Intervista

Compiere progressi solidi negli Stati fragili

03.10.2023, Cooperazione internazionale

La fragilità dello Stato è uno dei maggiori ostacoli a una lotta efficace e sostenibile contro la povertà. Alliance Sud ha discusso le opportunità e i limiti della cooperazione internazionale (CI) in contesti fragili con Christoph Zürcher, professore di relazioni internazionali all’Università di Ottawa.

Laura Ebneter
Laura Ebneter

Esperta in cooperazione internazionale

Marco Fähndrich
Marco Fähndrich

Responsabile della comunicazione e dei media

Compiere progressi solidi negli Stati fragili

Christoph Zürcher è professore presso la Graduate School of Public and International Affairs dell’Università di Ottawa, Canada. Politologo, svolge attività di ricerca e insegnamento negli ambiti promozione della pace, relazioni internazionali e cooperazione internazionale, con focalizzazione regionale sull’ex Unione Sovietica, in particolare sulla Russia, sul Caucaso e sull’Asia centrale. Nel suo ultimo lavoro di ricerca si è concentrato principalmente sulla misurazione dell’efficacia della cooperazione internazionale in contesti fragili.

© Daniel Rihs

Signor Zürcher, cosa significa vivere in un contesto fragile?
Quando sono stato in Afghanistan nel 2017 per la mia ricerca, la mia vita in quanto straniero era in netto contrasto con la realtà di vita della popolazione. Venivo portato in giro in un SUV blindato, non avevo praticamente accesso alla popolazione locale e, nel migliore dei casi, dialogavo con il mondo politico. La vita quotidiana della gente del posto è segnata da povertà, violenza, paura dell’arbitrio e corruzione. Pertanto, l’orizzonte temporale è a breve termine e le possibilità di pianificazione delle persone sono molto limitate. La domanda su cosa coltivare in campo la stagione successiva o se i bambini debbano andare a scuola difficilmente può trovare risposta in contesti fragili a causa dell’incertezza generale.

Qualche mese fa, ha condotto uno studio sull’efficacia della cooperazione internazionale negli Stati fragili. Cosa l’ha sorpresa maggiormente?
La constatazione principale che la cooperazione internazionale non è riuscita a trasformare i Paesi fragili non mi ha sorpreso. Coincide con i risultati di numerosi altri studi. Per contro, la reazione ai risultati dello studio, che nel frattempo ho presentato più volte, continua a sorprendermi. Ogni volta che presento lo studio, ci sono persone in sala che contestano le evidenze e segnalano singoli progetti che invece hanno avuto successo. È comprensibile, perché i nostri risultati mettono in discussione l’idea stessa dell’efficacia dei loro anni di lavoro. Ma l’immunità di fronte all’evidenza è sorprendentemente alta.

Lei critica il fatto che la cooperazione internazionale non sia riuscita a trasformare i Paesi fragili. Questo “fallimento” non è dovuto semplicemente all’obiettivo troppo ambizioso?
L’idea che si possa trasformare un Paese come l’Afghanistan in una Danimarca con strumenti di cooperazione internazionale è ingenua. Il problema principale è che, dopo 20 anni di lavoro in Afghanistan, lo sapevamo e abbiamo continuato comunque come prima. Mi auguro che si discuta onestamente di ciò che la cooperazione internazionale può o non può ottenere e in quali contesti. Ci è consentito commettere errori, ma dobbiamo anche trarne le dovute conclusioni.

E cosa ha da dire il mondo scientifico al riguardo?
Il nostro studio ha dimostrato che gli investimenti nell’istruzione, nella sanità e nello sviluppo rurale, come il sostegno a favore delle strutture agricole, hanno un certo successo e sono apprezzati dalla popolazione locale. Tuttavia, è stato anche dimostrato che i progressi compiuti possono essere vanificati in breve tempo a causa della situazione politica, economica e sociale. Ma questo non significa che non si debba fornire alcun sostegno.

Lei esige una discussione onesta su nuove strategie in contesti fragili, a partire dal riconoscimento che la cooperazione allo sviluppo non è uno strumento efficace per stabilizzare uno Stato fragile. Quali sono, invece, gli strumenti efficaci?
In sostanza, si tratta di capire quali strumenti funzionano in un determinato contesto e quali no. Credo sia moralmente accettabile decidere di non avviare progetti di democratizzazione e buon governo in contesti fragili, bensì di investire risorse nell’aiuto umanitario e nella promozione della resilienza. I progetti orientati alle persone che non mirano alla grande trasformazione del Paese risultano efficaci.

È riuscito a individuare differenze tra i vari Paesi donatori?
Questo non era l’oggetto del nostro studio. Ma la mia ipotesi è che i Paesi donatori più piccoli e neutrali perseguano meno interessi politici con la loro CI e siano anche più umili. In contesti fragili, ad esempio, la Svizzera mira ad alleviare le difficoltà e le sofferenze umane, a rafforzare la resilienza, a proteggere i diritti umani e a promuovere la pace. Credo che sia realistico mirare a ottenere tali obiettivi con la cooperazione internazionale. Per contro, la stabilizzazione di un Paese è un processo politico e non può essere realizzata con la sola CI classica.

Negli Stati fragili, quale importanza riveste per la CI la cooperazione diretta con la società civile?
La cooperazione diretta con il governo è spesso inopportuna o inefficace negli Stati fragili. È per questo che la cooperazione con le organizzazioni della società civile locale e soprattutto con le comunità locali può essere particolarmente rilevante. Anche se questi programmi portano raramente a una maggiore sicurezza o legittimità del governo, spesso contribuiscono a migliorare le condizioni di vita in questi contesti difficili.

Si sente di frequente la critica secondo la quale i fondi per lo sviluppo non fanno altro che sostenere i regimi negli Stati autoritari e a mantenerli al potere più a lungo. Vi sono evidenze scientifiche in merito?
In questa critica, è essenziale distinguere quale CI viene prestata. Naturalmente, nel caso dell’aiuto budgetario diretto, questa critica è giustificata. Tuttavia, molti Paesi donatori si astengono dal fornire aiuti budgetari nei Paesi autoritari e fragili. In altri ambiti, il nesso non è osservabile. Non vedo alcuna evidenza che i regimi autoritari siano sostenuti dall’aiuto umanitario e dai progetti di resilienza. Non esiste un nesso provato tra la stabilità del regime e il numero di persone che muoiono di fame. E anche se ci fosse un nesso, l’imperativo morale sarebbe quello di aiutare le persone.

In Paesi come l’Afghanistan, dove la situazione umanitaria attualmente è catastrofica, sempre più organizzazioni si stanno ritirando. Supponiamo che possa progettare nel Paese il programma nazionale di un’agenzia di sviluppo: come investirebbe il denaro per ottenere la massima efficacia?
Di principio, affronterei la questione con molta umiltà, orientandomi alla popolazione del Paese e pianificando programmi su base locale. Punterei sugli investimenti in progetti infrastrutturali minori, sullo sviluppo della resilienza, sull’aiuto umanitario, sui progetti sanitari ed educativi nonché sulla promozione dell’informazione e dei media. Metterei in chiaro fin dall’inizio che ho intenzione di essere presente a lungo termine e realizzerei i progetti in modo partecipativo. Sarebbe una CI a lungo termine, tenace, che agisce in piccoli contesti, orientata alle persone e senza aspirazioni di trasformazione. Inoltre, di tanto in tanto è necessario valutare se i progetti e i programmi sono ancora adatti alle condizioni quadro o se, ad esempio, si può cooperare maggiormente con il governo rispetto a prima. I partenariati a lungo termine e la flessibilità nell’attuazione dovrebbero costituire i punti cardine della CI.

L’efficacia della cooperazione internazionale non viene già sufficientemente misurata?
Di norma, i progetti di cooperazione internazionale vengono valutati regolarmente. Ma il potenziale della misurazione dell’efficacia, cioè la valutazione dei risultati che i progetti e i programmi hanno raggiunto anche al di fuori dei loro obiettivi, è tutt’altro che sfruttato al massimo. In quest’ottica occorre ampliare la cooperazione con la comunità scientifica.

