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I danni ci sono, i finanziamenti non ancora
24.11.2023, Giustizia climatica
La discussione su chi debba pagare per i danni e le perdite conseguenti al riscaldamento climatico va avanti da decenni. Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Dubai quest’anno, per la prima volta, si negoziano le modalità di pagamento. I risultati urgono.

Una catastrofe nazionale che si ripete sempre più spesso: la siccità in Kenia.
© Ed Ram /Getty Images
«Nel mio Paese, il Kenia, è già la sesta volta di seguito che non arriva la stagione delle piogge». La sera del 22 giugno 2023, Elizabeth Wathuti parla a voce alta al microfono sul Champ de Mars a Parigi, per farsi sentire dalle migliaia di persone presenti. «Ciò ha causato perdite di raccolti, siccità prolungata e insicurezza alimentare. Ha aumentato enormemente i costi per la nostra agricoltura». Mentre la giovane attivista racconta gli effetti della crisi climatica sullo sfondo della Tour Eiffel e chiede giustizia climatica insieme ad altre e altri che come lei tengono un discorso, il Presidente francese Emmanuel Macron riceve i suoi ospiti da tutto il mondo a un banchetto nel vicino Palais. Per tutta la giornata, su invito di Macron, nell’ambito di un vertice internazionale avevano discusso delle sfide e dei modi per aumentare i finanziamenti a favore dello sviluppo sostenibile nel Sud globale. Il risultato: se ne ridiscuterà alla prossima conferenza.
Il finanziamento internazionale a tutela del clima, che ha come scopo la riduzione delle emissioni di gas serra e l’adattamento al riscaldamento climatico nel Sud del mondo, è da anni legato all’impegno che sono tenuti a dimostrare secondo il diritto internazionale i Paesi industrializzati mediante i loro contributi all’obiettivo di finanziamento collettivo di 100 miliardi di dollari all’anno. Tuttavia, la mancanza di volontà politica negli Stati che causano la crisi climatica ha fatto sì che questa somma non sia mai stata raggiunta.
Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di novembre 2022 (COP27) a Sharm el-Sheikh, gli Stati del Sud globale sono riusciti per la prima volta a negoziare il finanziamento dei danni e delle perdite dovuti al clima, anche grazie a decenni di sostegno da parte delle organizzazioni della società civile di tutto il mondo. Eppure già da anni i danni e le perdite si aggirano sui miliardi (le stime variano a seconda della definizione) e colpiscono maggiormente le persone che hanno meno mezzi per prepararsi o adattarsi ai cambiamenti climatici. Inoltre, in Paesi già fortemente indebitati i danni e le perdite portano a un ulteriore indebitamento. L’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) distingue tra danni o perdite derivanti da eventi graduali (ad esempio l’innalzamento del livello del mare) ed eventi improvvisi (ad esempio tempeste e inondazioni). Oltre alle perdite e ai danni quantificabili a livello economico, si verificano anche danni non quantificabili, come i danni ai beni culturali o agli ecosistemi.
Alla conferenza COP28 di quest’anno a Dubai, il finanziamento “Loss and Damage” sarà uno dei principali temi delle trattative. Le parti contraenti, infatti, si sono date un anno fa il compito di adottare nel 2023 disposizioni più dettagliate su come dovranno essere finanziati danni e perdite. La discussione si limita ai Paesi particolarmente vulnerabili alle conseguenze della crisi climatica. A tal fine dovrebbe essere costituito un fondo ONU a cui contribuiscono gli Stati inquinanti. In questo contesto, si sta discutendo di fonti di finanziamento globali innovative, con le quali si potrebbero far pagare anche attori privati secondo il principio del “chi inquina paga”. «Se tali proposte saranno accettate, potrebbero dover contribuire al finanziamento anche le imprese ad alta intensità di emissioni di tutto il mondo», scrive Robin Poëll, portavoce dell’UFAM, su richiesta di Alliance Sud. Tuttavia, la probabilità che una tale imposta globale a favore del fondo ONU si avveri per ora non è molto alta. In attesa di ciò, la Svizzera potrebbe dare il buon esempio e vagliare l’introduzione di un’imposta di questo tipo almeno sulle imprese che danneggiano il clima in Svizzera, in modo tale da risarcire le perdite e i danni nel Sud globale.
La perdita di fiducia complica le trattative
Il vero pomo della discordia alla conferenza sul clima, tuttavia, sarà probabilmente quello di stabilire quali Paesi debbano versare capitali nel fondo e verso quali Paesi il denaro debba affluire. Per stabilirlo, occorre definire o meglio negoziare quali Paesi sono da considerare particolarmente vulnerabili. Per quanto riguarda la questione ancora più politica di chi debba pagare in quanto Stato inquinante, la responsabilità storica della crisi climatica, chiaramente attribuibile ai Paesi industrializzati, va combinata con l’attuale confronto delle emissioni di gas serra tra i Paesi; in quest’ultimo, i maggiori Paesi emergenti presentano una quota maggiore. I Paesi donatori che finora hanno sostenuto gli obiettivi di finanziamento climatico sono stati definiti nel 1992. La Svizzera intende ora fare in modo che un maggior numero di Paesi debba versare il proprio contributo al fondo. Secondo il portavoce dell’UFAM, «la Svizzera auspica che i Paesi che contribuiscono maggiormente a causare il cambiamento climatico e hanno le capacità necessarie siano tenuti a impegnarsi. Ciò significa, in concreto, che dovrebbero contribuire al finanziamento anche le economie emergenti benestanti con emissioni elevate di gas serra nonché gli attori privati».
Tuttavia, la Svizzera e altri Paesi donatori del Nord globale finora su questo punto si sono scontrati con la resistenza del Sud del mondo. Poiché i Paesi industrializzati non hanno mantenuto le loro promesse di finanziamento, non hanno la credibilità necessaria in termini di giustizia climatica. La Svizzera, ad esempio, non ha calcolato la propria “quota equa” di finanziamento climatico in base alla propria impronta climatica complessiva, ma solo in base alle emissioni sul territorio nazionale. Per non parlare del mancato raggiungimento dell’obiettivo climatico che consisteva nel ridurre le emissioni del 20% entro il 2020. La perdita di fiducia tra Nord e Sud, in ultima analisi, complica anche le trattative in merito a obiettivi climatici più ambiziosi e all’abbandono graduale dei combustibili fossili. I Paesi del Sud globale però devono poter garantire i loro finanziamenti per le energie rinnovabili, per non rimanere emarginati globali.
Il tempo stringe, i danni e le perdite sono già tangibili e in continuo aumento. Anche perché, secondo il rapporto mondiale sul clima, la carenza di finanziamenti per l’adattamento al riscaldamento globale è sempre maggiore. E in ogni caso, le persone non possono adattarsi a qualsiasi cambiamento. Il ministro degli Esteri della nazione insulare del Pacifico Tuvalu l’ha ricordato lasciando un’impressione indelebile quando, poco prima della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Glasgow nel 2021, senza esitare si è arrotolato i pantaloni, ha piazzato il suo leggio in acqua e ha tenuto un discorso per richiamare l’attenzione sull’innalzamento del livello del mare.
A Glasgow, Elizabeth Wathuti si è rivolta al mondo intero in occasione dell'apertura della conferenza sui cambiamenti climatici: «Entro il 2025, metà della popolazione mondiale sarà confrontata con problemi di scarsità idrica. E prima dei miei cinquant’anni la crisi climatica avrà fatto sfollare 86 milioni di persone nella sola Africa subsahariana». Nessuna conferenza può porre fine alla crisi climatica da un giorno all’altro. Ma rimediare finanziariamente ai danni e alle perdite già avvenuti è assolutamente necessario.

© Karwai Tang
Elizabeth Wathuti, giovane attivista per il clima
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La Svizzera davanti a un tribunale arbitrale
25.08.2020, Commercio e investimenti
La Svizzera non è al riparo dall'arbitrato internazionale: per la prima volta, è stata sporta denuncia contro di essa. È un'occasione d'oro per riequilibrare gli accordi di protezione degli investimenti a favore dei paesi ospitanti.

© Isolda Agazzi / Alliance Sud
Prima o poi doveva succedere. Per la prima volta nella sua storia, la Svizzera è oggetto di una causa davanti all’ICSID (Centro internazionale per il regolamento delle controversie relative agli investimenti), il tribunale arbitrale della Banca mondiale che dirime le controversie legate agli accordi di protezione degli investimenti. Ironia della sorte, è un paradiso tropicale che potrebbe portare la Svizzera all’inferno: un’entità giuridica domiciliata alle Seychelles e controllata da un cittadino elvetico, che pretende agire a nome di tre Italiani che avrebbero subito perdite per via di un decreto federale urgente del 1989, il quale vieta di rivendere edifici non agricoli per cinque anni. Un documento (RS 211.437.1) così vecchio che non si trova neanche su internet... Il denunciante si basa sull’accordo di protezione degli investimenti (API) Svizzera – Ungheria e reclama 300 milioni CHF di compensazione. La Svizzera contesta tutto (comunicato stampa del 20.08.2020).
