economie domestiche. Inoltre le statistiche non riflettono le differenze di povertà dovute al genere.

In numerosi Paesi il cambiamento climatico, la crisi del coronavirus e l’importante recessione economica che ne consegue aggravano ulteriormente la situazione in termini di povertà. La Banca Mondiale prevede che il cambiamento climatico farà cadere in condizioni di estrema povertà 100 milioni di persone in più (secondo l’1,90 dollari al giorno) e che la crisi del coronavirus farà ricadere fino a 60 milioni di persone supplementari in condizioni di estrema povertà. Con dei calcoli più realistici queste cifre diventerebbero ancora più critiche.

La cooperazione allo sviluppo ha fallito?

Una povertà estrema di tale livello potrebbe portarci a concludere che la cooperazione allo sviluppo abbia fallito, ma questa deduzione le attribuirebbe un potere e un’influenza che molto semplicemente la cooperazione allo sviluppo non ha. Nel suo rapporto, Philip Alston sottolinea che nel 2019 i Paesi membri dell’OCSE hanno stanziato 152,8 miliardi di dollari sotto forma di sovvenzioni o di prestiti a tasso ridotto per aiutare i Paesi in via di sviluppo. Da parte loro i Paesi più poveri e a reddito medio hanno rimborsato 969 miliardi all’anno, di cui il 22% (ovvero 213 miliardi) composto unicamente da interessi, quindi somme che non hanno avuto alcuna utilità in termini di sviluppo. I miliardi di dollari che sfuggono ogni anno ai Paesi in via di sviluppo a causa dei trasferimenti degli utili delle multinazionali[2] e dei flussi finanziari illeciti o le perdite che questi Paesi subiscono a causa della disparità delle relazioni commerciali sono forse dei dati ancora più drammatici.

La cooperazione allo sviluppo ha chiaramente aiutato tantissime persone a uscire dalla povertà più grave e a migliorare considerevolmente le condizioni di vita dei più poveri. Negli ultimi decenni sono stati fatti numerosi progressi, soprattutto negli ambiti dell’educazione e dell’assistenza sanitaria e nella riduzione della mortalità materna. Ma tutti questi passi avanti non servono a molto se nel frattempo un numero sempre maggiore di persone perde i propri mezzi di sostentamento per lasciare campo libero all’agricoltura industriale, all’estrazione di materie prime o alla costruzione di giganteschi progetti, di cui la maggior parte all’esclusivo scopo di promuovere le esportazioni. Alcuni Paesi rimangono vincolati ai prestiti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e alle condizionalità ivi incluse di ridurre le loro spese sociali, deregolamentare il loro commercio e accordare privilegi fiscali agli investitori esteri. Anche oggi, nell’era postcoloniale, la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo è fornitrice di materie prime per il resto del pianeta, intrappolata in una rete di debiti, di relazioni commerciali inique, di evasioni fiscali e di corruzione. In queste condizioni la cooperazione allo sviluppo, con le sue risorse comparativamente modeste, rappresenta solo una goccia d’acqua nell’oceano.

Il relatore speciale delle Nazioni Unite, Philip Alston, scrive in modo lapidario che la povertà è una scelta politica («poverty is a political choice»): le persone rimangono invischiate nella povertà fintanto che altre ne possono approfittare. Le imprese con sede nei Paesi ricchi sono autorizzate a realizzare degli enormi profitti sulle spalle dei più poveri e noi, consumatori, dobbiamo acquistare dei beni a basso prezzo realizzati altrove (prodotti alimentari, vestiti, apparecchi elettronici, ecc.)

Focalizzare l’attenzione sulle disuguaglianze

Philip Alston sostiene quindi logicamente che il dibattito non dovrebbe concentrarsi soltanto sulla povertà ma anche sulla disuguaglianza, e non è il solo. In un recente documento, Jürgen Zlatter, direttore esecutivo tedesco della Banca Mondiale, chiede che quest’ultima si concentri maggiormente sulle disuguaglianze all’interno dei Paesi e tra questi. Citando l'economista Thomas Piketty mostra che, nel periodo in cui secondo la Banca Mondiale la povertà è considerevolmente diminuita, le disuguaglianze sono aumentate in modo sostanziale. Ad esempio, tra il 1980 e il 2014 il reddito netto della metà inferiore della popolazione mondiale è aumentato del 21%, mentre quello del 10% superiore è aumentato del 113%. I redditi dello 0,1% della popolazione mondiale più ricca sono addirittura aumentati del 617% nel corso di questo stesso periodo! Oggi l’1% delle persone più ricche del pianeta possiede il doppio di quello che possiedono i 6,9 miliardi di persone più povere.

Jürgen Zlatter mostra come, in numerosi Paesi, le politiche degli anni ‘80 e ‘90 abbiano indebolito i sindacati, ridotto i contributi sociali e diminuito la progressività delle imposte sul reddito. La crescente liberalizzazione del commercio e l’emergere delle catene globali del valore hanno incredibilmente rafforzato il potere di mercato delle singole imprese e dato il via a una corsa planetaria verso l’abbassamento dei salari. Allo stesso tempo, secondo Jürgen Zlatter, la liberalizzazione del settore finanziario ha contribuito enormemente all’aumento delle disuguaglianze. Anche se l’autore si astiene dal criticare direttamente la Banca Mondiale, sono proprio queste misure di liberalizzazione e di deregolamentazione della Banca Mondiale e del FMI che continuano a essere imposte ai Paesi in via di sviluppo.

L'economista della Banca Mondiale Jürgen Zlatter e il relatore speciale delle Nazioni Unite Philip Alston sono d’accordo nel dire che la disuguaglianza e la ridistribuzione sociale devono essere al centro del dibattito, e non soltanto di quello interno alla Banca Mondiale, ma anche del dibattito più ampio sulla povertà. Come fattore chiave citano l’importanza di mettere l’accento sulla giustizia fiscale. L’alternativa non è delle più rosee: non solo l’avanzamento del cambiamento climatico e il disordine economico sulla scia della crisi sanitaria faranno cadere in condizioni di povertà un numero sempre più grande di persone, ma possiamo anche aspettarci una recrudescenza dei disordini sociali, dei conflitti e dei movimenti di protesta.

[1] La parità di potere di acquisto viene calcolata partendo da quello che si può acquistare con 1,90 dollari negli Stati Uniti e determinando quanti soldi sono necessari negli altri Paesi per procurarsi gli stessi beni.

[2] Secondo un progetto di ricerca condotto sotto la guida dell’economista Gabriel Zucmann, nel 2017 le multinazionali hanno trasferito 741 miliardi di dollari in paradisi fiscali, tra cui 98 miliardi in Svizzera. Benché i dati riguardo alla maggior parte dei trasferimenti di utili provenienti dai Paesi in via di sviluppo non siano purtroppo sufficienti, i dati disponibili sono preoccupanti. Ogni anno la Nigeria perde circa il 18% delle entrate provenienti dalle imposte sugli utili delle società, il Sudafrica l’8% e il Brasile il 12%.

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Articolo

Una crisi mondiale necessita solidarietà globale

14.04.2020, Cooperazione internazionale

La crisi del coronavirus ci ha reso consapevoli della vulnerabilità del nostro mondo globalizzato. Siamo tutti letteralmente sulla stessa barca. Ma se la crisi non risparmia nessuno, essa non tocca tutti nella stessa maniera.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Una crisi mondiale necessita solidarietà globale

Un ragazzo della cittadina ruandese Sholi si è costruito una maschera per proteggersi dal Coronavirus.
© Wikimedia Commons / study in Rwanda

La crisi come opportunità?