Ci sono ambiti della cooperazione internazionale per cui l’efficacia è difficile da misurare?
Sì, ci sono. Questi includono, ad esempio, progetti di promozione dei media e di capacity building. In tali progetti si investe molto denaro, ma l’efficacia è difficile da misurare. Non è un caso che i progetti di salute e nutrizione producano risultati chiari, perché sono facili da misurare. Al contrario è difficile, ad esempio, misurare l’efficacia di due anni di formazione per i dipendenti pubblici afghani del ministero delle Finanze, ma ciò non significa che non possa essere efficace.

Esistono soglie oltre le quali non ha più senso concentrarsi sulla misurazione dell’efficacia?
No, non credo. In ogni contesto e in ogni progetto ha senso sapere cosa funziona e cosa no.

Che aspetto avrebbe una CI basata solo su studi di efficacia e prove scientifiche?
Questi aspetti da soli non bastano. Oltre agli studi sull’efficacia e alle prove scientifiche, la pianificazione di progetti e programmi dovrebbe tenere conto anche della probabilità di successo o di fallimento. Nel complesso, ciò renderebbe la cooperazione internazionale più umile, più partecipativa e più a lungo termine. Poiché anche con progetti finanziariamente modesti si possono raggiungere molte persone.

Intervista pubblicata da laRegione il 24. novembre 2023

 

 

Fino a che punto gli aiuti negli Stati fragili possono essere efficaci?

L’analisi sistematica condotta da Christoph Zürcher di 315 valutazioni individuali della cooperazione internazionale per Afghanistan, Mali e Sud Sudan dal 2008 al 2021 mostra che essa non è uno strumento adeguato ad affrontare i problemi principali nei contesti fragili. Si segnalano comunque anche risultati positivi derivanti da progetti nei settori dell’istruzione, della sanità e dello sviluppo rurale. Con questi risultati, Christoph Zürcher invita la comunità internazionale a impegnarsi in un dibattito onesto sugli obiettivi e sull’efficacia della cooperazione internazionale in contesti fragili.

 

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La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Comunicato stampa

Le organizzazioni di cooperazione allo sviluppo chiedono più solidarietà

30.11.2023, Cooperazione internazionale

Il Consiglio federale vuole sostenere la ricostruzione dell’Ucraina a spese dei Paesi più poveri, malgrado numerosi esperti, cantoni e partiti auspichino un finanziamento supplementare. Una vasta campagna della società civile, che viene lanciata oggi, chiede un rafforzamento della cooperazione allo sviluppo.

Le organizzazioni di cooperazione allo sviluppo chiedono più solidarietà

Un’analisi delle risposte alla consultazione sulla strategia della cooperazione internazionale (CI), per il quadriennio 2025-2028, mostra che la proposta del Consiglio federale di stanziare 1,5 miliardi di franchi per l’Ucraina, prelevandoli dal budget della CI, non gode di sostegno. Il 93% di coloro che si sono espressi sul finanziamento dell’Ucraina, scrivono esplicitamente che l’aiuto all’Ucraina dev’essere finanziato con fondi supplementari ed esterni alla CI. Tra questi ci sono 5 partiti su 7 e 9 cantoni su 11. Anche la Commissione consultiva per la cooperazione internazionale del Consiglio federale si è pronunciata a favore. Confermare il prelevamento di 1,5 miliardi dal budget della CI equivarrebbe quindi a ignorare completamente la procedura di consultazione.

A tale conclusione è giunta anche la Commissione delle finanze del Consiglio nazionale. Essa raccomanda al suo Consiglio l’istituzione di un fondo per la ricostruzione dell’Ucraina. L’importo messo a disposizione non andrebbe imputato al budget ordinario della cooperazione internazionale, bensì sarebbe da contabilizzare come straordinario. La Commissione delle finanze ha letto correttamente i segni dei tempi e ricorre agli strumenti necessari. È innegabile che la ricostruzione dell’Ucraina richiederà mezzi finanziari notevoli e che quindi la solidarietà della comunità inter¬nazionale non potrà venir meno. Anche la Svizzera deve dare un contributo finanziario importante per la ricostruzione dell’Ucraina, ma ciò non deve avvenire a spese dei Paesi più poveri.

#PiùSolidarietàOra

«Covid – clima – guerra: e il Consiglio federale spreme il limone. In un mondo in crisi, non si dovrebbe risparmiare sui più poveri. L’Ucraina dev’essere sostenuta in aggiunta alla cooperazione allo svilup¬po», sostiene Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud. Per questo motivo, una vasta alleanza di organizzazioni della società civile e alcune personalità del mondo culturale e scientifico hanno lanciato una campagna per una cooperazione allo sviluppo forte.

La popolazione è chiamata a prendere posizione lasciando un messaggio personale sui social media. Ora più che mai c’è bisogno di maggior solidarietà con le molte persone che vivono in estrema povertà e che corrono il rischio di finire nel dimenticatoio. La Svizzera deve finalmente adempiere all’obiettivo dell’ONU, a cui ha aderito, e destinare alla cooperazione allo sviluppo lo 0.7% del suo reddito nazionale lordo. Secondo i piani del Consiglio federale, questa quota scenderebbe a un vergognoso 0.36%!

 

Ulteriori informazioni:

Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, tel. 031 390 93 30, andreas.missbach@alliancesud.ch

 

 

Opinione

Un esercito che piange miseria e dei fatti fragili

03.10.2023, Cooperazione internazionale

Nei contesti fragili aiuta solo un esercito forte? Ricerche accademiche mostrano che la cooperazione allo sviluppo può giocare un ruolo importante anche in situazioni molto difficili, scrive il nostro direttore Andreas Missbach.

Un esercito che piange miseria e dei fatti fragili

© Ala Kheir

I vertici della Direzione dello sviluppo e della cooperazione organizzano una conferenza stampa in un luogo fortemente simbolico. Qui spiegano minuziosamente perché la Svizzera, di fronte alle ripetute crisi e alla crescente povertà, deve urgentemente consacrare più fondi alla cooperazione internazionale (CI). E questo, malgrado il Consiglio federale abbia già deciso che la CI sarà ridotta nel 2024 e che la sua crescita sarà in seguito nulla in termini reali.  

Impensabile in Svizzera? No, perché è proprio ciò ch’è successo in agosto, con altre persone e in altre dimensioni. Il capo dell’esercito Thomas Süssli ha infatti chiesto un aumento del budget militare all’1% delle spese pubbliche entro il 2030, anche se, nella sua pianificazione finanziaria, il Consiglio federale aveva già deciso di voler raggiungere il valore posto come obiettivo dal Parlamento solo nel 2035. La NZZ ha definito questa decisione come un «rifiuto di ottemperare», eppure un tale coraggio e una certa combattività sarebbero auspicabili anche da parte della direzione della DSC.

A proposito di eserciti: a seguito del colpo di Stato in Niger, sono stati numerosi i commenti che hanno presentato «l'Africa» come il continente delle eversioni e delle democrazie fallite. Tramite il sito di microblogging X, il senegalese Ndongo Samba Sylla, economista dello sviluppo, ha rimesso i fatti al loro posto: «L’apice dei colpi di Stato che hanno avuto successo nel continente si situa tra il 1970 e il 1979, e in seguito tra il 1990 e il 1999, con 36 colpi di Stato per ognuno di questi decenni. Da allora sono in forte diminuzione. La maggioranza dei Paesi africani non ha mai vissuto azioni sovversive violente dal 1990, un terzo non né è mai stato confrontato dall’indipendenza».  

La recente moltiplicazione dei colpi di Stato militari nei Paesi del Sahel (e non in tutta l’Africa) si spiega, eccezion fatta per il Sudan, grazie a due fattori comuni a tutti i colpi di Stato che hanno avuto successo. Innanzitutto, sono avvenuti in ex colonie francesi che, secondariamente, sono caratterizzate per ragioni politiche da una presenza militare straniera (nel caso del Gabon, si potrebbe aggiungere «o colonie francesi sfruttate da gruppi petroliferi europei»). Ndongo Samba Sylla parla perciò di una «crisi dell’imperialismo francese», piuttosto che di una crisi della democrazia.  