37 cause di imprese svizzere contro degli Stati
Per quanto campata in aria possa sembrare questa faccenda, dimostra che la Svizzera non è immune da questo meccanismo tanto criticato dell’arbitrato internazionale, che permette ad un investitore straniero di fare causa ad uno Stato ospite – ma non il contrario – se quest’ultimo vara una nuova regolamentazione per proteggere l’ambiente, la salute, i diritti dei lavoratori o l’interesse pubblico.
Finora Berna era riuscita nell’exploit quasi unico al mondo di evitarlo, mentre 37 cause d’imprese svizzere (o che si pretendono tali) sono state identificate ad oggi dall’UNCTAD. L’ultima riguarda Chevron contro le Filippine, sulla base del trattato di protezione degli investimenti Svizzera – Filippine. Un affare di cui non si sa quasi niente, salvo che porta su un giacimento di gas offshore. Chevron, impresa svizzera? A priori non si direbbe, ma la multinazionale americana deve aver fatto “treaty-shopping”, come si dice in gergo, aver trovato che l’API Svizzera – Filippine serviva al meglio i suoi interessi ed essere riuscita a farsi passare per un’azienda elvetica. Ciò mentre è impigliata da decenni in guai giudiziari in Ecuador per avere inquinato l’Amazzonia.
Sopprimere l’ISDS
Sono anni che Alliance Sud chiede alla Svizzera di riequilibrare gli accordi di protezione degli investimenti con i paesi di accoglienza (115 ad oggi, esclusivamente paesi in via di sviluppo) per garantire meglio i loro diritti. Ultimamente il Sudafrica, la Bolivia, l’Ecuador, l’India, l’Indonesia e Malta hanno denunciato i loro e vogliono rinegoziarne di più equilibrati, o non ne vogliono più. L’elemento più contestato è precisamente l’arbitrato internazionale (ISDS), un meccanismo della giustizia privata che prevede che l’investitore scelga un arbitro, lo Stato accusato un altro e i due si mettano d’accordo su un terzo. Tre giudici che possono condannare lo Stato a pagare compensazioni di centinaia di milioni di dollari. Alliance Sud chiede di rinunciare completamente all’ISDS o, alla peggio, di usarlo solo come ultima spiaggia, dopo aver esaurito i ricorsi interni.
Gli Stati dovrebbero poter depositare una contro-causa per violazione dei diritti umani
Se gli accordi di protezione degli investimenti proteggono solo i diritti degli investitori stranieri, una prima breccia a favore del diritto alla salute si è aperta con la sentenza di Philip Morris contro l’Uruguay (luglio 2016) che ha dato torto al fabbricante svizzero di sigarette da A a Z. Un secondo barlume di speranza si è acceso alla fine del 2016, quando un tribunale arbitrale ha dato torto a Urbaser, un’impresa spagnola che gestiva la fornitura d’acqua a Buenos Aires ed era fallita dopo la crisi finanziaria del 2001 – 2002. Gli arbitri hanno statuito che un investitore deve rispettare pure i diritti umani. Per la prima volta hanno accettato anche il principio della “contro-causa” dell’Argentina contro Urbaser per violazione del diritto all’acqua della popolazione... salvo poi finire per decidere che, in fondo, Urbaser non lo aveva violato (!). Hanno considerato che la contro-causa era ricevibile perchè l’API Argentina – Spagna permette “alle due parti” di fare causa.
Scuotere l’albero da cocco
Purtroppo non è il caso degli API svizzeri, che permettono solo all’investitore di sporgere denuncia e non ad ambedue le parti[1]. L’aggiornamento degli accordi in corso, o la rinegoziazione di nuovi, è l’occasione di introdurre questa modifica. Che resta però modesta visto che la denuncia iniziale può provenire solo dall’investitore: vittime della violazione del diritto all’acqua, alla salute, o dei diritti sindacali, non possono sporgere denuncia per primi contro le multinazionali straniere. Possono solo, nel migliore dei casi, rispondere alla loro.
Adesso che un investitore delle Seychelles ha scosso l’albero da cocco, e qualunque sia l’esito di questa causa, speriamo che la Svizzera farà sforzi seri per riequilibrare i suoi accordi d’investimento. Ormai è chiaramente anche nel suo interesse.
[1] Vedi per esempio l’art. 10.2 dell’API con la Georgia, il più recente API svizzero.
Questo testo è stato pubblicato nel blog di Isolda Agazzi “Lignes d’horizon” su Le Temps.
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I turisti del vertice di Roma
03.11.2021, Finanza e fiscalità
La nuova aliquota fiscale minima globale dell’OCSE e del G20 distribuisce la ricchezza secondo la tradizione del mondo (post)coloniale: favorisce il Nord esacerbando le disuguaglianze planetarie.

L'acqua della Fontana di Trevi con le sue molte monete.
© Wolfgang Dirscherl / pixelio.de
I capi di governo dei Paesi del G20 hanno concluso il loro incontro lanciando monete nella Fontana di Trevi, un rito che quasi tutti i turisti che scoprono la Città Eterna compiono. E visti i risultati del vertice in termini di politica climatica e fiscale, oltre che di pandemia, si era tentati di credere che le persone più potenti del mondo non fossero fondamentalmente altro che turisti: persone poco desiderose di plasmare attivamente il mondo, ma mosse dall’ambizione di essere favorite qualora si tenti di arricchirsi a sue spese. Monete nella fontana allora!
“Why don’t you come on back to the war, don’t be a tourist”, dice una canzone di Leonard Cohen. Nel caso del vertice del G20 di Roma, la “guerra” - al di là della pandemia - sarebbe stata la lotta contro la crisi climatica e l'iniquo sistema di tassazione globale dei gruppi di imprese multinazionali. Poco prima della Conferenza sul clima di Glasgow iniziata questa settimana (COP26), il vertice sarebbe stato un'ottima occasione per iniziare a riflettere assieme, anche ai più alti livelli politici, a queste tre grandi sfide politiche globali contemporanee – ma ne eravamo ben lontani!
Riforma inutile della fiscalità delle imprese da parte dell'OCSE e del G20
Negoziata da più di 120 Paesi nel quadro dell'OCSE in assenza di molti Paesi africani, la riforma della fiscalità delle imprese, ormai approvata a Roma dai Paesi del G20 nei suoi punti essenziali, dimostra in modo esemplare che quello che viene celebrato come un “accordo storico” dal presidente americano Biden o dal cancelliere tedesco designato Scholz, e che viene presentato acriticamente come una “rivoluzione fiscale globale” da molti media - anche svizzeri - non è obiettivamente più di un'increspatura sull’acqua provocata dal lancio di una moneta.
In realtà, si tratta, da un lato della redistribuzione dei profitti dei gruppi aziendali dai Paesi sede ai Paesi mercato (pilastro 1) e, dall’altro, dell'introduzione di una tassa minima effettiva per le multinazionali (pilastro 2). La riforma BEPS 2.0 (“Base Erosion and Profit Shifting”, o erosione della base d’imposizione e trasferimento dei profitti) lascia molto a desiderare dal punto di vista della politica di sviluppo per due ragioni principali.
In primo luogo, l'intera industria estrattiva e il settore finanziario sono esclusi dal primo pilastro per ragioni tecniche. I Paesi poveri del Sud, che sono fortemente dipendenti dalle industrie estrattive, non avranno quindi diritti aggiuntivi per tassare i profitti di queste industrie. Inoltre, il primo pilastro ridistribuisce solo una piccolissima parte dei profitti, e solo nelle aziende con un fatturato annuo di 20 miliardi di dollari e un tasso di profitto superiore al 10%. A livello mondiale, solo un centinaio di aziende sono interessate; in Svizzera con ogni probabilità riguarda soltanto i giganti Novartis, Roche, Nestlé e Schindler. I principali beneficiari di questa ridistribuzione saranno i Paesi ricchi dotati di grandi mercati interni come gli Stati Uniti o la Germania.
In secondo luogo, l'aliquota fiscale minima del 15% prevista nel secondo pilastro è troppo bassa e può essere applicata unicamente dal Paese in cui ha sede la società interessata. E di nuovo solo a condizione che l'azienda abbia un fatturato annuo superiore a 750 milioni di euro.
I Paesi in via di sviluppo sono rimasti al palo
Secondo un calcolo degli economisti Petr Janský e Miroslav Palanský (2019), i Paesi a reddito medio-basso (“lower-middle-income countries”; che si trovano senza eccezione nell'emisfero Sud), perdono circa 30 miliardi di dollari di entrate fiscali all'anno a causa del trasferimento dei profitti delle multinazionali del Nord. Questi importi esorbitanti per i Paesi poveri sono di estrema importanza in termini di politica climatica: corrispondono a sei volte (e saranno ancora meno nella realtà) le risorse finanziarie promesse dalla comunità internazionale nel quadro del Fondo verde per il clima (GCF) per l'adattamento al cambiamento climatico nei Paesi in via di sviluppo dal 2020 al 2023. E il GCF non include nemmeno i finanziamenti delle perdite e dei danni (“Loss&Damage”), cioè i risarcimenti per perdite e danni (ad esempio, terreni, infrastrutture o biodiversità) già causati dalla crisi climatica, in particolare dalle tempeste. Analogamente, per colmare questo deficit di finanziamento, una migliore mobilitazione delle risorse finanziarie nazionali (“domestic revenue mobilization”) è indispensabile per i Paesi in via di sviluppo.