Quest’epidemia mostra i limiti del sistema creato dalla nostra generazione. Un sistema che ha pensato solo all’economico e alla corsa a un rapido profitto, a scapito dell’aspetto sociale e dell’attenzione verso gli altri. Un sistema che ha completamente perso di vista certi valori, come la solidarietà, e che non ha smesso di pensare «globale» per cercare, in capo al mondo, la manodopera più conveniente disdegnando l’investimento sociale. (Denis Mukwege, medico e premio Nobel per la Pace nel 2018[1])

La crisi del coronavirus ha cambiato completamente la vita di tutti noi, in un lasso di tempo molto breve. Essa ha mostrato che il nostro stile di vita non è immutabile. Le decisioni politiche urgenti, inconcepibili in tempi normali, sono state prese rapidamente e senza burocrazia. Ora si tratta di sapere se, una volta passata la crisi, possiamo e vogliamo ricostruire lo stesso mondo che avevamo prima, rendendoci così vulnerabili ad altre crisi; o se invece consideriamo questa crisi come un’opportunità. Come un’occasione per rafforzare la solidarietà mondiale e prepararci quindi alle future crisi – inclusa la crisi climatica mondiale, molto più grave, che è già in corso.

Possiamo e dobbiamo decidere adesso se utilizzeremo il denaro assegnato a livello nazionale e internazionale per preservare le catene d’approvvigionamento non sociali o rinforzare l’industria fossile in difficoltà, o se lo vincoleremo a dei criteri di sostenibilità sociale ed ecologica nell’ottica di una migliore ricostruzione (building back better). Spetta pure a noi, in Svizzera, decidere se continuare a scavare l’enorme fossato della disuguaglianza mondiale – attualmente, i 2’253 miliardari del mondo possiedono più averi che il 60% della popolazione mondiale totale[2] – o se cogliere l’occasione per colmarlo lentamente. Una compatibilità climatica coerente nell’impiego dei fondi, ma anche una tassa sulle transazioni finanziarie, una tassa sull’economia digitale, delle tasse di gestione socialmente accettabili o addirittura una tassa unica sul coronavirus da pagare dai ricchi, sono solo alcune delle possibilità attualmente in discussione per generare fondi a favore dei più poveri e dei più vulnerabili, senza appesantire ulteriormente il fardello della classe media. Sta a noi decidere se la nostra solidarietà si ferma alla frontiera nazionale o se invece ci rendiamo conto del fatto che a lungo termine siamo tutti sulla stessa barca e che, come comunità mondiale, saremo forti solo nella misura in cui lo saranno anche i più deboli tra di noi.

Le rivendicazioni di Alliance Sud

  1. I fondi promessi dalla Banca mondiale e dall’FMI, per far fronte alla crisi del coronavirus nei Paesi più poveri, non sono assolutamente sufficienti per attenuare a lungo termine le conseguenze economiche e sociali di questa crisi. Tutte le nazioni sono invitate ad aumentare le loro spese di sviluppo (aiuto pubblico allo sviluppo, APS) per raggiungere l’obiettivo concordato a livello internazionale, ossia lo 0,7 % del reddito nazionale lordo (RNL)[3]. La Svizzera dovrebbe finalmente adeguarsi a quest’esigenza e aumentare i crediti quadro per la cooperazione internazionale, in modo da raggiungere la parte d’APS dello 0,7%, o perlomeno di nuovo una parte d'APS pari allo 0,5%, come richiesto dal Parlamento già da tempo. Conformemente all'Agenda 2030, la cooperazione internazionale della Confederazione (CI) dev’essere fortemente incentrata sui ceti più poveri della popolazione («Leave no one behind») e investire in sistemi educativi e sanitari accessibili al pubblico, nel rafforzamento della società civile e in particolare delle donne, nel rafforzamento della piccola agricoltura, nonché in possibilità di lavoro decenti e nella sicurezza sociale.
  2. Secondo il principio «ricostruire meglio» (build back better), la Svizzera deve adoperarsi affinché tutti i fondi d’aiuto nazionali e internazionali forniti per superare la crisi dovuta al coronavirus siano utilizzati in maniera ecologicamente e socialmente responsabile, contribuendo così a ridurre le disuguaglianze sociali e a contrastare la progressione del cambiamento climatico.
  3. I Paesi in via di sviluppo hanno un urgente bisogno d’entrate fiscali supplementari proprie, per poter lottare contro le conseguenze sociali ed economiche, probabilmente molto gravi, della crisi generata dal coronavirus. La Svizzera deve quindi adottare immediatamente delle misure di politica fiscale per accrescere la trasparenza dei centri finanziari e delle imprese elvetiche. Uno scambio accelerato e completo di dati fiscali provenienti dalle multinazionali aventi sede in Svizzera e degli attivi offshore gestiti nel nostro Paese deve permettere alle autorità fiscali dei Paesi in via di sviluppo d’identificare e impedire la frode fiscale verso la Svizzera. In questo contesto esistono tre misure immediate: anzitutto, la pubblicazione di rapporti specifici nazione per nazione da parte delle multinazionali (il cosiddetto public country by country reporting); secondariamente, delle esperienze pilota di scambio automatico d’informazioni sui dati dei clienti delle banche (progetti pilota SAI) con i Paesi in via di sviluppo; e in terzo luogo, l’introduzione di registri pubblici sui beneficiari effettivi delle società.
  4. Con più di 200 altre organizzazioni della società civile del mondo intero, Alliance Sud esige l’annullamento di tutti i pagamenti del debito estero dovuti nel 2020 dai Paesi in via di sviluppo ed emergenti a dei creditori bilaterali (Stati), multilaterali (FMI/Banca mondiale) e privati. La Svizzera dovrebbe fare pressione sull’FMI, sulla Banca mondiale e sul Club di Parigi per raggiungere questi obiettivi. Dovrebbe pure agire in seno all’FMI e alla Banca mondiale per favorire la messa a disposizione di risorse finanziarie supplementari nell’ambito degli strumenti d’emergenza delle istituzioni di Bretton Woods, grazie alle quali i Paesi in via di sviluppo e quelli emergenti potranno lottare a breve termine contro le conseguenze sociali ed economiche della crisi legata al coronavirus, senza dover contrarre nuovi debiti. A più lungo termine, la Svizzera deve impegnarsi negli organi di decisione della Banca mondiale e dell’FMI, per un allontanamento dalle condizioni di prestito politiche che portano a un indebolimento dei sistemi sanitari pubblici e di quelli educativi, come ad esempio la politica d’austerità prescritta dall’FMI o la privatizzazione dei sistemi educativi e sanitari promossi dalla Banca mondiale.

Il documento completo si può leggere in francese e/o in tedesco Kristina Lanz, Alliance Sud

[1] En Afrique „agir au plus vite pour éviter l’hécatombe“, colloquio con Denis Mukwege, Le Monde, 1° aprile 2020.

[2] World’s Billionaires have more wealth than 4.6 billion people, comunicato stampa dell’Oxfam, 20 gennaio 2020.

[3] The Covid-19 Shock to Developing Countries, UNCTAD (2020).