Certo, degli avvenimenti come quelli del Niger alimentano anche il dibattito sul senso della cooperazione allo sviluppo negli Stati fragili. L’utilità della CI è fondamentalmente rimessa in questione, sia prima di un colpo di Stato («la CI non ha portato una democrazia stabile ai Paesi»), sia dopo («cosa ci fate ancora lì?»). Si tratta senza dubbio di questioni complesse, che occuperanno anche Alliance Sud nel dibattito parlamentare riguardante il messaggio sulla cooperazione internazionale.  

Ma anche in questo caso, sono i fatti a contare. A fornirceli è il professore Christoph Zürcher, della Graduate School of Public and International Affairs dell'Università di Ottawa, che ha realizzato una verifica sistematica di 315 valutazioni individuali della cooperazione internazionale per l’Afghanistan, il Mali e il Sudan del Sud, dal 2008 al 2021.

Questo studio suggerisce che la CI non può stabilizzare o rappacificare gli Stati nel contesto di conflitti militari e d’interessi geopolitici. Ma la ricerca mostra pure che gli investimenti nell’educazione, nella salute e nello sviluppo rurale, come ad esempio il sostegno alle strutture agricole, riscuotono successo e giungono alla popolazione locale. Conclusione dello studio: i progetti che si orientano verso le persone, e che non ambiscono a una completa trasformazione del Paese, hanno un impatto positivo.

Comunicato stampa

Nuova strategia senza lungimiranza

02.10.2023, Cooperazione internazionale

Alliance Sud critica i piani del Consiglio federale inerenti al nuovo orientamento della cooperazione internazionale (CI) per il quadriennio 2025-2028. È specialmente il quadro finanziario ad avere conseguenze catastrofiche per il Sud globale.

Laura Ebneter
Laura Ebneter

Esperta in cooperazione internazionale

+41 31 390 93 32 laura.ebneter@alliancesud.ch
Nuova strategia senza lungimiranza

© Nelly Georgina Quijano Duarte / Climate Visuals

Il sovrapporsi delle crisi e le conseguenze della guerra di aggressione all’Ucraina hanno portato a un grave regresso nella lotta alla povertà e a un incremento delle disuguaglianze a livello globale. Il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 si allontana sempre di più. L’intenzione del Consiglio federale di voler prendere dal quadro finanziario della CI il denaro urgentemente necessario per la ricostruzione dell’Ucraina – con la conseguente diminuzione dei fondi a disposizione del Sud globale afflitto dalle crisi – è perciò assolutamente incomprensibile.  

«Una cooperazione internazionale efficace e adeguatamente finanziata è più che mai urgente. Una situazione straordinaria, come la guerra in Ucraina, ha bisogno di mezzi straordinari, ma non per questo coloro che vivono nel Sud globale devono pagarne il conto», afferma Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, il centro di competenza svizzero per la cooperazione internazionale e la politica di sviluppo.  

Ad aggravare la situazione vi è anche la prevista riduzione del finanziamento pubblico allo sviluppo, che scenderebbe allo 0.36% del reddito nazionale lordo. «Una percentuale così bassa – la metà rispetto agli obiettivi fissati a livello internazionale e la più bassa degli ultimi dieci anni – è assolutamente inaccettabile e indegna di un Paese ricco come la Svizzera», spiega ancora Missbach.

Rafforzare la collaborazione con la società civile

A livello di contenuti, la strategia punta alla continuità, tuttavia non riesce ad ancorare i dibattiti internazionali a livello nazionale. Così, ad esempio, non c’è nessun tipo d’accenno al rispetto dei principi d’efficacia riconosciuti internazionalmente per la cooperazione allo sviluppo, e nemmeno riferimenti concreti alla localizzazione della cooperazione, messa in primo piano nelle discussioni del Comitato di aiuto allo sviluppo (CAS) dell’OCSE. «Ciò sarebbe fondamentale, poiché in numerosi Paesi l’impegno della società civile si vede confrontato a una crescente repressione dovuta allo smantellamento delle strutture democratiche», sostiene Laura Ebneter, esperta di Alliance Sud in cooperazione internazionale. Per la promozione di procedure e istituzioni partecipative e democratiche, dei diritti umani e della pace, nonché per lottare contro ingiustizie e corruzione, la collaborazione con la società civile è centrale e dev’essere rafforzata.

Risposta alla procedura di consultazione (in francese)

Per ulteriori informazioni:

Laura Ebneter, esperta in cooperazione internazionale, Alliance Sud, tel. +41 31 390 93 32, laura.ebneter@alliancesud.ch

Marco Fähndrich, responsabile della comunicazione, Alliance Sud, tel. +41 31 390 93 34, marco.faehndrich@alliancesud.ch

La cooperazione internazionale della Svizzera funziona

Numerosi studi e valutazioni mostrano che la cooperazione internazionale ha conseguito grandi successi e gode di un ampio sostegno nella popolazione elvetica. Tuttavia continuano a farsi sentire anche singole voci che rumoreggiano pubblicamente contro la CI. Alliance Sud ha indagato sui miti comuni che caratterizzano la CI e li ridiscute in maniera differenziata in un nuovo documento d’analisi.

Fatti e miti sulla cooperazione allo sviluppo (in francese)

Articolo

Dopo Magufuli, cosa ne sarà dei diritti umani?

19.03.2021, Cooperazione internazionale

Il presidente della Tanzania John Magufuli è morto il 17 marzo, ufficialmente a causa di «problemi cardiaci». A prendere il suo posto sarà una donna, la prima nella storia del Paese.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

Dopo Magufuli, cosa ne sarà dei diritti umani?
Arusha, la Ginevra dell'Africa: il minuscolo aeroporto della seconda città più grande della Tanzania.
© Isolda Agazzi

«La città di Arusha vi dà il benvenuto nella Ginevra dell’Africa.» proclama un cartello nel minuscolo aeroporto della seconda città più grande della Tanzania. Nonostante i turisti ci si accalchino per fare safari nei parchi nazionali o scalare le pendici del Kilimangiaro (la montagna più alta dell’Africa), sono le sedi del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (che ha condotto i suoi lavori dal 1994 al 2015) e della Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli ad averle conferito il soprannome elvetico.

Una corte che del resto nessuno sembra conoscere… Eppure, con il 40% delle sentenze che la riguardano, la Tanzania è il Paese africano più spesso condannato da questa giurisdizione che gli abitanti di Arusha rischiano di conoscere ancora meno dopo che a dicembre del 2019 la Tanzania ha revocato alle singole persone e alle ONG il diritto di sporgere denuncia contro il governo.

Questa decisione era stata presa dal presidente John Magufuli, al potere dal 2015 e deceduto il 17 marzo ufficialmente a causa di «problemi cardiaci». Spiegazione fornita dalla vicepresidente, Samia Suluhu Hassan, che non convincerà i sostenitori della «Schadenfreude» [la gioia per le disgrazie altrui]: Magufuli si era contraddistinto in tutto il mondo per aver negato l’esistenza del Covid nel suo Paese, almeno fino allo scorso 21 febbraio, sollecitando i suoi compatrioti a combattere il virus con preghiere e piante medicinali. Rimedi che forse avevano salvato la Tanzania dalla prima ondata ma non dall’arrivo in massa dei turisti dopo le feste di fine anno.

Amnesty International e Human Rights Watch hanno ripetutamente espresso la propria preoccupazione circa la deriva autoritaria del regime di John Magufuli e la crescente repressione dei difensori dei diritti umani, delle ONG, dei giornalisti e degli oppositori. In questi ultimi mesi, soprattutto tra la popolazione si provava paura nel parlare del Coronavirus che, ufficialmente, non esisteva. Negli ultimi giorni almeno tre persone sono state arrestate per aver affermato sui social che John Magufuli era morto.