Oggi, la fiscalità internazionale delle imprese va in senso del tutto opposto rispetto a tale obiettivo. La recente riforma fiscale non cambierà nulla. Lo dimostrano i casi di evasione fiscale resi pubblici di recente riguardanti imprese come Socfin (commercio di olio di palma e di gomma), Glencore (petrolio, rame, carbone e altre materie prime) e Nestlé (prodotti alimentari), in cui il nostro Paese a bassa tassazione gioca sistematicamente un ruolo centrale. Mentre lo studio pubblicato in ottobre da Pain pour le prochain (Pane per tutti), Netzwerk Steuergerechtigkeit Deutschland (Rete tedesca per la giustizia fiscale) e Alliance Sud rivela che Socfin paga la maggior parte delle sue tasse a Friburgo, in Svizzera (anche se una parte importante delle sue attività si svolge nelle piantagioni in Sierra Leone, Liberia e Cambogia e il valore aggiunto è quindi generato anche in questi Paesi), l'esempio di Nestlé in Marocco sottolinea la necessità urgente di un’amministrazione fiscale nazionale forte: a causa di calcoli poco chiari sui prezzi di trasferimento, l'azienda tradizionalmente considerata svizzera rischia di dover pagare tasse arretrate record di 110 milioni di dollari. Questo non sarebbe stato possibile senza il controllo minuzioso delle autorità fiscali - ma sono proprio queste risorse che mancano a molti Paesi in via di sviluppo.
Rimane da sperare che nelle prossime due settimane i protagonisti chiave della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Glasgow non siano troppo influenzati dai turisti VIP di Roma e che agiscano piuttosto che fare una gita di piacere. Le principali richieste dal punto di vista della politica mondiale sono sul tavolo delle negoziazioni: i Paesi ricchi devono mettere a disposizione 100 miliardi di dollari all'anno per combattere la crisi climatica, come hanno promesso dieci anni fa, e compensare i Paesi poveri per i danni che hanno subito (“Loss&Damage”).
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L’inno alla gioia dei Paesi ricchi
07.12.2021, Finanza e fiscalità
L'OCSE e il G20 hanno dato la loro benedizione all'introduzione di un'aliquota fiscale minima per le grandi multinazionali. Questa decisione ha portato a forti critiche in Africa, Asia e America Latina.

"Pecunia non olet" (il denaro non ha odore): al vertice del G20 a Roma a fine ottobre, i capi di stato e di governo si sono riuniti davanti alla Fontana di Trevi per lanciare una moneta in euro coniata apposita-mente per il vertice.
© Roberto Monaldo/Keystone/APA/laPresse
A metà ottobre, gli oltre 120 Paesi membri del quadro inclusivo sul BEPS dell’OCSE, e per finire anche i Paesi del G20, si sono accordati sull'introduzione di una nuova aliquota fiscale minima internazionale. Le ONG di Africa e Asia che si impegnano per la giustizia fiscale hanno criticato l’accordo trovato all’interno dell’OCSE definendolo un accordo fiscale dei ricchi e i Paesi del G24 - un’alleanza di governi africani e latino-americani di Paesi in via di sviluppo ed emergenti - hanno sottolineato come una perdita di autonomia fiscale nazionale andrebbe di pari passo con le nuove regole: i Paesi che desiderano mantenere le loro tasse digitali unilaterali, o introdurne di nuove, subiranno la pressione delle sanzioni imposte dall’OCSE. Così i Paesi del G77 (il gruppo dei Paesi in via di sviluppo delle Nazioni Unite) hanno presentato una risoluzione a favore di un organismo intergovernativo sotto l’egida delle Nazioni Unite che subentrerebbe all’OCSE nel ruolo di leader politico nel campo della politica fiscale internazionale - e garantirebbe così una rappresentanza molto migliore degli ex Stati coloniali del Sud.
Efficacia zero
Dal punto di vista dei Paesi del Sud, la riforma lascia a desiderare per due motivi principali. Primo: l’intera industria estrattiva e il settore finanziario sono esclusi dalla redistribuzione del substrato fiscale. In gran parte dipendenti dalle industrie estrattive, i Paesi poveri del Sud non avranno quindi diritti aggiuntivi per tassare i profitti di queste industrie. Inoltre, il Pilastro Uno (ridistribuzione dei profitti delle imprese dai Paesi ospitanti ai Paesi di mercato) si applica unicamente alle imprese con un fatturato annuo di 20 miliardi di dollari e un tasso di profitto superiore al 10%. A livello globale, solo un centinaio di aziende sono interessate; in Svizzera probabilmente solo i giganti Novartis, Roche, Nestlé e Schindler. I principali beneficiari di questa ridistribuzione sono i Paesi ricchi con grandi mercati interni come gli Stati Uniti o la Germania. In secondo luogo, l’aliquota fiscale minima del 15% prevista nel Pilastro Due è troppo bassa e può essere applicata solo dal Paese in cui ha sede la società interessata. E anche in questo caso, solo a condizione che questa impresa abbia un fatturato annuo di più di 750 milioni. Questa novità ha degli effetti drammatici per i Paesi in via di sviluppo, che, secondo un calcolo degli economisti Petr Janský e Miroslav Palanský (2019), perdono entrate fiscali di circa 30 miliardi di dollari all'anno a causa dei trasferimenti di profitti alle sedi delle multinazionali del Nord. Una migliore mobilitazione delle entrate fiscali nazionali - che anche la Svizzera definisce come uno degli obiettivi della sua cooperazione tecnica allo sviluppo - può avere successo solo se la fuga della base imponibile verso giurisdizioni a bassa imposizione viene fermata. Da quarant'anni, le multinazionali hanno sviluppato queste pratiche con l'aiuto benevolo degli Stati di domicilio del Nord. I pilastri della riforma oramai adottati dall'OCSE e dai Paesi del G20 non cambieranno questa situazione.
Nuovi casi di evasione fiscale in Svizzera
I casi di evasione fiscale recentemente resi pubblici in imprese come Socfin (commercio di olio di palma e di caucciù), Glencore (petrolio, rame, carbone e altre materie prime) e Nestlé (derrate alimentari), nei quali il nostro Paese a bassa tassazione gioca sistematicamente un ruolo centrale, dimostrano che le nuove regole dell’OCSE sono insufficienti. Mentre lo studio “Cultivating Fiscal Inequality”, appena pubblicato da Pane per tutti, Rete tedesca per la giustizia fiscale e Alliance Sud, rivela che Socfin paga la maggior parte delle sue tasse a Friburgo, in Svizzera, anche se una parte importante delle sue attività si svolge nelle piantagioni della Sierra Leone, della Liberia e della Cambogia e che il valore aggiunto è quindi generato anche in questi Paesi, l’esempio di Nestlé in Marocco sottolinea l’urgente bisogno di una forte amministrazione fiscale nazionale: a causa di calcoli opachi dei prezzi di trasferimento, l’azienda svizzera di tradizione rischia di dover pagare tasse arretrate record di 110 milioni di dollari. Questo non sarebbe stato possibile senza le autorità fiscali che hanno minuziosamente controllato l’impresa. Ma sono proprio queste risorse che mancano a molti Paesi in via di sviluppo. Un altro rapporto pubblicato alla fine di ottobre dall’ONG investigativa CICTAR (Centre for International Corporate Tax Accountability and Research) rivela un trasferimento di profitti del gruppo specializzato in materie prime Glencore, dall’Australia al cantone di Zugo, in relazione alle sue attività legate al carbone. Anche se la pratica non è direttamente collegata alla politica di sviluppo, lo studio mostra come Zugo, cantone dove ha sede Glencore, trae beneficio direttamente da una delle attività più dannose per il clima. Con il suo sistema di bassa tassazione delle imprese multinazionali, la Svizzera non solo si oppone a una trasformazione ecologica e giusta della società mondiale in termini economici. Lo fa anche direttamente sul piano politico.
La Svizzera come avvocato delle multinazionali
Nel quadro di un’alleanza con altre giurisdizioni a bassa imposizione come l’Irlanda, il Lussemburgo, i Paesi Bassi o l’Ungheria, la Svizzera difende sempre le riforme meno vincolanti possibili nei negoziati di politica fiscale all'OCSE. Ne è prova recente una lettera che il ministro delle finanze UDC, Ueli Maurer, ha inviato al nuovo segretario generale dell’OCSE, Mathias Cormann, in agosto per esigere delle deduzioni dell’imposizione minima a favore delle società di gruppi impegnate in attività di ricerca e sviluppo (come i giganti farmaceutici basilesi) e proporre una regola aggiuntiva secondo la quale le multinazionali potrebbero dedurre le tasse pagate sul CO2 dalle loro imposte sugli utili. Una proposta assurda!