Articolo, Global

La solidarietà mondiale in crisi

07.12.2021, Cooperazione internazionale

La situazione in Svizzera sta gradualmente tornando alla normalità. Tuttavia, a livello globale la crisi del coronavirus è tutt’altro che finita. Bilancio intermedio e appello per una maggiore responsabilità globale.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

La solidarietà mondiale in crisi

Un prete cattolico con personale militare durante una disinfezione della statua del Cristo Redentore a Rio de Janeiro, Brasile.
© Ricardo Moraes / REUTERS

Nel dicembre 2019, i media cinesi segnalavano la diffusione di un virus sconosciuto a Wuhan, e alla fine di gennaio 2020, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dichiarava l’emergenza sanitaria internazionale. Da allora, il virus si è diffuso rapidamente in tutto il mondo, paralizzando l’economia internazionale e la vita sociale di molte persone quasi da un giorno all’altro. Da quel momento, molte cose non sono più le stesse. Più di cinque milioni di persone nel mondo sono morte a causa del virus (la cifra reale è molto più elevata), e innumerevoli altre stanno ancora soffrendo delle conseguenze sanitarie, sociali ed economiche della pandemia. Nonostante la speranza suscitata dallo sviluppo e dall’approvazione di numerosi vaccini contro il Covid, in molti luoghi la pandemia è lungi dall’essere finita, e molte delle conseguenze economiche e sociali diventano solo ora veramente visibili.

Nell’aprile 2020, Alliance Sud pubblicava un articolo intitolato “Una crisi mondiale necessita solidarietà globale”. Vi scriveva che la crisi toccava tutti, ma non allo stesso modo, e chiedeva un maggiore sostegno ai Paesi più poveri per superare la crisi, ridurre il debito mondiale e ricostruire meglio (“build back better”). Ma cosa è successo da allora e a che punto siamo dopo quasi due anni di crisi del coronavirus?

Una pandemia veramente sotto controllo?

Anche i sistemi sanitari occidentali sono stati regolarmente sotto attacco negli ultimi due anni. Operatori sanitari in crisi, unità di terapia intensiva sovraffollate e molti tragici destini individuali hanno occupato le prime pagine dei giornali. Ma le catastrofi con le conseguenze più gravi si sono verificate altrove - in India, Brasile o Perù, dove, nella primavera del 2021, molte famiglie hanno vagato per ore nelle città in cerca di ossigeno, mentre i loro cari soffocavano lentamente negli ospedali o sulla strada per raggiungerli; o nei campi profughi di Bangladesh, Colombia o Turchia, dove non solo il virus si è diffuso rapidamente, ma la scarsità di cibo e la fame hanno raggiunto proporzioni allarmanti.

Milioni di persone hanno perso il lavoro durante la pandemia. L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) stima che 205 milioni di persone saranno disoccupate nel 2022, rispetto ai 187 milioni del 2019. La disoccupazione è aumentata drammaticamente l’anno scorso, in particolare quella dei giovani e delle donne. Il numero di lavoratori poveri (“working poor”) – che vivono con meno di 3,20 dollari al giorno – è anche aumentato di 108 milioni dal 2019. Ma la situazione è più catastrofica per gli oltre due miliardi di lavoratori attivi del settore informale che non beneficiano di alcuna protezione sociale. Per loro, i confinamenti e altre restrizioni hanno spesso significato la perdita dei loro mezzi di sussistenza.

La Banca mondiale nota anche che a causa della crisi del coronavirus, la povertà estrema è aumentata per la prima volta in 22 anni. Stima che circa 121 milioni di persone sono venute a trovarsi in situazione di povertà estrema fino ad oggi. Ma come Alliance Sud ha notato in un articolo di fondo, la soglia di povertà di 1 dollaro al giorno della Banca mondiale è fissata ad un livello estremamente basso ed è esposta a vari problemi metodologici. Una definizione più realistica di questa povertà dipingerebbe probabilmente un quadro ancora peggiore.

La crisi del coronavirus ha anche aumentato notevolmente l’insicurezza alimentare e la fame. Per esempio, una persona su tre non ha avuto accesso a un’alimentazione adeguata nel 2020. La prevalenza della malnutrizione è aumentata dall’8,4% a circa il 9,9% in un solo anno, dopo essere rimasta praticamente stabile per cinque anni. Rispetto al 2019, nel 2020 la fame ha colpito 46 milioni di persone supplementari in Africa, 57 milioni in Asia e circa 14 milioni in America Latina e nei Caraibi.

Una vasta inchiesta condotta da Helvetas e da altre sette ONG europee presso 16’000 persone in 25 Paesi rivela il massiccio declino dei redditi, della sicurezza alimentare e dell'accesso all’istruzione al quale sono confrontate numerose persone. Mostra che le persone già più vulnerabili – anziani e disabili, madri single, donne e bambini – sono le più colpite dalla pandemia.

Distorsioni dell’economia mondiale

Mentre le economie di numerosi Paesi occidentali, compresa la Svizzera, sembrano essersi riprese con sorprendente rapidità, la ripresa nel Sud è stata molto più lenta. Il Fondo monetario internazionale (FMI) prevede una crescita del 6% dell’economia mondiale nel 2021, ma solo del 3,2% per l’economia africana. Rispetto all’impatto economico della crisi finanziaria globale del 2008, le conseguenze economiche di quella del coronavirus sono state molto più devastanti nella maggior parte dei Paesi poveri, soprattutto in Africa e in Asia del Sud.

L’aumento mondiale dei prezzi delle materie prime ha reso più costosi numerosi prodotti di base: i prezzi dei metalli e del petrolio aumentano dalla metà del 2020, e l’inflazione annuale delle derrate alimentari era di circa il 40% nel maggio 2021, il livello più alto da un decennio. Mentre l’aumento dei prezzi dei metalli e del petrolio si rivela problematico soprattutto per i Paesi industrializzati, l'aumento dei prezzi delle derrate alimentari ha delle ripercussioni significative sulla povertà e la fame nei Paesi poveri. In Nigeria, per esempio, i prezzi delle derrate alimentari sono aumentati di quasi un quarto dall’inizio della pandemia, precipitando 7 milioni di persone nella povertà estrema.

Il turismo è un altro settore particolarmente colpito dalla pandemia. Gli arrivi di turisti internazionali nei Paesi più poveri sono diminuiti del 67% nel 2020. L’ONU stima che saranno necessari almeno quattro anni perché il numero di arrivi torni ai livelli del 2019. Questa realtà minaccia i mezzi di sussistenza degli individui, delle famiglie e delle comunità, così come la sopravvivenza delle imprese nella catena del valore del turismo.

Indebitamento crescente

Mentre la maggior parte dei Paesi industrializzati ha lanciato importanti piani di rilancio per mitigare gli effetti economici della crisi del coronavirus, i Paesi più poveri non dispongono né delle risorse né del margine di manovra politico necessario per emulare l’Occidente. Questo perché, a) non possono prendere in prestito sui mercati internazionali dei capitali a dei tassi d'interesse ragionevoli, dato il loro rating del credito; b) non sono in grado di stampare denaro, dati i picchi d’inflazione; e c) possono mobilitare solo fondi limitati a livello nazionale a causa dell’evasione fiscale internazionale.