Notizia tuttavia confermata ieri sera dalla vicepresidente, Samia Suluhu Hassan, che diventerà la prima donna alla guida del Paese. Avrà l’arduo compito di portare avanti la lotta alla corruzione avviata dal suo predecessore pur garantendo la libertà di espressione e di associazione. Resta anche da vedere se la nuova presidente cambierà rotta nella gestione della pandemia per essere più in linea con le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Articolo

« Come può una proprietà possederne un’altra? »

22.06.2021, Cooperazione internazionale

Tra il 2016 e il 2019, in due villaggi masai nel nord della Tanzania, è stato condotto il progetto di ricerca pratica WOLTS focalizzato sulle interazioni tra l’estrazione mineraria, la pastorizia e i diritti fondiari delle donne.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

« Come può una proprietà possederne un’altra? »

Piccolo bambino, grande carico di lavoro: una donna Masai a Oleparkashi, Tanzania.
© Tobias Peier

Mundarara, un piccolo villaggio di meno di 5’000 abitanti rannicchiato tra colline verdeggianti, è raggiungibile unicamente tramite una strada in terra battuta, interminabile e accidentata, lungo la quale si possono scorgere giraffe, antilopi e struzzi. Da questa strada, è possibile vedere anche degli uomini masai che indossano ampi abiti rossi e tengono in una mano il bastone per guidare le mucche e nell’altra un telefonino portatile; oppure si possono osservare delle donne agghindate con gioielli che trasportano legna sulla testa; o ancora una miniera di rubini di media importanza dove, nei materiali di scavo, numerose donne cercano delle piccole pietre preziose. Durante la mia prima visita al villaggio, il nostro gruppo viene accolto da uno dei capi del posto, un uomo di mezza età grande e corpulento. Nel suo ufficio, una capanna d’argilla e paglia con alcune sedie traballanti, un tavolo e alcune foglie ingiallite sul muro, ci accoglie con una stretta di mano e uno sguardo malizioso. Dopo avergli spiegato il nostro approccio, poniamo a lui e ad alcuni altri anziani del villaggio presenti, alcune domande preliminari sullo sfruttamento minerario e i diritti fondiari nel villaggio. Quando poi gli chiedo se le donne sono autorizzate a possedere delle terre, mi risponde indignato in lingua masai: «Come può una proprietà possederne un’altra?».

La sua domanda riassume perfettamente la situazione di numerose donne masai: esse sono considerate come una proprietà degli uomini – prima da parte del loro padre e poi, dopo il loro matrimonio, da parte del marito. Qualsiasi tipo di possesso (bestiame, casa o terreno) è escluso. I Masai sono una delle etnie più patriarcali dell’Africa. Qui la poligamia è la regola. Le mutilazioni genitali e i matrimoni infantili sono ancora molto diffusi, malgrado le proibizioni legali. Le storie di numerose donne con le quali ci intratteniamo sono simili: praticamente nessuna di loro ha terminato la scuola elementare, le loro giornate di lavoro sono lunghe e massacranti (andare a cercare l’acqua e la legna per riscaldare, mungere le mucche, ecc.). I soldi che guadagnano vendendo dei gioielli, della legna da ardere o, più recentemente, degli scarti provenienti dalle miniere, spesso bastano a malapena per sopravvivere, tanto più che molti uomini non provvedono ai bisogni della loro famiglia.

Una fatica improba

Una discussione di gruppo con delle seconde spose mi è rimasta particolarmente impressa nella memoria. Immaginavo d’incontrare un gruppo di donne d’una certa età, mentre invece siamo stati accolti da tre ragazze tra i 14 e i 16 anni. Due di loro erano già in uno stato di gravidanza molto avanzato. Queste giovani ci hanno spiegato perché si ritenevano fortunate a essere delle seconde spose: «Abbiamo compassione per quelle donne che non hanno nessun’altra sposa a casa, perché hanno ancor più lavoro da fare. Il duro lavoro inizia col matrimonio. Quando si è a casa con la propria madre, si può dirle che si è stanche e che ci si vuol riposare. Ma una volta sposate, è il marito che ha tutto il potere e non si osa confessargli la propria stanchezza. Altrimenti ci picchia». (Citato in Daley, E., e altri, (2018). Gender, Land and Mining in Pastoralist Tanzania, p. 43).

Per la maggioranza delle donne masai la violenza fa parte della quotidianità. L’estrazione mineraria l’ha esacerbata in diversi modi, poiché ormai molte persone dall’esterno vengono nei villaggi a cercare pietre preziose. Nei due villaggi, sentiamo regolarmente parlare di stupri e addirittura d’omicidi, che rimangono impuniti. Molte donne si sentono abbandonate dal loro marito e dagli uomini incaricati d’amministrare i villaggi, e non è raro che la vittima stessa sia ritenuta responsabile d’uno stupro. 

Il mutamento dei ruoli

Malgrado ci siano tante storie dolorose, a più riprese veniamo anche a sapere di fatti positivi, di storie di cambiamento. Ed è soprattutto nel corso del nostro lavoro che ne veniamo a conoscenza. Sulla base d’una ricerca approfondita, proponiamo una serie di workshop scaglionati su due anni: si tratta di riunioni informative giuridiche concrete sui diritti fondiari, l’estrazione mineraria e l’uguaglianza dei sessi, nonché di discussioni interattive e di giochi di ruolo. 

Durante queste riunioni, le donne si siedono dapprima in un angolo, gli uomini in un altro. Le donne parlano poco e se osano comunque esprimersi, sono sempre smentite dagli uomini presenti. Mi domandano spesso come si svolgono le faccende quotidiane nella mia famiglia. Sono io a prendere tutte le decisioni a casa mia? Queste discussioni sono molto interessanti poiché, anche da noi, le cose sono ben lungi dall’essere perfette: dico loro che nel nostro Paese le donne hanno il diritto di voto solo da 50 anni, che prima dovevano avere il permesso del loro marito per poter lavorare e che, ancora oggi, è difficile conciliare lavoro e famiglia. Il sessismo e la violenza fanno pure parte della quotidianità di numerose donne nel nostro Paese.

Le discussioni dimostrano che i ruoli destinati agli uomini e alle donne evolvono anche per i Masai. Numerose coppie d’una certa età si sono sposate a seguito della «prenotazione» di figlie che stanno per nascere (un uomo dà a una donna incinta un anello affinché la creatura che sta per venire al mondo, se è una bambina, gli sia riservata come futura sposa). Diversi giovani masai parlano d’un più grande numero di cosiddetti matrimoni d’amore. Questi ultimi rimangono spesso monogami e sono caratterizzati da una cooperazione molto più marcata delle coppie sposate. La divisione del lavoro evolve anche a seguito dell’estrazione mineraria, del cambiamento climatico e di altri fattori; le donne svolgono sempre più compiti «tradizionalmente» maschili, come far pascolare le mucche, ma senza abbandonare le mansioni «tradizionalmente» femminili, come andare a cercare la legna e l’acqua. Anche in questo caso, si possono intravvedere dei paralleli con la Svizzera, dove le donne entrano sempre di più a far parte di ambiti maschili «tradizionali», sia nella vita professionale che in quella politica, guadagnando però spesso molto meno e assumendo sempre una buona parte dei compiti d’assistenza e di cura.

L’intenzione non è quella di cambiare la cultura dei Masai, né d’imporre loro la nostra, bensì di mostrare che i ruoli e le relazioni tra i generi evolvono – sia nei Masai che in Occidente – e che tutti dobbiamo impegnarci per modellare e sostenere questo cambiamento. Un partecipante, uomo, l’ha espresso in modo preciso dicendo: «Possiamo sempre essere dei Masai e perpetuare le nostre tradizioni, ma alcune di queste sono nefaste e dobbiamo cambiarle».  

Per saperne di più sul progetto WOLTS, consultare.

Scoprite il rapporto completo

Articolo, Global

« La politica di sviluppo esisterà sempre »

24.06.2021, Cooperazione internazionale

Mark Herkenrath è professore titolare di sociologia all’Università di Zurigo. Fra i suoi campi di ricerca vi sono le conseguenze della globalizzazione economica sullo sviluppo e la resistenza della società civile in America Latina e negli Stati Uniti d’America contro l’accordo di libero scambio panamericano (ALCA). Fa parte del team di Alliance Sud dal 2008, dove è stato responsabile del dossier di Politica fiscale e finanziaria prima di assumere la carica di direttore nel 2015.