Nella sua risposta, il signor Cormann giudica inverosimile la proposta di Ueli Maurer: “Le tasse sul CO2 sono tasse sugli input [le emissioni di CO2 sono tassate nella produzione, nota dell’autore] e non sugli utili [quindi i profitti delle imprese, idem] e quindi non si inseriscono nel quadro concettuale e nella concezione dei due pilastri”. È tanto più notevole in quanto il signor Maurer ha apparentemente avuto più successo con la sua prima richiesta finalizzata a nuove deduzioni fiscali minime per la farmaceutica. Nella “Handelszeitung”, il Dipartimento delle finanze ha annunciato con orgoglio ciò che segue come successo svizzero a Parigi dopo l’accordo dell’OCSE: permettendo alle imprese di richiedere deduzioni per i costi del personale e delle infrastrutture, il loro reddito imponibile è ridotto rispettivamente del 10% e dell’8% nei primi cinque anni dopo l’introduzione dell’imposizione minima (in seguito del 5% in ogni caso). I costi di queste deduzioni sono a carico del fisco svizzero. La Segreteria di Stato per le questioni finanziarie internazionali (SFI), responsabile presso il DFF, non rappresenta quindi né gli interessi di una comunità mondiale né gli interessi nazionali delle collettività pubbliche svizzere presso l'OCSE, ma semplicemente quelli delle imprese multinazionali con sede nel nostro Paese. Chiunque in Svizzera voglia impegnarsi per una politica fiscale globalmente più equa e per un cambiamento di paradigma nella bassa tassazione svizzera non può contare né sull’OCSE né sul Consiglio federale. Per raggiungere questo obiettivo, bisogna appellarsi alle forze politiche progressiste e alla società civile.
La Svizzera potrebbe migliorare la riforma dell’OCSE
La notizia incoraggiante in questo contesto è che relativamente poche modifiche tecniche potrebbero migliorare l’aliquota fiscale minima elaborata dall’OCSE in modo che anche i Paesi produttori poveri possano beneficiarne: mi riferisco all’aliquota fiscale minima effettiva per le multinazionali (“minimum effective tax rate for multinationals”, METR), sviluppata dalla società civile in cooperazione internazionale con economisti e avvocati fiscalisti e si basa essenzialmente su concetti tecnici analoghi a quelli dell’OCSE. In primo luogo, riorganizza la tassa minima in modo che possa essere attuata congiuntamente da singoli Paesi, o gruppi di Paesi, senza che sia necessario - a differenza dell’attuazione del Pilastro Due dell'OCSE - concludere un nuovo accordo multilaterale o modificare i trattati bilaterali in materia di doppia imposizione, il che è un altro punto debole del concetto dell’OCSE. In secondo luogo, il METR si applica anche ai Paesi di domicilio, vendita e produzione delle multinazionali. In un primo tempo, sono calcolati i profitti totali sottotassati all’interno di un gruppo. Questi ultimi sono definiti da un’aliquota fiscale minima, come nella proposta dell'OCSE. Tutto ciò che è inferiore a quest’aliquota è considerato come sottotassato. Mentre il Pilastro Due dell’OCSE prescrive un’aliquota fiscale minima del 15%, il METR partirebbe da un’aliquota del 25%, avvicinandosi così all’attuale media mondiale, che è appena inferiore.
In una seconda fase, questi profitti sottotassati sarebbero assegnati ai Paesi nei quali la creazione di valore di una multinazionale ha effettivamente luogo. Una formula garantirebbe questa attribuzione. Essa prende in considerazione a) il capitale (attivi fisici), b) il personale e c) i ricavi delle vendite di un’impresa multinazionale in un dato Paese.
In una terza tappa, i singoli Stati possono tassare autonomamente questi profitti localizzati, conformemente alla loro legislazione fiscale nazionale. Questo può garantire, almeno parzialmente, che i profitti di un’impresa multinazionale siano effettivamente tassati là dove un certo valore, da cui i profitti derivano, è prodotto (nei Paesi di produzione) o venduto (nei Paesi di mercato). Il quesito che si pone è se i Paesi che attuano le nuove regole dell’OCSE possono contemporaneamente introdurre un’aliquota fiscale minima superiore al tasso del 15% dell’OCSE. Si tratterebbe di un prerequisito per fare in modo che i Paesi in via di sviluppo le cui attuali aliquote d’imposta sugli utili sono generalmente superiori al 25% possano ugualmente beneficiare del METR.
Se la Svizzera fosse politicamente disposta a ripensare il suo modello economico di base nelle sue relazioni con le imprese multinazionali, sarebbe il Paese ideale per l'introduzione del sistema METR. Essendo un importante Stato ospite per le imprese multinazionali, dispone delle informazioni necessarie sulle loro pratiche commerciali, il che le permetterebbe anche di far progredire l’attuazione del METR in termini di politica fiscale. Inoltre, le sue possibilità di trovare dei Paesi partner per questo sistema sarebbero elevate, visto che la tassazione elvetica delle imprese multinazionali ha un’influenza significativa sulla situazione fiscale di molti Paesi che sono legati alla Svizzera attraverso le multinazionali corrispondenti. Se cercasse tali partner, per esempio, tra i Paesi del Sud dove le imprese svizzere estraggono le materie prime, o tra i Paesi emergenti che sono considerati sbocchi per le imprese di beni di consumo svizzere - come Nestlé o Procter&Gamble -, un’introduzione elvetica del sistema fiscale METR contribuirebbe in modo significativo a una politica di sviluppo svizzera efficace.
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La piazza finanziaria protegge gli amici di Putin
03.03.2022, Finanza e fiscalità
Con la guerra in Ucraina, la Svizzera ufficiale ha palesato le contraddizioni tra i principi della sua politica estera e i suoi interessi in materia di politica econo-mica estera. È finalmente giunto il momento di superarle.

Manifestazione per la pace a Berna il 26 febbraio 2022: la società civile fa pressione sul Consiglio federale affinché rafforzi le sanzioni contro la Russia.
© Marco Fähndrich / Alliance Sud
L'invasione russa in Ucraina ha portato alla luce le principali debolezze della politica estera elvetica. Come già avvenuto nei mesi precedenti, quando le tensioni tra Russia, Ucraina e NATO continuavano a crescere, il Consiglio federale ha recitato, durante la prima settimana di guerra, il ruolo che corrisponde all’immagine che la Svizzera ufficiale dà nel mondo in materia di politica estera. Si tratta in particolare dei principi di neutralità, di mediazione diplomatica tra le parti in conflitto ("buoni uffici") e dell’insistenza sul rispetto dei diritti umani e dei popoli. Il ministro degli Affari esteri e presidente della Confederazione Ignazio Cassis ha così proposto ai belligeranti un incontro a Ginevra per intavolare dei negoziati di pace. Nel frattempo il governo ucraino ha però preferito rivolgersi a Israele. E al tempo stesso, i belligeranti si parlano in Bielorussia, vicino alla frontiera ucraina. Il nostro Paese non ha nessun ruolo. È dunque lecito pensare che i buoni uffici della Svizzera interessino attualmente soprattutto la Svizzera.
Nell’impiccio tra UE/USA e la lobby della piazza finanziaria
Dunque, mentre la diplomazia svizzera lavorava per le persone presenti nelle tribune in queste ultime settimane e questi ultimi mesi, il Consiglio federale ha impiegato quattro lunghe giornate caotiche per aderire completamente alle sanzioni dell’Unione europea contro la Russia. Quattro giorni durante i quali i russi facoltosi, vicini al regime, hanno potuto riorganizzare le loro costruzioni transnazionali di società, investimenti e conti, nelle quali alcune banche svizzere e altri prestatori di servizi finanziari svolgono (o hanno svolto) un ruolo, in modo tale che non possano più essere colpite dalle sanzioni. Ad ogni modo, la NZZ riferisce come sia molto grande, vista dall’interno della piazza finanziaria, la frenesia negli affari russi. La maniera in cui le banche reagiscono alle sanzioni sembra essere una questione strategica: alcune puntano su un’applicazione estremamente restrittiva per ridurre al minimo i rischi giuridici, considerevoli in questo contesto; altre cercano invece di essere il meno trasparenti possibile, per rendersi ancor più attrattive agli occhi dei clienti russi. È ipotizzabile che la pressione politica sul Consiglio federale, esercitata dall’UE e dagli Stati Uniti affinché prendesse delle sanzioni, ha dovuto superare quella esercitata dai rappresentanti politici della piazza finanziaria per far sì che il nostro governo, a maggioranza di destra, si decidesse a prendere questa misura.