Secondo le stime del FMI, i Paesi a basso reddito dovranno spendere quasi 200 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni per continuare a lottare contro la pandemia e altri 250 miliardi di dollari per accelerare la ripresa economica. Tuttavia, la maggior parte di questi Paesi non hanno il margine di manovra necessario per aumentare le loro spese: il FMI afferma che 41 Paesi a basso reddito hanno addirittura ridotto la loro spesa totale nel 2020, e 33 di loro hanno comunque visto aumentare il loro rapporto debito pubblico/PIL. Il livello del debito estero dei Paesi in via di sviluppo ha così raggiunto la cifra record di 11,3 miliardi di dollari nel 2020, vale a dire il 4,6% in più rispetto al 2019 e 2,5 volte superiore al 2009 dopo la crisi finanziaria globale.

Dov’è la solidarietà mondiale?

Sono stati lanciati ripetuti appelli per un sostegno generoso e una riduzione del debito, ma poco si è concretizzato finora. La Debt Service Suspension Initiative (DSSI), concordata dai Paesi del G20, dalla Banca mondiale e dal FMI nella primavera del 2020, ha portato solo alla sospensione temporanea del servizio del debito per i prestiti bilaterali di alcuni Paesi. Non solo la Cina, come principale prestatore, non ha partecipato all'iniziativa, ma i numerosi prestatori privati non l'hanno sostenuta. Inoltre, per paura di scontentare i loro prestatori privati, solo poco più della metà dei Paesi “eleggibili” hanno partecipato. In definitiva, la DSSI ha aumentato il margine di manovra finanziario per 46 Paesi debitori nel 2020 e 2021 (rispettivamente di 5,7 miliardi di dollari e 7,3 miliardi di dollari). Tuttavia, dato che i pagamenti sospesi del debito devono ora essere aggiunti ai piani di rimborso a partire dal 2022, l’imminente crisi del debito è stata al massimo rinviata piuttosto che cancellata. E nemmeno i crediti d'urgenza concessi dal FMI e dalla Banca mondiale per affrontare la crisi risolvono il problema, poiché aumentano ancora il debito.

Anche se l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) è aumentato del 3,5% nel 2020, rappresenta ancora solo lo 0,32% del reddito nazionale lordo (RNL) combinato degli Stati membri del Comitato di aiuto allo sviluppo (CAS) dell’OCSE. È meno della metà dell’obiettivo riaffermato a livello internazionale dello 0,7% del RNL per l’APS e solo l’1% circa dei fondi che sono stati mobilitati per i piani di rilancio nazionali. Sebbene la Svizzera abbia rapidamente sbloccato fondi supplementari per progetti umanitari e per l’Alleanza Covax, rimane lontana, anche nel 2020, dall’obiettivo dello 0,7% concordato a livello internazionale, con lo 0,48% del RNL. Eppure è uno dei Paesi più prosperi del mondo.

Apartheid mondiale in materia di vaccini

L'ex segretario generale dell'OCSE, Angel Gurría, ha anche sottolineato che in futuro "dovremo fare uno sforzo molto maggiore per aiutare i Paesi in via di sviluppo nella distribuzione dei vaccini, dei servizi ospedalieri e per sostenere il reddito e i mezzi di sussistenza delle popolazioni più vulnerabili".

Purtroppo, l’egoismo dei Paesi occidentali non si manifesta solo nei piani di rilancio economico, ma anche nella distribuzione dei vaccini contro il Covid. Mentre in molti Paesi occidentali i bambini sono già vaccinati o una terza dose del vaccino, detta di richiamo, è amministrata, solo il 3,1% della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino nei Paesi più poveri.

Un’analisi dell'istituto di ricerca Airfinity evidenzia che, sulla base degli attuali tassi di vaccinazione, l’80% degli adulti nei Paesi del G7 sarà vaccinato entro la fine del 2021. Nel frattempo, il G7 avrà accumulato quasi un miliardo di dosi di vaccino in eccesso. Queste sarebbe sufficienti per vaccinare una gran parte della popolazione dei 30 Paesi (soprattutto africani) con i tassi di vaccinazione più bassi. Creata con lo scopo di assicurare una distribuzione mondiale più equa dei vaccini, l’iniziativa Covax ha finora fornito meno del 10% dei 2 miliardi di dosi promesse ai Paesi a basso e medio reddito. Questo è in parte dovuto al fatto che i Paesi più ricchi hanno firmato dei contratti prioritari con i produttori di vaccini, costringendo Covax ad uscire dal mercato dei vaccini. Per assurdo, diversi Paesi ricchi (tra cui l'Inghilterra, il Qatar e l’Arabia Saudita) hanno anche acquistato vaccini dal programma Covax.

Anche la Svizzera, con una popolazione di circa 8,6 milioni di abitanti, ha concluso dei contratti con cinque produttori di vaccini per un totale di circa 57 milioni di dosi (anche se solo tre di questi vaccini sono stati approvati da Swissmedic ad oggi). All’alleanza Covax sono state promesse 4 milioni di dosi del produttore Astra Zeneca, non autorizzato in Svizzera, di cui solo circa 400’000 sono state distribuite finora.

Oltre all’iniziativa Covax, è determinante anche rafforzare le capacità di produzione di vaccini nei Paesi a basso e medio reddito. Tuttavia, questa opzione richiederebbe che le aziende farmaceutiche condividano la tecnologia e il loro know-how in materia di vaccini con i produttori di questi Paesi. Una proposta dell’India e del Sudafrica all'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) che chiede la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale dei vaccini, dei test e dei trattamenti contro il Covid è stata sostenuta da Cina e Russia, e in parte da Francia, Stati Uniti e Spagna, così come dall’OMS e da Papa Francesco. L’industria farmaceutica e la Svizzera vi si oppongono e continuano a sostenere la causa delle misure volontarie.

Ritorno alla normalità?

Anche se sembra che la Svizzera avrà presto superato la crisi del coronavirus, questo è lungi dall’essere il caso a livello mondiale. Il sostegno ad hoc dei progetti umanitari, la donazione di dosi di vaccino “vecchie” o “indesiderate”, e la concessione di nuovi prestiti ai Paesi più poveri non saranno sufficienti a combattere la crisi attuale e le sue cause soggiacenti e strutturali.

Solo se riconosciamo che siamo tutti interconnessi e congiuntamente responsabili di rendere il pianeta un luogo vivibile, potremo andare avanti e superare non solo questa crisi ma anche le crisi sistemiche soggiacenti, compresa la crisi climatica globale. La pandemia di coronavirus lo ha dimostrato chiaramente: volere (sul piano politico), è potere.

La responsabilité de la Suisse

Comptant parmi les pays les plus riches et les plus mondialisés de la planète, la Suisse a une responsabilité particulière. Alliance Sud formule donc les exigences suivantes envers la Suisse :

  • comme premier territoire à faible imposition et septième place financière de la planète, elle doit prendre des mesures immédiates pour mettre fin à l'évasion fiscale des pays pauvres impliquant des groupes de sociétés, des prestataires de services financiers et des cabinets d'avocats helvétiques. Ce n'est que de cette manière que les pays pauvres pourront mobiliser des ressources publiques suffisantes pour lutter contre la crise du coronavirus ;
  • elle doit s’engager à ce que les 40 banques suisses ayant actuellement accordé des prêts aux 86 pays les plus pauvres annulent tous leurs prêts à ces États débiteurs en raison de la situation sociale et économique dans ces pays ;
  • elle doit enfin honorer ses engagements au plan international et augmenter progressivement son taux d’APD à 0,7 % du RNB et axer toute sa coopération au développement sur les droits, les besoins et les attentes des plus pauvres et des plus vulnérables ;
  • enfin, elle doit remettre au plus vite ses doses de vaccin excédentaires à Covax et arrêter de bloquer la proposition de l'Inde et de l'Afrique du Sud à l'OMC.
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La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

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"Se mi rassegnassi, mi annoierei”

21.03.2022, Cooperazione internazionale

Da gennaio, Andreas Missbach è il nuovo direttore di Alliance Sud. Esperto in Scienze sociali e appassionato di escursioni in montagna, non ha paura dell’economia di mercato e si rallegra degli attacchi degli avversari politici.