Marco Fähndrich
Marco Fähndrich

Responsabile della comunicazione e dei media

« La politica di sviluppo esisterà sempre »

Mark Herkenrath a un evento della Piattaforma Agenda 2030 della società civile.
© Martin Bichsel

Nel 2015 è stata adottata l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, celebrata a livello internazionale come una pietra miliare. Finora, però, il Consiglio federale non ha attuato quasi nulla e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) sono poco conosciuti dalla popolazione. Per quale motivo?

Il Consiglio federale non si impegna a sufficienza per l’Agenda 2030. Non vuole stanziare fondi supplementari per la sua attuazione, bensì semplicemente integrare lo sviluppo sostenibile globale nelle politiche già esistenti. Inoltre, sta facendo troppo poco per far conoscere l’Agenda 2030 al grande pubblico. Questo dovrebbe essere il compito delle Organizzazioni Non Governative (ONG), malgrado ora non siano più autorizzate, in seguito all’ordine del capo del Dipartimento Federale degli Affari Esteri, Ignazio Cassis, ad utilizzare i fondi federali per il lavoro di formazione e sensibilizzazione in Svizzera.

Eppure, il Consigliere federale Cassis ha fissato la sostenibilità come obiettivo della nuova strategia di politica estera...

Il Consigliere federale Cassis si è pure distanziato dall’Agenda 2030 nel 2018, un anno dopo la sua investitura! Durante un’intervista alla Basler Zeitung, si è lamentato, infastidito, di non essere mai stato consultato sull’Agenda 2030 nel corso della sua carriera di membro del Parlamento. Ha criticato l’Agenda e il Patto dell’ONU sulla migrazione, affermando che si trattava di un’opera fittizia di diplomazia, in contraddizione con le scelte di politica interna. Nel frattempo però, sembra aver meglio compreso che un mondo equo e sostenibile è negli interessi della stessa Svizzera.

Con l’Iniziativa Multinazionali Responsabili, la società civile svizzera ha ottenuto un bel successo alle urne. In seguito alla votazione, alcuni politici borghesi vorrebbero limitare il margine d’azione delle ONG. Le ONG sono diventate troppo potenti? 

(Sorride.) Sembra che le ONG siano corse in massa alle urne la domenica di votazione, per riempirle dei loro bollettini di voto. In realtà, nella democrazia svizzera, è sempre l’elettorato ad avere l’ultima parola sulle questioni. E si forma la propria opinione. Durante la votazione sull’Iniziativa Multinazionali Responsabili, il 50,7% degli aventi diritto di voto si è detto a favore di una Svizzera aperta e solidale. La popolazione ha giustamente dato fiducia alle ricerche di casi ben documentati dalle ONG. Invece, la fiducia riposta nelle associazioni economiche e nei loro gruppi vacilla. Non si crede più alle dichiarazioni che “gli interessi economici rispecchiano sempre ciò che è bene per la Svizzera”. Ovviamente questo genera non pochi grattacapi negli ambiti borghesi della politica.

Nella cooperazione internazionale, la Svizzera punta sempre più sui partenariati con il settore privato. Alliance Sud segnala costantemente i rischi associati, ma non si aprono anche delle opportunità?

Certo, ci sono delle opportunità, ad esempio la creazione di nuovi impieghi, gli investimenti e l’utilizzo di tecnologie rispettose dell’ambiente. Ma questo non ci deve portare a nasconderne i rischi. I gruppi industriali stranieri estromettono frequentemente le imprese locali dei Paesi in via di sviluppo dal mercato, e trasferiscono gli utili privi d’imposizione nei paradisi fiscali come la Svizzera. Per non parlare poi delle violazioni dei diritti umani e dei problemi ecologici. Per i partenariati con il settore privato nell’ambito della cooperazione internazionale, quindi, dovrebbero esserci dei criteri di selezione rigorosi almeno tanto quanto i criteri di partenariato con le ONG. La Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) e la Segreteria di Stato dell’economia (SECO), però, sono ancora lontane da questo obiettivo.

Con il movimento a favore del clima e la pandemia di COVID-19, gli scienziati fanno sempre più sentire la loro voce per influenzare la politica: si tratta di un’evoluzione positiva?

Sì, è un buon sviluppo. In una democrazia funzionante, la popolazione e i suoi rappresentanti politici devono poter prendere delle decisioni ben informate. Per fare ciò, vi è bisogno degli esperti, non solo degli scienziati, ma anche delle conoscenze pratiche delle ONG e della competenza etica delle Chiese. Quando il mio ambito d’azione principale era quello scientifico, le dichiarazioni sulle questioni politiche d’attualità erano ancora in gran parte malviste. Persino gli articoli d’opinione apparsi sui quotidiani NZZ o Le Temps provocavano un certo disappunto. Fortunatamente, la situazione è migliorata.

Quest’anno Alliance Sud festeggia il suo 50esimo anniversario: qual è la direzione intrapresa dalla politica di sviluppo? E ce ne sarà ancora bisogno tra 50 anni?

La politica di sviluppo esisterà sempre: si tratta di una politica interna mondiale. Come affermato dall’Agenda 2030, è necessario prendere in considerazione l’impatto di ogni decisione politica sulla popolazione globale e sul futuro del pianeta. Tuttavia, la strada da percorrere per attualizzare il principio dello sviluppo mondiale sostenibile è ancora lunga. Nei potenti Paesi del nord, si costata una rinnovata tendenza a considerare i propri interessi nazionali a breve termine al di sopra del benessere della natura e dell’umanità. La cooperazione internazionale è di nuovo, e sempre più, sottomessa agli interessi di politica economica e migratoria. Ora e in futuro, Alliance Sud sarà pertanto necessaria per promuovere una politica per un mondo giusto.

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Uscire dal caos per rimanere nel Caucaso

06.12.2021, Cooperazione internazionale

La nuova strategia della Cooperazione svizzera per il Caucaso meridionale - Georgia, Armenia e Azerbaigian - punta sullo sviluppo delle regioni spopolate e sull’integrazione delle minoranze etniche e dei migranti.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

Uscire dal caos per rimanere nel Caucaso

© Isolda Agazzi

Sono le 6 del mattino, nella notte ancora buia Aleksander esce in fretta, sigaretta in bocca, per andare a mungere le mucche. "Di solito è un lavoro da donne, ma oggi lo faccio io", dichiara questo laureato in matematica dell'Università di Tbilisi, tornato nel suo villaggio natale del sud della Georgia per prendersi cura della madre anziana. Con sua moglie, indaffarata a preparare la colazione, ha adibito alcune camere della casa agli ospiti al fine di integrare il suo modesto reddito di agricoltore. La mungitura viene fatta a macchina? "No, a mano", risponde in un inglese elementare che impara dalla figlia la quale frequenta la scuola elementare del villaggio. Nell’orto coltiva una profusione di frutta e verdura e fiori, onnipresenti in Georgia, e questo dà al villaggio, situato a 1.300 metri di altitudine, un aspetto allegro e ridente d’estate. Ma l'inverno è duro: la casa è riscaldata solo da una stufa a legna perché il gas, riconoscibile in tutto il Paese dai tipici tubi di adduzione, non è giunto in questo angolo remoto, al confine con la Turchia e l'Armenia.                                                                   

Agricoltura poco produttiva

“La Svizzera ha una presenza importante in Georgia, dove sostiene l'agricoltura e l'allevamento", ci spiega Danielle Meuwly, responsabile della cooperazione svizzera per il Caucaso meridionale, accogliendoci nel suo ufficio di Tbilisi. “Il contrasto tra le città e le campagne è enorme: il 40% della popolazione lavora nell'agricoltura, ma essa è poco produttiva e contribuisce solo all'8% del PIL”.