Non c’è però alcuna garanzia che le sanzioni finanziarie contro i ricchi russi siano davvero qualcosa in più di una politica simbolica. Le strutture offshore con le quali i ricchi del mondo intero gestiscono oggi il loro denaro sono transnazionali e così intrecciate l’una nell’altra che spesso risulta quasi impossibile, per le autorità, attribuire chiaramente dei fondi patrimoniali a delle persone precise. Il New York Times ha così riferito che Vladimir Putin, sanzionato dagli Stati Uniti e dalla Svizzera, era probabilmente il più ricco dei russi, ma che nessuno sapeva dove si trovava esattamente il suo denaro. Persino il presidente delle Confederazione Cassis ha dovuto ammettere, alcuni giorni fa, che non si sapeva se Putin avesse a disposizione dei conti in Svizzera. L'applicazione delle sanzioni si scontra qui con il modello commerciale tradizionale della piazza finanziaria svizzera, che si basa sulle camere oscure piuttosto che sulla trasparenza. Le banche e i consulenti finanziari continuano a proporre, in Svizzera, dei servizi che favoriscono l’evasione fiscale, il riciclaggio di denaro sporco, la corruzione e gli affari criminali. È ciò che hanno mostrato recentemente – come in precedenza numerose altre fughe di notizie – i "Suisse Secrets"; una vasta collezione di dati provenienti dall’amministrazione patrimoniale globale di Credit Suisse (CS), che è stata trasmessa alla Süddeutsche Zeitung da un whistleblower. Nessuno ha saputo dare una risposta precisa alla seguente domanda: a quanto ammontano le somme di denaro russo gestite dalle banche in Svizzera? La NZZ ha scritto tra i 50 e i 150 miliardi di franchi. Già solo quest’ampia differenza tra i due valori è rivelatrice dell’assenza di trasparenza della nostra piazza finanziaria. Queste stime non considerano in ogni caso i capitali dei russi domiciliati in Svizzera. La somma degli averi di questi residenti dovrebbe situarsi nello stesso ordine di grandezza di quella degli stranieri. Un domicilio in Svizzera è infatti molto interessante per i ricchi, anche in termini di gestione patrimoniale, poiché essi beneficiano della protezione ancora molto rigida del segreto bancario nazionale. La "Goldküste" zurighese, le stazioni alpine come Gstaad o St. Moritz, nonché le rive dei laghi di Zugo e di Ginevra sono la prova che i ricchi russi vivono volentieri in Svizzera, anche se magari solo parzialmente.
Una banca all’origine d’un nuovo scandalo
Da parte sua, CS non ha fatto solamente brutte figure sulla stampa di queste ultime settimane con i "Suisse Secrets". Il Financial Times ha rivelato ieri che la grande banca svizzera negli ultimi giorni aveva domandato a degli hedge fund e ad altri investitori, sotto l’effetto delle sanzioni, di distruggere dei documenti di alcuni clienti russi sanzionati. La banca aveva accordato loro dei crediti per i quali, a fungere da garanzia, c’erano yacht, beni immobiliari e altri "giocattoli" simili. Alla fine del 2021, la banca aveva "trasferito" una parte di questi rischi di credito ai relativi hedge fund. Si suppone che, con questa esortazione, CS abbia voluto aiutare i clienti russi a sfuggire alle sanzioni. Alla luce degli scandali che una delle principali banche svizzere ha prodotto quasi tutte le settimane in questi ultimi mesi, il principio di base della filosofia svizzera in materia di compliance, ossia l’autocontrollo delle banche sul rispetto del loro dovere di diligenza, sembra quasi uno scherzo.
La reazione estremamente esitante del Consiglio federale di fronte allo scoppio della guerra in Ucraina, e il simultaneo comportamento commerciale molto sleale di una delle due grandi banche elvetiche, nuocciono alla reputazione della Svizzera e minacciano così anche la credibilità della sua politica estera. La scorsa settimana, il ministro degli Affari esteri Cassis ha giustificato ancora la rinuncia iniziale del Consiglio federale ad applicare le sanzioni dell’UE e degli Stati Uniti, sostenendo che si voleva tener aperta la via del dialogo con Putin. Scuse simili non sono una novità ma, contrariamente al mito, costituiscono la funzione reale della neutralità svizzera: essa rappresenta, specialmente in caso di conflitto, soprattutto una possibilità di (continuare a) fare degli affari con tutte le parti, piuttosto che permettere alla diplomazia di svolgere un vero ruolo di mediatore tra le parti in guerra.
L'affermazione di quest’ultima è sempre stata, ed è sempre, più facile da giustificare politicamente. È ciò che è successo durante la Seconda Guerra mondiale con la Germania nazista oppure negli anni ’80 del secolo scorso con l’aggiramento delle sanzioni economiche negli scambi con il Sudafrica dell’apartheid. Considerando i nuovi e drammatici grandi conflitti nel mondo, la Svizzera non sembra più potersi permettere, fino a nuovo avviso, una strategia di politica estera così ambigua. Il fatto che la Svizzera, dopo aver inizialmente rifiutato le sanzioni americane ed europee, le abbia finalmente adottate (o abbia dovuto farlo), è in ogni caso un segnale.
È necessaria un’inversione della politica estera
Il Consiglio federale e il Parlamento farebbero quindi bene a cogliere l’occasione data dalle crisi attuali per invertire il rapporto tra la politica estera e la politica economica estera della Svizzera: i valori fondamentali della politica estera svizzera non dovrebbero più servire da foglia di fico morale per i difficili interessi economici esteri. La pratica di quest’ultima dovrebbe invece orientarsi sui principi della prima. D’altronde la Svizzera s’è impegnata in favore di tale coerenza politica quando ha promesso, nel 2015, con tutti gli Stati membri dell’ONU, di attuare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU, che sono quindi stati integrati nell’Agenda 2030. Quest’ultima si basa sul principio della coerenza politica per lo sviluppo sostenibile. In teoria, questo principio significa che nessun settore politico dovrebbe contraddire gli obiettivi d’un altro.
A medio termine, come primo passo efficace verso una politica fiscale e finanziaria svizzera, coerente dal punto di vista del diritto internazionale e dei diritti umani, la Berna federale potrebbe aumentare la trasparenza delle costruzioni offshore. Per questo, è necessario un registro pubblico che indichi i proprietari effettivi di un conto bancario o di una società di comodo. A breve termine, il Consiglio federale deve mettere in piedi una task force che riunisca tutte le istituzioni federali interessate (Dipartimento federale delle finanze (DFF), Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari (FINMA), Ministero pubblico della Confederazione (MPC), Ufficio di comunicazione in materia di riciclaggio di denaro (MROS)). Essa potrebbe permettere la messa in atto effettiva delle sanzioni, esaminando le strutture patrimoniali reali delle persone sanzionate e stabilendo così un legame tra i nomi e i patrimoni. Altri Paesi hanno già deciso di costituire una task force simile, in particolare la Germania e gli Stati Uniti.
Delle società più giuste, più ecologiche e più democratiche sono la miglior assicurazione contro i despoti brutali come Vladimir Putin. Una politica commerciale ed economica che favorisce l’equilibrio politico, distribuendo equamente le ricchezze, è a sua volta una condizione necessaria alla loro costruzione. La Svizzera, nel suo ruolo di centro finanziario e commerciale importante, dispone di leve efficaci su scala mondiale che le permettono di contribuire a degli sviluppi di questo tipo.
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Tonnage Tax, o come affondare le entrate fiscali
03.10.2022, Finanza e fiscalità
Ciò che il Consiglio federale e le lobby delle grandi imprese multinazionali (in seguito: IM) vendono come un’innocua promozione dell’industria navale elvetica, potrebbe diventare un’importante scappatoia fiscale per le IM svizzere di materie prime.

Die Rohstoffbranche profitiert von der Krise – und bald von tieferen Steuern in der Schweiz?
© Stefanie Probst
Per i fautori di una politica fiscale svizzera a bassa imposizione, i commercianti di materie prime sono stati un po’ trascurati in questi ultimi anni nel nostro Paese. Nell’ambito dell’ultima riforma dell’imposizione delle imprese del 2019 (riforma fiscale e finanziamento dell’AVS, RFFA), la Confederazione aveva abolito i vecchi privilegi fiscali per le holding e le società miste (le società svizzere potevano con ciò dichiarare al fisco i guadagni realizzati all’estero senza alcun costo), di cui le IM attive nel commercio di materie prime avevano ampiamente approfittato nel passato. Se da un lato la maggioranza borghese della Berna federale ha creato nuovi sconti speciali per le IM farmaceutiche o di beni di consumo (per compensare i vecchi privilegi), dall’altro il settore delle materie prime è rimasto a mani vuote. Ora questo vuoto verrebbe colmato dalla cosiddetta tassa sul tonnellaggio.
Certo, a prima vista si tratta solo di uno sgravio fiscale per gli armatori svizzeri, ma esistono stretti legami tra questi ultimi e i commercianti di materie prime, come sottolineato anche dal Consiglio federale nel suo messaggio riguardante la tassa sul tonnellaggio. Inoltre, già oggi vale quanto segue: se un commerciante di materie prime accorda alla sua società di navigazione all’interno del gruppo tariffe di trasporto eccessivamente rincarate — impossibili da scoprire nella pratica —, i guadagni in altre società dello stesso gruppo possono essere ridotti, evitando così di pagare delle imposte.