"Se mi rassegnassi, mi annoierei”

© Daniel Rihs / Alliance Sud
Andreas Missbach

Intervista a cura di Kathrin Spichiger e Marco Fähndrich

Accolto da un mazzo di fiori, Andreas Missbach era solo in ufficio il suo primo giorno di lavoro il 3 gennaio: i suoi nuovi colleghi di Alliance Sud approfittavano ancora delle vacanze natalizie o lavoravano da casa a causa della pandemia. Il suo precedente lavoro presso Public Eye, tuttavia, gli aveva reso gli uffici familiari, il che ha facilitato il suo debutto solitario. Al momento di questa intervista, che ha avuto luogo tre settimane prima dell’invasione russa dell’Ucraina, sono già visibili nel suo ufficio piccoli cambiamenti, dettagli accuratamente scelti, che illustrano la sua volontà di agire: fotografie in bianco e nero del fotografo brasiliano Sebastião Salgado adornano le pareti, così come un solenne documento del governo autonomo di Achacachi, al quale ha reso visita di recente in Bolivia.

Andreas, hai lavorato per 20 anni presso Public Eye a Zurigo e ora sei a Berna presso Alliance Sud: cosa unisce e differenzia queste due organizzazioni attive nella politica di sviluppo?

Quando ero a Public Eye, ho sempre collaborato molto strettamente con i miei colleghi di Alliance Sud, soprattutto su temi come la finanza e le imposte. D’altro canto, Public Eye non si occupa più della politica di cooperazione allo sviluppo, un settore in cui Alliance Sud e i suoi membri sono il centro di competenza indiscusso della società civile svizzera da 50 anni.

Dove desideri collocare le priorità per il futuro con Alliance Sud?

Nella coerenza delle politiche e nelle sue principali interfacce: per esempio, tra il commercio e la politica climatica, dove si discute di una tassa di adeguamento alle frontiere; tra la politica climatica e la finanza, dove il settore privato è presentato come un veicolo per la finanza climatica svizzera; tra la finanza e la cooperazione internazionale, dove le partnership con le imprese sono viste come il nuovo El Dorado, anche se spesso solo alcune ne traggono beneficio.

Nel 2009, la NZZ am Sonntag ha citato queste tue parole: "Sono un amante dell’imprenditorialità e del mercato. Le imprese, soprattutto quelle piccole e medie, creano posti di lavoro, cosa che l’aiuto allo sviluppo fa raramente”. Dobbiamo interpretarle come un sostegno al nuovo orientamento, vicino all’economia, del ministro degli esteri Ignazio Cassis, quest’anno Presidente della Confederazione?

Non ho riletto attentamente quella citazione, a suo tempo! - Era una risposta in stile Boris Johnson (ride). In quell’intervista, si parlava del WEF: facevo notare che l’economia non è solo quella delle multinazionali presenti a Davos, ma anche quella delle piccole imprese, delle cooperative e dei sindacati. E sono davvero un fan del “mercato di piazza", dove i produttori della campagna incontrano le consumatrici e i consumatori della città. Che sia sulla Piazza federale, sull’Helvetiaplatz di Zurigo o a El Alto in Bolivia.

Ma la pandemia ha colpito duramente anche l’economia reale del Sud...

La crisi del coronavirus ha chiaramente mostrato che non dovevamo mettere tutte le nostre uova in un solo paniere. Infatti, il settore privato dipende dal sostegno dello Stato e la società civile assume compiti importanti quando il mercato fallisce. I partner locali dei membri di Alliance Sud hanno potuto fornire un’assistenza rapida quando anche coloro che avevano un lavoro hanno improvvisamente visto scomparire il loro reddito.

Una ventina di anni fa hai scritto la tua tesi di dottorato sui negoziati sul clima in seno alle Nazioni Unite, affrontando il conflitto tra Nord e Sud. Cosa è cambiato da allora?

Ciò che è nuovo è soprattutto il fatto che la Cina è ora una grande potenza e il Paese che emette più gas serra. Ma vedere quanto poco sia cambiato in tutti questi anni è preoccupante. Le principali linee di conflitto sono sempre le stesse: si disputa ancora su come attuare la "responsabilità comune ma differenziata" della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, in particolare sul ruolo del trasferimento di tecnologie e sul modo in cui il finanziamento climatico tiene conto degli autori del riscaldamento e dei Paesi più colpiti.

Definendo gli obiettivi comuni di tutti gli stati membri dell’ONU, l’Agenda 2030 dà una risposta. Tuttavia, non ha il vento in poppa in Svizzera: la popolazione non la conosce e l'amministrazione federale si limita a gestirla. Qual è, secondo te, il problema cruciale nell’attuazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile?

L'Agenda 2030 è estremamente ambiziosa: è un concentrato di tutte le buone idee che sono state ritenute nel sistema delle Nazioni Unite negli ultimi 50 anni e che non sono mai state realizzate. Naturalmente, contiene anche i compromessi deboli: così, le strutture di potere dell’economia mondiale e il ruolo ambivalente del settore privato sono ignorati. Il problema è che ormai ognuno può scegliere quello che vuole. Ma l’Agenda 2030 non è purtroppo un menu à la carte: come comunità mondiale dobbiamo affrontare sfide enormi e dobbiamo realizzare una trasformazione globale dell’economia planetaria in tempi molto brevi.

Qual è la leva più importante di cui dispone la Svizzera per sbloccare la situazione a livello internazionale ?

Non esiste una singola misura che da sola potrebbe cambiare tutto, ma se devo scegliere, sarà questa: l'ex ministro delle finanze sudafricano Trevor Manuel una volta disse: “Development is a 3 letter word and it spells T - A – X” (N.d.T. “Sviluppo è una parola di 3 lettere e si scrive T - A - X”). Adottando una politica fiscale equa, la Svizzera probabilmente aiuterebbe idealmente il Sud globale a generare le risorse necessarie al proprio sviluppo. Deve smettere di permettere alle multinazionali di raccogliere qui i loro profitti mondiali.

Quale è la tua opinione sui ricorrenti attacchi borghesi alle ONG in Svizzera? Cesseranno finalmente dopo il rifiuto della mozione Noser in Parlamento?

È difficile dirlo, ma mi ha fatto piacere vedere questi attacchi, perché dimostrano che siamo presi sul serio come forza politica, come abbiamo dimostrato quando abbiamo ottenuto la maggioranza del popolo sull’iniziativa per multinazionali responsabili. In ogni caso, non dobbiamo lasciarci intimidire in futuro: è necessario un contrappeso forte della società civile nella politica e nell'economia...

... ma la società civile rimane ignorata, come nel caso della mancanza di trasparenza delle banche svizzere e dei commercianti di materie prime nelle loro relazioni di credito con i Paesi del Sud. Dove trovi la speranza e la motivazione per il tuo lavoro?