Il Paese è piuttosto disuguale: nel 2021, il coefficiente di Gini (ovvero la misura globale della disuguaglianza nella distribuzione) è del 36,4, il che fa della Georgia l'89° Paese più disuguale al mondo secondo la World Population Review, una classifica americana.

Per migliorare le conoscenze degli agricoltori, la Svizzera ha lanciato un progetto di formazione professionale in agricoltura, in collaborazione con l'Istituto Plantahof. Per aumentare il reddito di chi coltiva le terre è stato avviato un programma di sostegno alle PMI nelle zone rurali, in collaborazione con l'ONG Swisscontact. La Svizzera promuove anche la conservazione delle foreste, nello spirito del nuovo codice forestale che regola rigorosamente la deforestazione. Ma quest’ultimo deve essere ancora accettato dalla popolazione e, soprattutto, riuscire a offrire agli abitanti come Aleksander un'alternativa alla legna per riscaldarsi e cucinare. 

La Svizzera rappresenta gli interessi della Russia in Georgia e vice versa

Queste attività fanno parte della nuova strategia 2022 - 2025 della Cooperazione svizzera per il Caucaso meridionale, che sarà pubblicata all'inizio di dicembre. “Si tratta di una strategia regionale che copre anche l'Armenia e l'Azerbaigian e riunisce la DSC, la Seco e la Divisione Sicurezza umana del DFAE” – continua Danielle Meuwly – “Il nostro ufficio è in Georgia per ragioni pratiche e perché è il paese con il bilancio più ingente. L'impegno della Confederazione in questa regione è importante e svolge in particolare un mandato di protezione.”

Dopo la guerra dell'agosto 2008 e il riconoscimento da parte della Russia dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, la Georgia ha rotto le relazioni diplomatiche con Mosca. Dal 2009, la Svizzera rappresenta gli interessi della Russia in Georgia e quelli della Georgia in Russia.

In Abkhazia, una regione estremamente povera che sopravvive grazie all'aiuto umanitario internazionale, la cooperazione svizzera attua progetti per rinnovare i blocchi sanitari nelle scuole e migliorare la capacità delle donne a produrre formaggio nel rispetto delle regole igieniche.

Integrare le minoranze

“Al di là dell'aspetto diplomatico, cerchiamo di costruire un ponte e una cooperazione tra le persone e la società civile di entrambe le parti”, ci spiega Medea Turashvili, responsabile delle questioni di sicurezza umana, che continua: “Ci assicuriamo che i diritti delle minoranze religiose e dei gruppi etnici siano protetti.” In un Paese che ha subito invasioni incessanti da parte di mongoli, turchi, arabi, persiani e russi, non è affatto evidente. La religione, rappresentata dalla potente Chiesa ortodossa georgiana, è sempre stata un rifugio per la popolazione e ancora oggi fa parte integrante dell'identità nazionale.”

Anche se i cristiani ortodossi sono in larga maggioranza, ci sono anche musulmani georgiani, azeri, ceceni, armeni e altre minoranze poco integrate. Come sottolinea Danielle Meuwly “spesso le persone delle minoranze etniche e religiose non parlano nemmeno la lingua georgiana, perché il sistema educativo non permette loro di impararla correttamente. Hanno quindi legami molto più forti con la loro comunità d'origine che con il loro ambiente diretto. Il nostro obiettivo è di ridurre questo grado di alienazione di modo che le varie comunità possano vivere in pace. Nella regione meridionale, dove vive una grande comunità azera, abbiamo aperto centri di servizio per fornire informazioni in azero. Prima delle elezioni del 2018 e del 2020, abbiamo lavorato con i partiti politici per facilitare la preparazione di un codice di condotta". 

Assistenza alla reintegrazione dei migranti

Nella pianura di Kakhetia, nell'est del Paese, abbondano frutteti e vigneti. La regione è famosa per il vino, del quale la Georgia fu il primo paese produttore al mondo e che ogni famiglia produce ancora nelle proprie cantine. Ma nei villaggi si susseguono le case abbandonate e i balconi di legno finemente cesellati cadono a pezzi. La maggior parte degli abitanti, soprattutto i giovani, sono andati all'estero. In un Paese dove lo stipendio medio è di 300-400 euro al mese, le nuove generazioni vanno a cercare fortuna in Europa occidentale, trovando occupazione spesso nell'edilizia, nel caso degli uomini, e nell'aiuto domestico, nel caso delle donne. La Georgia conta 1,7 milioni di lavoratori migranti su una popolazione di quasi quattro milioni.

Le rimesse dei migranti sono una preziosa fonte di reddito per le famiglie. La Georgia è il quinto Paese d'origine dei richiedenti asilo in Svizzera, da quando nel 2018 i suoi cittadini sono stati esentati dall'obbligo di visto per i Paesi Schengen. Ma queste persone non hanno alcuna possibilità di ottenere lo statuto di rifugiati e vengono sistematicamente respinti. In Kakhetia e in altre province, la Cooperazione svizzera porta avanti progetti per reintegrare gli ex migranti e rivitalizzare le comunità.

Alliance Sud accoglie favorevolmente il fatto che la Svizzera aiuti la reintegrazione socio-economica dei rimpatriati, ma chiede alla Confederazione di non subordinare la sua politica di assistenza all'accettazione dei richiedenti asilo respinti, come si è, per altro, impegnata a fare. Vista la carenza di manodopera in molti settori in Svizzera, Alliance Sud chiede al Consiglio federale di mettere in atto una politica di migrazione regolare per permettere ai migranti di trovare lavoro in Svizzera senza cadere nel lavoro in nero. 

Isolda Agazzi, di ritorno dalla Georgia

 

BOX: Società civile indipendente ma strettamente sorvegliata

La società civile è un attore importante in Georgia. Principalmente finanziata da donatori occidentali, tra cui la Svizzera, il suo rapporto con il governo è fatto di alti e bassi.

"Nel complesso, possiamo svolgere le nostre attività senza ostacoli, ma negli ultimi anni il partito al potere ha avuto la tendenza a screditare le organizzazioni della società civile con posizioni critiche, accusandole infondatamente di mancanza di competenza o di lavorare di concerto con i partiti di opposizione. Questo atteggiamento ostile rende difficile difendere le nostre raccomandazioni presso i diversi rami del governo", ci dichiara Vakhtang Menabde, direttore del programma di sostegno alle istituzioni democratiche presso l'Associazione georgiana dei giovani avvocati (Gyla).

Dal 2012, la Georgia è governata dal partito Sogno georgiano, che è succeduto al governo del Movimento Nazionale Unito. Secondo l'attivista, quest'ultimo aveva fortemente limitato l'indipendenza del sistema giudiziario e la libertà della società civile. Dopo le elezioni del 2012, sono stati avviati alcuni processi di liberalizzazione. "Anche se sono state lanciate diverse ondate di riforme, la maggior parte di esse hanno solo migliorato alcuni difetti del sistema, ma non hanno cambiato le reali caratteristiche istituzionali. Ecco perché, purtroppo, l'indipendenza del potere giudiziario in Georgia è fortemente limitata a tutt’oggi", continua Vakhtang Menabde. 

Per quanto riguarda il ruolo della società civile, l'ONG Gyla sostiene da anni le riforme del sistema giudiziario, del governo locale e della legge elettorale. Vakhtang Menabde ritiene che molte delle sue raccomandazioni siano state effettivamente incluse nella legge, ma le proposte più cruciali, che porterebbero a reali cambiamenti di potere, sono state trascurate: "per riassumere, le società civili in Georgia operano essenzialmente in un ambiente libero, ma molto polarizzato e teso".

Inoltre, diversi scandali recenti hanno dimostrato che gli attivisti della società civile, i giornalisti e le associazioni politiche sono strettamente controllati dai servizi di sicurezza dello Stato. In una lettera aperta pubblicata ad agosto, una dozzina di ONG ha denunciato gli eccessivi poteri dei servizi segreti e la loro violazione della privacy.