Il ritorno di un concetto già abolito
Durante l’ultima riforma dell’imposizione delle imprese, il Consiglio federale aveva ancora cancellato questa tassa dal menu, soprattutto a causa di dubbi costituzionali. Con la tassa sul tonnellaggio, le navi non devono più essere tassate in funzione dei guadagni che i loro gestori ne ricavano, bensì in funzione del volume del carico. In seguito, l’«utile netto» della navigazione così calcolato dev’essere considerato con gli ulteriori guadagni degli altri settori d’attività di una società. Siccome così alcune imprese devono essere tassate diversamente rispetto all’imposta ordinaria sugli utili, il Consiglio federale ha dubitato a quell’epoca della compatibilità con il principio costituzionale dell’imposizione secondo la capacità economica e ha quindi chiesto due pareri legali su questo soggetto. Pareri che, nel 2015, hanno dato esiti opposti: da una parte Robert Danon, di Losanna, è giunto a una conclusione negativa, mentre dall’altra Xavier Oberson, di Ginevra, ha confermato la compatibilità con la Costituzione.
Va peraltro detto che entrambi i professori di diritto beneficiano di mandati lucrativi presso studi legali commerciali che ottimizzano la fiscalità delle aziende. La grande differenza tra le due perizie è la seguente: contrariamente a Robert Danon, Xavier Oberson giudica che la navigazione marittima sia minacciata nella sua esistenza in Svizzera e quindi considera che, conformemente all’art. 103 della Costituzione federale, l’introduzione di questa imposta forfettaria è giustificata come misura di politica strutturale. L’asserzione è piuttosto bizzarra data l’enorme importanza della navigazione per l’economia mondiale e i suoi stretti legami con i commercianti di materie prime — che fanno parte delle più grandi e più redditizie imprese in Svizzera. All’epoca la faccenda era troppo scottante per il Consiglio federale, mentre oggi, a quanto pare, esso ha superato i suoi dubbi senza che qualcosa sia cambiato nella situazione costituzionale di partenza. Oltre ai dubbi in termini di costituzionalità, il progetto di legge cela anche due altri importanti problemi:
• Livello d’imposizione: sarebbe fortemente ridotto rispetto agli ordinari tassi d’imposizione sugli utili in tutti i cantoni svizzeri. Come dimostrato dai giuristi Mark Pieth e Kathrin Betz, nel loro nuovo libro sulle compagnie di navigazione in Svizzera, l’introduzione della tassa sul tonnellaggio si tradurrebbe in un tasso effettivo d’imposizione sugli utili pari mediamente al 7% circa. Questo tasso è nettamente inferiore all’11% accordato a Glencore e ad altre IM dall’hub di materie prime di Zugo, il cantone fiscalmente più vantaggioso. Il Consiglio federale intende inoltre autorizzare delle riduzioni fiscali supplementari, tanto più elevate quanto i sistemi di propulsione delle navi sono più rispettosi dell’ambiente. Se viene accordata la tassazione massima del 20%, l’imposizione media può abbassarsi fino a 5,6 punti percentuali. È particolarmente scioccante che il Consiglio federale voglia escludere gli utili imposti dalla tassa sul tonnellaggio dalla nuova imposizione minima dell’OCSE, che deve garantire che le IM siano tassate almeno al 15% in Svizzera. L’introduzione della tassa sul tonnellaggio aggira quindi gli sforzi internazionali volti a frenare la corsa verso il basso delle imposte sulle imprese, in ogni caso già basse.
• Assenza di standard ambientali e sociali sulle navi: il Consiglio federale e, finora, anche la Commissione dell’economia del Consiglio nazionale (che probabilmente non delibererà prima di metà novembre) non vogliono legare il nuovo privilegio fiscale a un cosiddetto requisito di bandiera. Un tale obbligo significherebbe che le compagnie marittime potrebbero approfittare della tassa sul tonnellaggio solo per le navi battenti bandiera svizzera o di un Paese dell’area SEE (nazioni dell’UE, più Islanda, Norvegia e Liechtenstein). Ciò inciterebbe gli armatori a non delocalizzare le proprie navi verso i cosiddetti Paesi di bandiera di convenienza, che servono all’industria navale come zone quasi prive di leggi, nelle quali devono a malapena rispettare le prescrizioni statali per le loro attività. Per le navi battenti bandiera svizzera, il nostro Paese potrebbe obbligare gli armatori a rispettare standard ambientali e lavorativi migliori. Secondo Mark Pieth e Kathrin Betz, la tassa sul tonnellaggio avrebbe comunque dei vantaggi indiretti, malgrado i problemi che solleva. Secondo loro, gli armatori che dovessero immatricolare almeno il 60% della loro flotta nello spazio SEE o in Svizzera dovrebbero sottostare, in alcune circostanze, alle regole dell’UE contro la demolizione selvaggia nell’Asia del Sud. Tuttavia il dibattito sulla responsabilità delle imprese in Svizzera dimostra pure che la volontà di applicare norme più severe nell’ambito dell’economia e dei diritti umani è estremamente debole in seno alla maggioranza borghese della Berna federale.
Discutibile sul piano costituzionale, elusiva dell’imposta minima dell’OCSE e priva di standard ambientali e sociali: nella versione trattata attualmente dalla Commissione dell’economia del Consiglio nazionale, l’introduzione della tassa sul tonnellaggio farebbe onore alla reputazione ambigua della Svizzera come paradiso fiscale per le IM. Inoltre, ad approfittarne sarebbero proprio le IM per le quali la guerra e la crisi energetica generano utili record: basata a Baar nel canton Zugo, Glencore (il secondo più grande commerciante di petrolio al mondo, dopo Vitol, pure con sede in Svizzera) ha così realizzato un guadagno record di 12 miliardi di dollari nel primo semestre 2022. Invece di dare a questi profittatori della guerra occasioni supplementari di dumping fiscale, il Consiglio nazionale e il Consiglio degli Stati dovrebbero gravare questi profitti legati alla guerra con un’imposta sui guadagni in eccesso e investirli nella lotta contro le molteplici crisi che scuotono il pianeta.
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Un «taglio di capelli» per le multinazionali
23.03.2023, Finanza e fiscalità
Secondo il programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), almeno 54 nazioni del Sud globale devono far fronte a gravi problemi d’indebitamento.

© Silke Kaiser / pixelio.de
La maggior parte di esse si trova nell’Africa subsahariana (24 nazioni); seguono l’America latina e i Caraibi (10 nazioni). Oltre la metà delle persone che vive in estrema povertà risiede in questi Paesi. 28 di essi fanno parte dei 50 Paesi maggiormente minacciati dal cambiamento climatico sul nostro pianeta. L’UNDP esige un «Haircut» («taglio di capelli»): in altre parole, una riduzione del debito pari al 30%.
Le voci ammonitrici non mancano. Di recente, un commentatore del Financial Times ha scritto che si profila all’orizzonte un «decennio perso». Con ciò si riferisce alla crisi del debito che colpì l’America latina negli anni ’80 del secolo scorso, con le relative drammatiche conseguenze per le persone coinvolte. Certo, gli aumenti dei tassi d’interesse al Nord provocano dei deflussi di capitale al Sud, come fu il caso in quel periodo, ma ora c’è una notevole differenza. Invece di essere le banche a concedere prestiti direttamente agli Stati, come avveniva a quell’epoca, adesso sono i fondi d’investimento come BlackRock a investire il denaro dei fondi di pensione e degli investitori privati nelle obbligazioni di Stato delle nazioni del Sud globale.
Inoltre, è entrata in scena la Cina. Questa potenza mondiale detiene la stessa quantità di debiti di tutti gli altri Paesi creditori messi assieme (circa il 10%). Tuttavia, ciò rappresenta meno di un quarto dei debiti verso i creditori privati (il resto è detenuto da istituzioni multilaterali come la Banca Mondiale). Durante i negoziati, tutti hanno quindi giocato a scaricabarile. L’Occidente deplora la mancanza di cooperazione della Cina che, da parte sua, punta il dito sul fatto che i creditori privati non siano pronti a ridurre il loro debito e che gli attori multilaterali godano di uno statuto privilegiato, e quindi non partecipano nemmeno loro.
Ma quale ruolo gioca la Svizzera in questo contesto? Non lo sappiamo. Non c’è alcuna trasparenza sul ruolo degli investitori elvetici nel Sud globale. L’unica cosa certa è che – accanto alla Cina – un altro attore è entrato in gioco: i commercianti svizzeri di materie prime. Ma, anche qui, regna spesso una certa opacità. Il Fondo Monetario Internazionale ha così rivelato che il Ciad avrebbe un debito di oltre un miliardo di dollari verso Glencore – ossia più di un terzo di tutti i debiti del Paese. La multinazionale, con sede nel canton Zugo e attiva nel settore delle materie prime, che da poco ha triplicato l’utile annuale grazie ai suoi profitti di guerra, si è fermamente rifiutata di ridurre il debito. La Svizzera ha quindi la responsabilità di agire con trasparenza e deve far in modo che le sue grandi imprese multinazionali vadano dal parrucchiere e accettino un «taglio di capelli».