La mia politicizzazione è iniziata più di 35 anni fa con la crisi del debito in America Latina. Naturalmente è frustrante constatare che oggi siamo confrontati con un’imminente crisi del debito e che non abbiamo ancora trovato meccanismi per assicurare che il popolo non debba pagarne le spese. Ma se dovessi rassegnarmi, mi annoierei!

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La fine della globalizzazione (oppure no?)

21.06.2022, Cooperazione internazionale

Una pluralità di voci sostiene che la brutale aggressione bellica contro l’Ucraina segni la fine della globalizzazione. Che dire di questa tesi? Un tentativo di analisi.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Dominik Gross
Dominik Gross

Esperto in politica fiscale e finanziaria

Laura Ebneter
Laura Ebneter

Esperta in cooperazione internazionale

La fine della globalizzazione (oppure no?)

Yury e Oleksiy, due contadini ucraini, coltivano la terra durante l'invasione russa.
© Foto: Ueslei Marcelino / REUTERS

La difficoltà nel parlare di globalizzazione sta nel fatto che il termine viene impiegato in modi molto diversi. Lo storico della globalizzazione tedesco Jürgen Osterhammel osserva che tutti parlano di “globalizzazione” dando tacitamente per scontato che il significato del termine sia chiaro. Tuttavia, secondo lo studioso questa è un’ipotesi irrealistica. Propone dunque di parlare piuttosto di “globalizzazioni”. La globalizzazione non designerebbe quindi più «un processo mondiale globale che include tutta l’umanità», ma una moltitudine di processi diversi nel mondo, in corso contemporaneamente o in momenti diversi, che possono (o potrebbero) essere in qualche modo interconnessi (o meno).

A grandi linee, quando si parla di globalizzazione, ci sono due punti di vista raramente separati in modo sufficientemente chiaro che spiegano perché è così facile che ci si fraintenda su questo argomento. Da un lato, per globalizzazione si intendono ricette di politica economica che si basano su una teoria economica, o piuttosto su un’ideologia. È così che i “critici della globalizzazione” degli anni Duemila comprendevano il termine. Questa ideologia e le ricette (spesso indigeste) venivano guarnite con narrazioni sulle promesse della globalizzazione. Dall’altro lato, con il termine “globalizzazione” vengono etichettati processi reali, come ad esempio la crescita del commercio internazionale, l’aumento dei flussi di capitale transfrontalieri o il peso delle imprese multinazionali. L’elenco potrebbe continuare a lungo.

Spesso si presume che le ricette alimentate dall’ideologia conducano linearmente ai processi reali misurabili, per esempio che l’eliminazione delle barriere commerciali e dei controlli sui movimenti di capitali abbia causato la rapida crescita del commercio globale. Eppure, la questione non è così semplice, perché una quota considerevole di tale crescita è dovuta direttamente o indirettamente al fatto che la Cina è diventata la “fabbrica del mondo”. Il Paese asiatico però è stato molto selettivo nell’eliminare le barriere commerciali, non ha mai liberalizzato i movimenti di capitale e ha mantenuto il controllo statale anche in altri settori.
In questo caso abbiamo a che fare piuttosto con una miscela di ideologia, ricette e sviluppi reali che si può riassumere come segue: la trasformazione del capitalismo globale è stata guidata a partire dagli anni Settanta da un’ideologia economica accolta con entusiasmo dalle multinazionali e dai governi occidentali. Le ricette di politica economica che ne sono derivate e che sono state applicate dai governi hanno favorito l’emergere delle multinazionali e hanno scatenato quattro processi globali fondamentali: la rapida crescita del commercio internazionale, la delocalizzazione della produzione industriale nei Paesi meno “sviluppati” (Cina compresa), l’aumento delle migrazioni sud-nord (soprattutto negli Stati Uniti, in Europa anche da est a ovest) e, soprattutto, l’estrema crescita, a partire dagli anni Settanta, del settore finanziario e della sua importanza per l’economia e la politica fiscale all’interno dei Paesi e al di là delle frontiere.

L’ideologia

L’ideologia economica viene comunemente definita neoliberismo, ma “neoliberismo” presenta esattamente lo stesso problema di “globalizzazione”: due persone in una stanza capiscono tre cose diverse quando sentono questo termine. Lo storico statunitense Quinn Slobodian ci viene in soccorso. Nel libro «Globalists – The End of Empire and the Birth of Neoliberalism» (2018) distingue due concetti neoliberali: il più noto proviene da Chicago, l’altro da Ginevra. Il primo consiste in un maggiore “laissez-faire” e in un numero sempre minore di confini statali (nazionali), cioè in mercati autoregolati che sostituiscono sempre di più sistemi di stato indeboliti in quanto forze strutturanti di una società. Ossia, per parafrasare il PLR svizzero degli anni ’70: più mercato, meno Stato. Gli economisti neoliberali della scuola di Chicago, che annovera tra i maggiori esponenti l’economista statunitense Milton Friedman, sognavano un mercato mondiale unico e onnicomprensivo, in cui la politica giochi un ruolo solo laddove il mercato non funzioni. Secondo le idee di Friedman e dei suoi adepti, in realtà ciò non dovrebbe essere il caso eccetto per le questioni di sicurezza (esercito e polizia).

A questa idea di globalizzazione neoliberale quale processo mondiale in cui le forze del libero mercato giungono a pieno compimento autonomamente, Slobodian contrappone il gruppo ginevrino di pensiero neoliberale avanguardista. Il gruppo si è costituito negli anni ’30 presso l’università di Ginevra - proprio dove l’ONU ha la sua seconda sede. La «Geneva School», che comprendeva gli economisti Willhelm Röpke, Ludwig von Mises e Michael Heilperin, al contrario della scuola di Chicago non voleva «liberare il mercato dallo Stato», ma mettere lo Stato al servizio del mercato, con l’obiettivo principale di garantire il diritto alla proprietà privata non solo in un particolare Stato nazionale, ma in tutto il mondo. Slobodian scrive che per i «Geneva boys» era importante dare al mercato dello Stato un quadro globale di diritto (privato) e di elevare così a livello sovranazionale i meccanismi che servono a incrementare la proprietà privata – senza la palla al piede delle regole restrittive di uno Stato sociale redistributivo.

Le ricette

Le ricette basate sull’ideologia di politica economica dei neoliberisti di vario stampo nel 1989 sono poi state designate «Washington Consensus», perché sostenute dalle istituzioni che vi hanno sede: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, oltre al ministero delle finanze USA. In realtà, «Consenso di Washington, Ginevra (OMC - commercio), Parigi (OCSE - politica fiscale) e Bruxelles (UE)» sarebbe più preciso. Sviluppatosi originariamente in reazione alla crisi del debito dell’America Latina, il fulcro di questo programma consisteva nella concorrenza (in particolare nello smantellamento dello Stato sociale), nella deregolamentazione (commercio e movimenti di capitale) e nella privatizzazione. In cambio di nuovi prestiti, questo “consenso” è stato imposto ai Paesi indebitati dell’America Latina e dell’Africa negli anni ’80 attraverso i cosiddetti programmi di aggiustamento strutturale – un periodo che in seguito è stato spesso definito il «decennio perduto», poiché la povertà è aumentata vertiginosamente in molti Paesi.