Société civile indépendante, mais surveillée de près

La société civile est un acteur important en Géorgie. Principalement financée par les bailleurs occidentaux, dont la Suisse, ses relations avec le gouvernement connaissent des hauts et des bas. « Dans l'ensemble, nous pouvons mener nos activités sans entraves, mais depuis quelques années le parti au pouvoir a tendance à discréditer les organisations de la société civile critiques, en les accusant sans fondement de manquer de compétences ou de travailler en accord avec les partis d'opposition. Cette attitude hostile complique la défense de nos recommandations auprès des différentes branches du gouvernement », nous confie Vakhtang Menabde, directeur du Programme de soutien aux institutions démocratiques auprès de l'Association géorgienne des jeunes avocats (Gyla).

Depuis 2012, la Géorgie est gouvernée par le parti Rêve géorgien, qui a succédé au gouvernement du Mouvement national uni. Selon le militant, celui-ci avait limité fortement l'indépendance du système judiciaire et la liberté de la société civile. Après les élections de 2012, certains processus de libéralisation ont commencé. « Même si plusieurs vagues de réformes ont été lancées, la plupart d'entre elles n'ont amélioré que certaines failles du système, mais elles n'ont pas modifié les véritables caractéristiques institutionnelles. C'est pourquoi, malheureusement, l'indépendance du pouvoir judiciaire en Géorgie est aujourd'hui sévèrement limitée », continue-t-il.  

En ce qui concerne le rôle de la société civile, l’ONG Gyla préconise depuis des années des réformes concernant les organes judiciaires, le gouvernement local et la loi électorale. Vakhtang Menabde estime que nombre de ses recommandations ont été réellement reflétées dans la loi, mais les propositions les plus cruciales, qui entraîneraient de réels changements de pouvoir, ont été négligées. « Pour résumer, les sociétés civiles en Géorgie opèrent essentiellement dans un environnement libre, mais très polarisé et tendu », conclut-il.

Par ailleurs, plusieurs scandales récents ont montré que les militants de la société civile, les journalistes et les associations politiques sont surveillés de près par les Services de sécurité de l’Etat. Dans une lettre ouverte publiée en août, une dizaine d’ONG a dénoncé les pouvoirs excessifs des services de renseignement et leur atteinte à la vie privée.

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« La povertà è una scelta politica »

05.10.2020, Cooperazione internazionale

Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema si congeda pubblicando un rapporto allarmante. Le cifre sulla diminuzione della miseria nel mondo sono contestabili e sopravvalutano il ruolo della cooperazione allo sviluppo.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

« La povertà è una scelta politica »

Philip Alston, già relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani, durante una visita al villaggio di Kampung Numbak nella provincia di Sabah, in Malesia.
© Bassam Khawaja

L'australiano Philip Alston (70 anni), professore di diritto internazionale e diritti umani all’Università di New York, apre uno dei dibattiti più urgenti con il suo ultimo rapporto in veste di relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema. I governi, i media e pure le organizzazioni per lo sviluppo continuano a ripetere che durante gli ultimi decenni la povertà nel mondo si è considerevolmente ridotta, in particolare grazie al generoso aiuto dei Paesi ricchi.

La narrazione secondo la quale la povertà sia nettamente diminuita si basa generalmente sui calcoli della Banca Mondiale, che fissa il limite di povertà estrema a 1,9 dollari americani al giorno. Questa cifra arbitraria è ricavata dalla media delle soglie di povertà, definite a livello nazionale, di 15 tra i Paesi più poveri del pianeta. Secondo questi calcoli il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema sarebbe passato da 1,895 miliardi nel 1990 a 736 milioni nel 2015, calando così dal 36% al 10% della popolazione mondiale. Viene spesso ignorato il fatto che non si tratta in nessun caso di una tendenza planetaria: nell’Africa subsahariana e in Medio Oriente, ad esempio, il numero di persone che vive in situazioni di forte deprivazione è addirittura aumentato di 140 milioni nel corso di questo periodo. È inoltre risaputo che la riduzione della povertà ha principalmente interessato la Cina, dove il numero di persone estremamente povere è passato da 750 milioni a 10 milioni nel corso del periodo in questione, sempre secondo i calcoli della Banca Mondiale.

È interessante analizzare più da vicino le statistiche alla base di queste stime. La soglia di povertà di cui sopra non è adattata ai diversi bisogni vitali nei vari Paesi o regioni, ma è considerata come un valore assoluto e costante, adeguato unicamente alla parità di potere di acquisto[1]. In Portogallo, ad esempio, la soglia della povertà espressa in termini di parità di potere di acquisto è di 1,41 euro, una somma a malapena sufficiente per sopravvivere. Tuttavia nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo la soglia di povertà nazionale è ancora più alta rispetto all’indice di 1,90 dollari stabilito dalla Banca Mondiale. Le statistiche nazionali mostrano di conseguenza dei tassi di povertà molto più elevati rispetto a quelli che si basano sui calcoli della Banca Mondiale. Due esempi: secondo quest’ultima la Tailandia non si troverebbe in condizioni di povertà estrema nonostante le statistiche nazionali registrino invece un tasso del 9%; in Sudafrica, invece, si passa dal 18,9% al 55%.

Prendendo in considerazione una soglia di povertà più realistica (ma pur sempre arbitraria) di 5,5 dollari al giorno, le statistiche mondiali apparirebbero meno rosee: tra il 1990 e il 2015 il numero di persone povere nel mondo passerebbe da 3,5 a 3,4 miliardi, ovvero dal 67% al 46% della popolazione mondiale (che durante questo periodo ha registrato un forte incremento). Questo calcolo non tiene però conto del fatto che numerose persone toccate dalla povertà, come i senzatetto, i migranti economici, i rifugiati o i collaboratori domestici, non sono incluse nelle statistiche in quanto le indagini su cui queste si basano vengono condotte nelle economie domestiche. Inoltre le statistiche non riflettono le differenze di povertà dovute al genere.

In numerosi Paesi il cambiamento climatico, la crisi del coronavirus e l’importante recessione economica che ne consegue aggravano ulteriormente la situazione in termini di povertà. La Banca Mondiale prevede che il cambiamento climatico farà cadere in condizioni di estrema povertà 100 milioni di persone in più (secondo l’1,90 dollari al giorno) e che la crisi del coronavirus farà ricadere fino a 60 milioni di persone supplementari in condizioni di estrema povertà. Con dei calcoli più realistici queste cifre diventerebbero ancora più critiche.

La cooperazione allo sviluppo ha fallito?

Una povertà estrema di tale livello potrebbe portarci a concludere che la cooperazione allo sviluppo abbia fallito, ma questa deduzione le attribuirebbe un potere e un’influenza che molto semplicemente la cooperazione allo sviluppo non ha. Nel suo rapporto, Philip Alston sottolinea che nel 2019 i Paesi membri dell’OCSE hanno stanziato 152,8 miliardi di dollari sotto forma di sovvenzioni o di prestiti a tasso ridotto per aiutare i Paesi in via di sviluppo. Da parte loro i Paesi più poveri e a reddito medio hanno rimborsato 969 miliardi all’anno, di cui il 22% (ovvero 213 miliardi) composto unicamente da interessi, quindi somme che non hanno avuto alcuna utilità in termini di sviluppo. I miliardi di dollari che sfuggono ogni anno ai Paesi in via di sviluppo a causa dei trasferimenti degli utili delle multinazionali[2] e dei flussi finanziari illeciti o le perdite che questi Paesi subiscono a causa della disparità delle relazioni commerciali sono forse dei dati ancora più drammatici.

La cooperazione allo sviluppo ha chiaramente aiutato tantissime persone a uscire dalla povertà più grave e a migliorare considerevolmente le condizioni di vita dei più poveri. Negli ultimi decenni sono stati fatti numerosi progressi, soprattutto negli ambiti dell’educazione e dell’assistenza sanitaria e nella riduzione della mortalità materna. Ma tutti questi passi avanti non servono a molto se nel frattempo un numero sempre maggiore di persone perde i propri mezzi di sostentamento per lasciare campo libero all’agricoltura industriale, all’estrazione di materie prime o alla costruzione di giganteschi progetti, di cui la maggior parte all’esclusivo scopo di promuovere le esportazioni. Alcuni Paesi rimangono vincolati ai prestiti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e alle condizionalità ivi incluse di ridurre le loro spese sociali, deregolamentare il loro commercio e accordare privilegi fiscali agli investitori esteri. Anche oggi, nell’era postcoloniale, la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo è fornitrice di materie prime per il resto del pianeta, intrappolata in una rete di debiti, di relazioni commerciali inique, di evasioni fiscali e di corruzione. In queste condizioni la cooperazione allo sviluppo, con le sue risorse comparativamente modeste, rappresenta solo una goccia d’acqua nell’oceano.