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Articolo, Global
Un cucù troppo grande per il nido svizzero?
27.06.2023,
La prossima crisi finanziaria è altrettanto prevedibile quanto le colonne al tunnel del San Gottardo. Ma nessuno sa esattamente quando avverrà e quale attore dell’enorme e molto complesso sistema finanziario la provocherà.

Nel corso degli ultimi 200 anni, c’è stato un solo periodo senza una grande crisi finanziaria, più precisamente dal 1945 al 1973. Per quale motivo? Durante i «trenta gloriosi», il periodo di boom economico del secondo dopoguerra, le banche, ma anche l’importazione e l’esportazione di capitali, erano fortemente regolamentate. Inoltre, le valute non erano liberamente convertibili. Era anche l’epoca in cui i fallimenti bancari erano rari.
Ma da dove viene la previsione secondo cui la crisi attuale, dopo il crollo di Credit Suisse nelle braccia di UBS, non sarebbe terminata nemmeno in Europa? Dalla storia, che ci ricorda come i forti aumenti dei tassi d’interesse negli Stati Uniti hanno già preceduto numerose grandi crisi finanziarie.
I tassi d’interesse più alti delle banche centrali spostano l’intera struttura dei prezzi nei mercati finanziari. Le obbligazioni di Stato emesse quando i tassi d’interesse sono bassi, ad esempio, si rivelano poco redditizi visto il tasso d’interesse basso che prevale durante tutta la loro durata di vita – talvolta diversi decenni. Per contro, le nuove obbligazioni emesse hanno un tasso d’interesse più elevato, ciò che fa abbassare il corso delle obbligazioni a basso tasso d’interesse, e quindi il loro valore. Le società finanziarie che devono valutare le vecchie obbligazioni nei loro conti al corso attuale, o addirittura venderle, sono confrontate a un problema.
Bolle e «zombi»
L’aumento dei tassi d’interesse è anche sinonimo di pericolo, visto che in questi ultimi anni era molto vantaggioso indebitarsi. Di conseguenza il mercato finanziario si è gonfiato. Dalla grande crisi finanziaria del 2008, il volume degli investimenti finanziari mondiali è più che raddoppiato fino al 2021, mentre il prodotto interno lordo (PIL) mondiale è aumentato solo di un terzo nello stesso periodo. Oggi il mercato finanziario è quindi oltre cinque volte e mezzo più voluminoso di tutti i beni e servizi prodotti nel mondo (ossia il PIL del pianeta).
I tassi d’interesse bassi hanno permesso di «far leva» sulle rendite. Semplificando grossolanamente, si può spiegare il tutto così: un hedge fund (un fondo speculativo non regolamentato, rivolto soprattutto a una clientela molto ricca) ha una possibilità di investimento che rende il 5%. Investe 100 milioni e realizza un utile 5 milioni, che però è ampiamente insufficiente. Dunque si fa prestare dalle banche 1 000 milioni al 2% d’interesse per investirli di nuovo con una rendita del 5 %. Con la differenza d’interesse del 3%, realizza un utile supplementare di 30 milioni. La rendita totale è ormai salita a 35 milioni al posto di 5 (deve pagare 20 milioni d’interessi alla banca, ma guadagna al tempo stesso 50 milioni con il credito reinvestito: la differenza è dunque di 30 a suo favore). E questo, semplificando ancora una volta, è il motivo per cui i patrimoni più importanti hanno conosciuto una crescita eccezionale negli ultimi anni.
Ma i tassi d’interesse bassi permettono anche di mantenere in vita dei modelli commerciali o delle imprese che, in circostanze «normali», sarebbero falliti. Anche la Banca centrale americana chiama queste imprese, che in realtà non sono più redditizie, delle imprese «zombi». A fine marzo, con l’abituale linguaggio ovattato delle istituzioni specializzate, la Banca d’Inghilterra ha avvertito che le obbligazioni societarie più rischiose sono «particolarmente vulnerabili» agli aumenti dei tassi d’interesse e «i rischi geopolitici accresciuti rafforzano la probabilità che vengano a delinearsi delle vulnerabilità finanziarie».
Attualmente è considerato come particolarmente sensibile alla crisi anche il Commercial Real Estate (CRE), cioè gli immobili commerciali, soprattutto negli Stati Uniti. Oltre al fatto che si è costruito troppo generosamente con del denaro a buon mercato, va aggiunta anche l’incertezza legata agli immobili adibiti a uffici: ci si chiede infatti se saranno ancora tutti necessari nell’era del telelavoro.
Non c’è dubbio che qualche impresa e alcuni fondi immobiliari falliranno, ma… «who cares»? Se le autorità di regolamentazione e le autorità di mercato s’interessano a questa questione, ciò è dovuto ai meccanismi ben conosciuti della crisi finanziaria mondiale del 2008. In effetti, i debiti dell’immobiliare commerciale non sono semplicemente depositati presso una qualsiasi banca regionale americana (alcune delle quali già barcollano pericolosamente o stanno praticamente fallendo), ma sono pure stati mescolati e legati in prodotti derivati o, detto in altre parole, in attività finanziarie di secondo ordine che fungono da valore di base. Questi attivi sono stati in seguito frazionati in «parti di rischio» e poi rivenduti.
È quindi impossibile sapere chiaramente chi è seduto su dei crediti inesigibili e quali istituti finanziari hanno prestato del denaro agli attori che hanno accettato dei crediti potenzialmente inesigibili. Il miglior modo per immaginarsi la situazione è di far ricorso all’analogia della salsiccia: se uno degli ingredienti fosse della carne avariata, sarebbe impossibile vedere se ogni fetta è toccata dal problema. Dunque si tralascia l’intera salsiccia. Durante l’ultima crisi finanziaria mondiale del 2007/2008, le ipoteche private hanno avuto un effetto domino simile. In fin dei conti la sfiducia sui mercati finanziari era tale che le banche non si prestavano più denaro. Un’evoluzione simile potrebbe riprodursi anche oggi.
Banche ombra o NBFI
Dal 2008, il ruolo delle banche ombra (dette anche fantasma o parallele) è aumentato in maniera sproporzionata e oggi, secondo il Consiglio di stabilità finanziaria, esse rappresentano più della metà del sistema finanziario mondiale. Sotto questo termine sono inclusi i fondi speculativi, le società di capitale-investimento (private equity) e gli investitori istituzionali che in parte fanno le stesse cose delle banche, ma che non sono regolamentati e sorvegliati come loro. Essi rimangono quindi all’ombra e sono generalmente domiciliati nei paradisi fiscali. Per mostrarsi rassicuranti, le autorità di regolamentazione non parlano più di sistema bancario parallelo, ma d’istituti finanziari non bancari (non-banking financial institutions, NBFI). Gli NBFI sono però poco trasparenti e piuttosto incomprensibili: gli hedge fund, ad esempio, speculano con denaro proprio e con molto denaro preso in prestito su tutto ciò che si muove e che promette un qualsiasi tipo di rendita — dalla caduta del corso delle azioni ai fallimenti societari, passando per la meteo (sì, avete letto bene, esistono dei prodotti derivati sulla meteo). I fondi di capitale-investimento investono il loro denaro in società a rischio e finanziano le acquisizioni d’imprese. Le banche ombra includono anche le società di finanziamento e d’investimento come Blackrock, i fondi indicizzati, i fondi del mercato monetario o i family offices dei super ricchi. Anche le casse pensioni e i gruppi assicurativi ricorrono al settore bancario «nascosto».
Ma ciò non significa che, da un lato le banche ombra, e dall’altro gli istituti bancari che tutti conosciamo, operano fianco a fianco. In realtà, i due sono molto intricati tramite debiti e investimenti. E numerosi attori dell’ombra, ad esempio alcuni fondi speculativi, sono particolarmente indebitati. Per questo motivo il sistema bancario parallelo è considerato come il principale candidato alla caduta della prima tessera del domino.
Ma cosa significa questo per la Svizzera? Secondo l’autorità di vigilanza sui mercati finanziari (Finma), la nuova UBS detiene ormai 35 000 miliardi di franchi di prodotti derivati e strutturati. Martin Wolf, capo commentatore economico del Financial Times e autore di un’opera di riferimento sulla crisi finanziaria mondiale, su questo tema ha confidato alla NZZ am Sonntag che è estremamente improbabile che il management comprenda i rischi ai quali è esposta la propria banca, indipendentemente da ciò che esso dice. Sempre secondo Wolf, la questione è anche davvero complessa: esistono delle pretese nei confronti di così tante controparti di cui si ignorano molte cose (...). La sua conclusione: «Se fossi svizzero, mi direi che questo nuovo cucù, l’UBS, è forse un po’ troppo grande per il nostro nido».