A trainare questa agenda e ad approfittarne sono state le multinazionali e soprattutto le banche e altri attori finanziari. Lo ha ben sottolineato il direttore di ABB Percy Barnevik riassumendo in poche parole il programma del gruppo nel 2000: «Definisco la globalizzazione come la libertà del nostro gruppo aziendale di investire dove e quando vuole, di produrre ciò che vuole, di comprare e vendere dove vuole e di ridurre al minimo tutte le restrizioni imposte dalle leggi sul lavoro o da altre normative sociali».

Un punto di svolta decisivo è stato il crollo dell’Unione Sovietica nel mese di dicembre del 1991. Con la fine del “blocco orientale” era rimasta una sola superpotenza e ora le ricette potevano essere applicate a livello globale. Le grandi vittime di queste ricette, dopo i Paesi del Sud del mondo, sono stati i Paesi dell'ex Unione Sovietica: i consulenti economici statunitensi convinsero i loro governi ad applicare il consenso di Washington come terapia d’urto. Con il risultato che l’industria locale scomparve quasi del tutto e pochi poterono accaparrarsi le ricchezze nazionali e le materie prime che ancora rimanevano quale settore dominante dell’economia. Senza consenso di Washington, niente oligarchi.

Le promesse della globalizzazione

Le ideologie della globalizzazione e le relative ricette andavano di pari passo con una serie di narrazioni e di promesse, alcune delle quali vengono diffuse ancora oggi, nonostante le prove contrastanti. Per esempio, che l’economia mondiale porti la prosperità perpetua a tutti i Paesi che si impegnano davvero e con coerenza nel libero scambio e nella libera circolazione dei capitali. Che lo sviluppo economico generato grazie alla globalizzazione porti alla diffusione dei valori occidentali e, in ultima analisi, a un mondo di Stati democratici che cooperano pacificamente. O ancora, che la “governance globale” accresca il potere dei governi e risolverà i problemi comuni del mondo.

È ormai sempre più evidente che nessuna di queste promesse è stata mantenuta: mentre la povertà è diminuita in alcuni Paesi, soprattutto asiatici (che non hanno sostenuto il consenso di Washington o lo hanno sostenuto solo in parte), nel contempo il divario a livello globale è aumentato. L’economista Thomas Piketty mostra che tra il 1980 e il 2014 i redditi della metà più povera della popolazione mondiale sono aumentati del 21%, mentre nello stesso periodo i redditi dello 0,1% più ricco sono aumentati del 617%. Mentre la liberalizzazione del commercio e l’emergere di catene globali del valore hanno estremamente rafforzato il potere di mercato di alcune imprese, i sindacati sono stati indeboliti in tutto il mondo, le prestazioni sociali sono state tagliate e in molti luoghi è iniziata una corsa al ribasso dei salari. E invece della libertà, della democrazia e dei diritti umani promessi dalla narrazione, in realtà oggi sempre più persone sono confrontate con la repressione e l’oppressione.

L’ONG “Freedom House” constata che la democrazia oggi è sotto attacco da parte di leader e gruppi populisti in tutte le regioni del mondo, un attacco spesso accompagnato dalla repressione contro le minoranze o contro altri “nemici” costruiti. Allo stesso tempo, negli ultimi due decenni, i governi autocratici hanno esteso sempre più la loro influenza al di là dei propri confini, cercando di mettere a tacere i critici, rovesciare i governi democratici e rimodellare le norme e le istituzioni internazionali per servire i propri interessi. Ciò rende sempre più difficile anche la cooperazione in organismi globali come le Nazioni Unite.

Fine? Quale fine?

Anche se nessuna delle promesse della globalizzazione si è avverata, la guerra in Ucraina non segna certo la “fine della globalizzazione” come ideologia con le sue ricette politiche. Da un lato, anche prima della guerra, nessuna delle istituzioni del consenso di Washington, Ginevra, Parigi e Bruxelles sosteneva ancora indistintamente le stesse ricette di prima della crisi finanziaria del 2007. Dall’altro, le istituzioni finanziarie internazionali, ancora dominate dall’Occidente, continuano a diffondere tranquillamente parti di questa ideologia nonostante la crisi climatica sempre più acuta, le ricorrenti crisi economiche e alimentari e le crisi del debito che si aggravano abbiano in realtà già da tempo dimostrato l’inadeguatezza di queste ricette. Purtroppo non c’è da aspettarsi che la guerra possa cambiare le cose.

La guerra contro l’Ucraina sta forse portando a una battuta d’arresto o addirittura a un’inversione di tendenza della reale integrazione economica mondiale? È altamente improbabile, anche se alcune catene del valore cambieranno o si accorceranno. Che la Russia nella morsa delle sanzioni e alcuni stati vassalli formino uno spazio economico eurasiatico chiuso è da escludere. L’Occidente (compreso il Giappone) è troppo importante per la Cina dal punto di vista economico.

E ora?

L’ideologia della globalizzazione ha sempre meno appigli per legittimarsi. Le molteplici crisi dimostrano chiaramente che l’attuale modello di economia globale non è in grado di garantire pace, libertà, salute e benessere per tutti. Che stia distruggendo il Pianeta in ogni caso è ovvio. Qual è dunque la via da seguire?

Innanzitutto, abbiamo bisogno di una nuova ideologia che, invece di concentrarsi sulla crescita economica “eterna”, sulla massimizzazione del profitto e sugli interessi personali a breve termine, sia focalizzata sulle nostre interdipendenze, sul nostro inserimento nell’ambiente naturale e sui nostri interessi comuni e a lungo termine.

Dopodiché abbiamo bisogno di una politica economica e di sviluppo che si ponga l’obiettivo di realizzare i diritti universali dell’uomo per tutte le persone sulla Terra e che promuova la loro realizzazione globale, invece di ostacolarla. Infine, questa nuova politica di sviluppo deve essere in grado di indicare come poterlo fare in armonia con i limiti del pianeta. Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile nel quadro dell’Agenda 2030 dovrebbero fungere da orientamento.

Per realizzare la grande trasformazione di cui abbiamo bisogno non c’è un piano generale né una mappa: occorrono innumerevoli esperimenti, processi di ricerca e confronti politici, dalle fondamenta fino ai forum internazionali della “governance globale”. Come già rilevò il movimento anti-globalizzazione negli anni ’90 in risposta al «There is no alternative» dell’ex prima ministra britannica Margaret Thatcher: «There are thousands of alternatives».

Articolo apparso in versione accorciata su "LaRegione" del 19 luglio 2022.

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Chi teme le ONG? (parte 2)

24.03.2021, Cooperazione internazionale

La nostra democrazia beneficia del fatto che una varietà di attori porta la sua esperienza, le sue opinioni e le sue preoccupazioni al dibattito politico.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Chi teme le ONG? (parte 2)

La sensibilizzazione è anche nel "menu" della società civile. L'Università delle Arti di Zurigo (nella foto, il Toni-Areal) gestisce un centro per l'arte e la costruzione della pace in collaborazione con l'artasfoundation.
© Christian Beutler / Keystone

La nostra democrazia beneficia del fatto che al dibattito politico partecipano molteplici attori, ognuno con le proprie specializzazioni, opinioni ed esigenze. Oltre ai vari attori economici e ad altri gruppi della società civile (come i sindacati o gli attori nell’ambito dell’educazione), anche le ONG che operano nell'interesse generale contribuiscono al dibattito democratico nel nostro Paese. Contrariamente ai rappresentanti dell’economia, che generalmente difendono i propri interessi, queste ONG si battono per cause ambientali o sociali senza scopo di lucro, conformemente al loro mandato. Il loro impegno politico è finanziato mediante le quote associative e i fondi raccolti per scopi politici specifici.