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La misteriosa ascesa del finanziamento svizzero
06.12.2022, Giustizia climatica
Tra il 2011 e il 2020, il contributo annuale della Svizzera per la protezione del clima nei Paesi in via di sviluppo ed emergenti è più che triplicato. Troppo bello per essere vero?

Le devastanti inondazioni in Pakistan sono solo un esempio tra i tanti: ogni anno gli effetti del riscaldamento climatico sono più marcati e visibili. Le nazioni più povere e i gruppi di popolazione più vulnerabili sono spesso quelli più duramente toccati. Fanno fatica ad adattarsi ai cambiamenti climatici, sia per proteggere le loro coste dalle tempeste e dalle inondazioni, sia per adattare la loro agricoltura alle ondate di calore e alla siccità. Al tempo stesso, per limitare il riscaldamento del pianeta a 1,5°C è necessaria la neutralità climatica in tutti i Paesi. Da qualsiasi punto di vista lo si guardi, il cambiamento climatico resta una sfida mondiale.
Il Nord del mondo è responsabile della crisi climatica, ma non solo: ha infatti a disposizione anche la maggior parte delle risorse finanziarie, sia per la lotta contro il cambiamento climatico («mitigazione»), sia per l’adattamento a quest’ultimo. Già nel 2010, la comunità internazionale aveva deciso che i Paesi industrializzati dovevano mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo ed emergenti 100 miliardi di dollari all’anno, a partire dal 2020, affinché questi Paesi potessero finanziare lo sviluppo della loro società «zero netto», come pure l’adattamento necessario ai cambiamenti climatici. Secondo la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, deve trattarsi di risorse finanziarie nuove e addizionali. Ma la volontà politica non è bastata per ottenere una spartizione vincolante della fattura tra gli Stati responsabili. Non è quindi sorprendente che l’obiettivo globale non sia stato raggiunto nel 2020. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), è stato raccolto un importo di 83,3 miliardi di dollari — calcolato ottimisticamente con le cifre ufficiali degli Stati donatori; il 71% dei fondi è però stato dato in prestito e dovrà quindi essere rimborsato. Ciò contribuisce all’indebitamento delle nazioni beneficiarie.
Il Consiglio federale, facendo un mix tra il principio del «chi consuma paga» e la nostra prosperità, calcola che la Svizzera deve contribuire con una somma tra i 450 e i 600 milioni di dollari all’obiettivo di finanziamento planetario. Una somma troppo bassa. Considerando le emissioni della Svizzera all’estero, la parte equa ammonterebbe infatti a 1 miliardo . Il Consiglio federale indica pure da dove dovrebbe provenire la maggior parte dei fondi: dall’attuale budget della cooperazione internazionale. Nel corso degli anni, quest’ultimo non è aumentato di più rispetto al budget generale della Confederazione. Si tratta di denaro che al tempo stesso deve servire per adempiere gli obiettivi internazionali in materia d’aiuto pubblico allo sviluppo (dove invece la Svizzera non è sulla buona strada). Insomma, il nostro Paese fa figurare gli importi due volte, ma li paga una sola volta.
In quest’ottica, la Svizzera comincia a mettere sempre di più l’accento sul clima nell’ambito della cooperazione allo sviluppo e attribuisce sempre più progetti al finanziamento climatico. Ciò spiega il raddoppiamento del contributo della Svizzera ai progetti climatici bilaterali dal 2011 al 2020. Responsabili di questi ultimi, la Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) e la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) hanno ovviamente il diritto di considerare maggiormente il cambiamento climatico nei loro progetti. Tuttavia non è chiaro se tutti i progetti siano davvero concepiti in modo da tener conto del clima oppure se essi vengano classificati come tali solo a posteriori. Comunque sia, sono sempre contabilizzati due volte con la cooperazione allo sviluppo.
Un secondo motivo del forte aumento del finanziamento climatico dichiarato risiede nei contributi della Svizzera a istituzioni multilaterali, come il Fondo verde per il clima (FVC), nonché a istituzioni dalle tematiche allargate, come le banche di sviluppo. I fondi climatici sono stati appositamente creati per l’attuazione della Convenzione sul clima. Il contributo svizzero a questi fondi è giustamente in aumento, ma nel 2020 rappresentava solo un terzo del finanziamento climatico multilaterale della Svizzera. Gli altri due terzi vengono investiti tramite delle banche di sviluppo, Banca mondiale in primis. Ora, osserviamo qui un fenomeno simile a quello della cooperazione bilaterale allo sviluppo: vengono contabilizzati nel finanziamento climatico sempre più progetti, che già precedentemente figuravano nel portafoglio. Con nuovi metodi d’imputazione per i contributi multilaterali, il finanziamento climatico elvetico prende improvvisamente l’ascensore, a più riprese, nel corso degli anni.
Così, per il 2020, il nostro Paese comunica all'ONU il suo contributo pari a 411 milioni di dollari di fondi pubblici per il finanziamento climatico, ai quali si aggiungono 106 milioni di dollari di fondi privati «mobilitati» grazie a dei fondi pubblici (ad esempio mediante finanziamenti incentivanti o garanzie per degli investimenti privati ad alto rischio). Il Consiglio federale non trova nulla da ridire. Le risorse nuove e addizionali per il finanziamento climatico, che non sono state «rubate» al budget dello sviluppo, rappresentano tuttavia solo una frazione minima, sotto forma di modesti contributi ai fondi climatici multilaterali — ossia 68 milioni di dollari. A volte vale la pena analizzare i conti della Confederazione.
Finanziamento in ambito climatico
Nella politica climatica internazionale, il finanziamento climatico significa il sostegno finanziario a dei Paesi in via di sviluppo ed emergenti in campo climatico. I Paesi più poveri sono quelli meno responsabili della crisi climatica e sono loro ad avere meno risorse finanziarie per lottare contro i mutamenti climatici e per adattarsi a questi cambiamenti. Il finanziamento in ambito climatico è però solo un aspetto della giustizia climatica. La riduzione delle emissioni di CO2 nel Nord globale, Svizzera inclusa, è altrettanto cruciale per il Sud globale.
Per saperne di più, leggete la scheda informativa di Alliance Sud (in francese).
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Dopo Magufuli, cosa ne sarà dei diritti umani?
19.03.2021, Cooperazione internazionale
Il presidente della Tanzania John Magufuli è morto il 17 marzo, ufficialmente a causa di «problemi cardiaci». A prendere il suo posto sarà una donna, la prima nella storia del Paese.

«La città di Arusha vi dà il benvenuto nella Ginevra dell’Africa.» proclama un cartello nel minuscolo aeroporto della seconda città più grande della Tanzania. Nonostante i turisti ci si accalchino per fare safari nei parchi nazionali o scalare le pendici del Kilimangiaro (la montagna più alta dell’Africa), sono le sedi del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (che ha condotto i suoi lavori dal 1994 al 2015) e della Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli ad averle conferito il soprannome elvetico.
Una corte che del resto nessuno sembra conoscere… Eppure, con il 40% delle sentenze che la riguardano, la Tanzania è il Paese africano più spesso condannato da questa giurisdizione che gli abitanti di Arusha rischiano di conoscere ancora meno dopo che a dicembre del 2019 la Tanzania ha revocato alle singole persone e alle ONG il diritto di sporgere denuncia contro il governo.
Questa decisione era stata presa dal presidente John Magufuli, al potere dal 2015 e deceduto il 17 marzo ufficialmente a causa di «problemi cardiaci». Spiegazione fornita dalla vicepresidente, Samia Suluhu Hassan, che non convincerà i sostenitori della «Schadenfreude» [la gioia per le disgrazie altrui]: Magufuli si era contraddistinto in tutto il mondo per aver negato l’esistenza del Covid nel suo Paese, almeno fino allo scorso 21 febbraio, sollecitando i suoi compatrioti a combattere il virus con preghiere e piante medicinali. Rimedi che forse avevano salvato la Tanzania dalla prima ondata ma non dall’arrivo in massa dei turisti dopo le feste di fine anno.
Amnesty International e Human Rights Watch hanno ripetutamente espresso la propria preoccupazione circa la deriva autoritaria del regime di John Magufuli e la crescente repressione dei difensori dei diritti umani, delle ONG, dei giornalisti e degli oppositori. In questi ultimi mesi, soprattutto tra la popolazione si provava paura nel parlare del Coronavirus che, ufficialmente, non esisteva. Negli ultimi giorni almeno tre persone sono state arrestate per aver affermato sui social che John Magufuli era morto.
Notizia tuttavia confermata ieri sera dalla vicepresidente, Samia Suluhu Hassan, che diventerà la prima donna alla guida del Paese. Avrà l’arduo compito di portare avanti la lotta alla corruzione avviata dal suo predecessore pur garantendo la libertà di espressione e di associazione. Resta anche da vedere se la nuova presidente cambierà rotta nella gestione della pandemia per essere più in linea con le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
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