Mentre diverse personalità politiche borghesi siedono nei consigli di amministrazione del settore privato, appaiono regolarmente agli eventi di lobbying delle associazioni economiche e si oppongono spesso con veemenza a una maggiore trasparenza delle donazioni ai partiti (visto che probabilmente renderebbe determinati legami ancora più evidenti), le ONG di cooperazione allo sviluppo dovrebbero essere esaminate con la lente d’ingrandimento alla ricerca di eventuali legami politici e rappresentazioni di interessi. Allo stesso tempo, il fatto che anche altri attori e associazioni, che beneficiano di sovvenzioni statali e di altri contributi pubblici, lancino ugualmente campagne di informazione e interferiscano nelle campagne di votazione non sembra preoccupare quelle stesse personalità politiche che vogliono zittire politicamente le ONG.

Un «divieto politico» generale per le ONG che percepiscono fondi pubblici metterebbe probabilmente a tacere molte voci critiche e consoliderebbe il dominio dei lobbisti del mondo economico. Anche se questo è quello che si augurano alcuni esponenti politici borghesi, un tale divieto rappresenterebbe una dichiarazione di fallimento per un Paese che ama sottolineare la sua democrazia, la sua apertura al mondo e la sua tradizione umanitaria. Eppure, se le ONG non avessero più il diritto di svolgere attività politiche, anche per tutti gli altri contributi e le altre sovvenzioni della Confederazione si dovrebbe esaminare se i beneficiari si impegnano in ambito politico e se, in tal caso, caso dovrebbero essere interrotti anche questi contributi statali. E ciò non sarebbe certo nell'interesse dei politici interessati.

Le attività educative al centro dell'Agenda 2030

All’indomani della votazione sull’iniziativa per multinazionali responsabili, tuttavia, le attività politiche delle ONG non sono state l’unico elemento al centro delle critiche. Anche le attività di educazione e sensibilizzazione in Svizzera sono state messe in discussione. In dicembre, infatti, la DSC ha annunciato senza preavviso (probabilmente su pressione del capo del dipartimento) che non avrebbe più potuto cofinanziare le attività di educazione e sensibilizzazione delle ONG in Svizzera. Questa decisione è tanto più sorprendente se si considera che un anno prima la DSC aveva adottato nuove linee direttrici per la collaborazione con le ONG, in cui si specifica che uno dei compiti principali delle ONG svizzere «consiste nell’informare e sensibilizzare l’opinione pubblica svizzera, e in particolare i giovani, in merito alle sfide globali e allo stretto nesso tra pace, sicurezza, sviluppo sostenibile e benessere» (Direttive della DSC per la cooperazione con le ONG svizzere, 2019).

La sensibilizzazione e l'educazione relative ai temi dello sviluppo sostenibile (compresa la cooperazione allo sviluppo) costituiscono a loro volta un elemento chiave dell'Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile, sottoscritta anche dal nostro Paese. Con i suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS), l'Agenda 2030 si rivolge a tutti i Paesi, non solo a quelli in via di sviluppo. Chiede un cambiamento radicale nella cooperazione internazionale e invita tutti i Paesi a rendere sostenibile ogni ambito politico, considerando anche le interdipendenze globali. La sensibilizzazione e l'educazione sono essenziali per raggiungere gli OSS: per esempio, l'OSS 4 richiede che tutti i Paesi garantiscano entro il 2030 l’acquisizione, da parte di tutti gli studenti, della conoscenza e delle competenze necessarie a promuovere lo sviluppo sostenibile. Ciò comprende un’educazione volta ad uno sviluppo e uno stile di vita sostenibile, ai diritti umani, alla parità di genere, alla promozione di una cultura pacifica e non violenta, alla cittadinanza globale e alla valorizzazione delle diversità culturali e del contributo della cultura allo sviluppo sostenibile. L'educazione allo sviluppo sostenibile ha un ruolo importante anche nel quadro della Strategia per uno sviluppo sostenibile (SSS) 2030 della Svizzera, la cui consultazione si è appena conclusa.

Sebbene le ONG siano ancora autorizzate a svolgere attività di educazione e di sensibilizzazione in Svizzera (nella misura in cui riescono a mobilitare fondi a questo scopo in altro modo), l'esclusione ufficiale dell'educazione e della sensibilizzazione dai contratti programmatici della DSC con le ONG è un grande passo indietro nella comprensione della cooperazione allo sviluppo. In futuro le ONG dovrebbero concentrarsi nuovamente sull’assistenza all'estero — come auspica anche la consigliera nazionale Schneider-Schneiter — e astenersi dal sottolineare le interdipendenze mondiali. Per esempio, le ONG possono sostenere una campagna contro il lavoro minorile in Costa d'Avorio, ma non dovrebbero menzionare che anche le multinazionali svizzere traggono profitto vantaggiosamente dal lavoro dei bambini; possono scavare pozzi in Tanzania, ma non dovrebbero menzionare che sono le attività minerarie irresponsabili delle multinazionali a contribuire massicciamente alla scarsità d'acqua; possono occuparsi delle vittime della crisi climatica in Bangladesh, ma non dovrebbero menzionare che anche il nostro stile di vita, la nostra piazza finanziaria e la nostra industria contribuiscono in larga misura al riscaldamento globale.

La Svizzera ignora le raccomandazioni dell'OCSE

Un processo di revisione tra pari (peer review) del Comitato di aiuto allo sviluppo (CAS) dell'OCSE ha valutato la cooperazione allo sviluppo della Svizzera nel 2019 e ha avanzato diverse proposte di miglioramento (come si vede dal confronto con OCSE DAC 2019). L'OCSE critica, in primo luogo, la mancanza di analisi e, soprattutto, l'assenza di dibattito sull'impatto delle politiche nazionali (per esempio finanziarie, agricole o commerciali) sui Paesi in via di sviluppo. Chiede alla Svizzera di «diffondere e discutere di tali analisi sia in seno al governo che nella società svizzera in generale». Nel contempo l'OCSE osserva che la Svizzera continua ad ottenere scarsi risultati negli ambiti della comunicazione e della sensibilizzazione dell'opinione pubblica sulle tematiche della cooperazione allo sviluppo. Raccomanda quindi al Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) di finanziare e attuare strategie di comunicazione e di sensibilizzazione per il suo programma di sviluppo. Tale approccio dovrebbe permettere alla DSC di comunicare in maniera proattiva per rafforzare il sostegno politico e pubblico alla cooperazione allo sviluppo. Tuttavia, la recente decisione del DFAE va nella direzione opposta, come critica anche l'ex consigliera federale Micheline Calmy-Rey esponendo la sua opinione in un articolo apparso su «Weltwoche», settimanale con sede a Zurigo. La DSC continua a essere sotto tutela in materia di comunicazione e le ONG sono invitate a non comunicare riguardo a questioni di coerenza politica. Rimane da augurarsi che il Parlamento si renda conto che la democrazia svizzera può solo beneficiare di una popolazione illuminata, ben informata e politicamente attiva e di una società civile forte.

Pubblicato il 14 aprile 2021

Su Il corriere dell'Italianità

(Traduzione Nina Nembrini)

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