Il relatore speciale delle Nazioni Unite, Philip Alston, scrive in modo lapidario che la povertà è una scelta politica («poverty is a political choice»): le persone rimangono invischiate nella povertà fintanto che altre ne possono approfittare. Le imprese con sede nei Paesi ricchi sono autorizzate a realizzare degli enormi profitti sulle spalle dei più poveri e noi, consumatori, dobbiamo acquistare dei beni a basso prezzo realizzati altrove (prodotti alimentari, vestiti, apparecchi elettronici, ecc.)

Focalizzare l’attenzione sulle disuguaglianze

Philip Alston sostiene quindi logicamente che il dibattito non dovrebbe concentrarsi soltanto sulla povertà ma anche sulla disuguaglianza, e non è il solo. In un recente documento, Jürgen Zlatter, direttore esecutivo tedesco della Banca Mondiale, chiede che quest’ultima si concentri maggiormente sulle disuguaglianze all’interno dei Paesi e tra questi. Citando l'economista Thomas Piketty mostra che, nel periodo in cui secondo la Banca Mondiale la povertà è considerevolmente diminuita, le disuguaglianze sono aumentate in modo sostanziale. Ad esempio, tra il 1980 e il 2014 il reddito netto della metà inferiore della popolazione mondiale è aumentato del 21%, mentre quello del 10% superiore è aumentato del 113%. I redditi dello 0,1% della popolazione mondiale più ricca sono addirittura aumentati del 617% nel corso di questo stesso periodo! Oggi l’1% delle persone più ricche del pianeta possiede il doppio di quello che possiedono i 6,9 miliardi di persone più povere.

Jürgen Zlatter mostra come, in numerosi Paesi, le politiche degli anni ‘80 e ‘90 abbiano indebolito i sindacati, ridotto i contributi sociali e diminuito la progressività delle imposte sul reddito. La crescente liberalizzazione del commercio e l’emergere delle catene globali del valore hanno incredibilmente rafforzato il potere di mercato delle singole imprese e dato il via a una corsa planetaria verso l’abbassamento dei salari. Allo stesso tempo, secondo Jürgen Zlatter, la liberalizzazione del settore finanziario ha contribuito enormemente all’aumento delle disuguaglianze. Anche se l’autore si astiene dal criticare direttamente la Banca Mondiale, sono proprio queste misure di liberalizzazione e di deregolamentazione della Banca Mondiale e del FMI che continuano a essere imposte ai Paesi in via di sviluppo.

L'economista della Banca Mondiale Jürgen Zlatter e il relatore speciale delle Nazioni Unite Philip Alston sono d’accordo nel dire che la disuguaglianza e la ridistribuzione sociale devono essere al centro del dibattito, e non soltanto di quello interno alla Banca Mondiale, ma anche del dibattito più ampio sulla povertà. Come fattore chiave citano l’importanza di mettere l’accento sulla giustizia fiscale. L’alternativa non è delle più rosee: non solo l’avanzamento del cambiamento climatico e il disordine economico sulla scia della crisi sanitaria faranno cadere in condizioni di povertà un numero sempre più grande di persone, ma possiamo anche aspettarci una recrudescenza dei disordini sociali, dei conflitti e dei movimenti di protesta.

[1] La parità di potere di acquisto viene calcolata partendo da quello che si può acquistare con 1,90 dollari negli Stati Uniti e determinando quanti soldi sono necessari negli altri Paesi per procurarsi gli stessi beni.

[2] Secondo un progetto di ricerca condotto sotto la guida dell’economista Gabriel Zucmann, nel 2017 le multinazionali hanno trasferito 741 miliardi di dollari in paradisi fiscali, tra cui 98 miliardi in Svizzera. Benché i dati riguardo alla maggior parte dei trasferimenti di utili provenienti dai Paesi in via di sviluppo non siano purtroppo sufficienti, i dati disponibili sono preoccupanti. Ogni anno la Nigeria perde circa il 18% delle entrate provenienti dalle imposte sugli utili delle società, il Sudafrica l’8% e il Brasile il 12%.

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Una crisi mondiale necessita solidarietà globale

14.04.2020, Cooperazione internazionale

La crisi del coronavirus ci ha reso consapevoli della vulnerabilità del nostro mondo globalizzato. Siamo tutti letteralmente sulla stessa barca. Ma se la crisi non risparmia nessuno, essa non tocca tutti nella stessa maniera.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Una crisi mondiale necessita solidarietà globale

Un ragazzo della cittadina ruandese Sholi si è costruito una maschera per proteggersi dal Coronavirus.
© Wikimedia Commons / study in Rwanda

La crisi come opportunità?

Quest’epidemia mostra i limiti del sistema creato dalla nostra generazione. Un sistema che ha pensato solo all’economico e alla corsa a un rapido profitto, a scapito dell’aspetto sociale e dell’attenzione verso gli altri. Un sistema che ha completamente perso di vista certi valori, come la solidarietà, e che non ha smesso di pensare «globale» per cercare, in capo al mondo, la manodopera più conveniente disdegnando l’investimento sociale. (Denis Mukwege, medico e premio Nobel per la Pace nel 2018[1])

La crisi del coronavirus ha cambiato completamente la vita di tutti noi, in un lasso di tempo molto breve. Essa ha mostrato che il nostro stile di vita non è immutabile. Le decisioni politiche urgenti, inconcepibili in tempi normali, sono state prese rapidamente e senza burocrazia. Ora si tratta di sapere se, una volta passata la crisi, possiamo e vogliamo ricostruire lo stesso mondo che avevamo prima, rendendoci così vulnerabili ad altre crisi; o se invece consideriamo questa crisi come un’opportunità. Come un’occasione per rafforzare la solidarietà mondiale e prepararci quindi alle future crisi – inclusa la crisi climatica mondiale, molto più grave, che è già in corso.

Possiamo e dobbiamo decidere adesso se utilizzeremo il denaro assegnato a livello nazionale e internazionale per preservare le catene d’approvvigionamento non sociali o rinforzare l’industria fossile in difficoltà, o se lo vincoleremo a dei criteri di sostenibilità sociale ed ecologica nell’ottica di una migliore ricostruzione (building back better). Spetta pure a noi, in Svizzera, decidere se continuare a scavare l’enorme fossato della disuguaglianza mondiale – attualmente, i 2’253 miliardari del mondo possiedono più averi che il 60% della popolazione mondiale totale[2] – o se cogliere l’occasione per colmarlo lentamente. Una compatibilità climatica coerente nell’impiego dei fondi, ma anche una tassa sulle transazioni finanziarie, una tassa sull’economia digitale, delle tasse di gestione socialmente accettabili o addirittura una tassa unica sul coronavirus da pagare dai ricchi, sono solo alcune delle possibilità attualmente in discussione per generare fondi a favore dei più poveri e dei più vulnerabili, senza appesantire ulteriormente il fardello della classe media. Sta a noi decidere se la nostra solidarietà si ferma alla frontiera nazionale o se invece ci rendiamo conto del fatto che a lungo termine siamo tutti sulla stessa barca e che, come comunità mondiale, saremo forti solo nella misura in cui lo saranno anche i più deboli tra di noi.

Le rivendicazioni di Alliance Sud

  1. I fondi promessi dalla Banca mondiale e dall’FMI, per far fronte alla crisi del coronavirus nei Paesi più poveri, non sono assolutamente sufficienti per attenuare a lungo termine le conseguenze economiche e sociali di questa crisi. Tutte le nazioni sono invitate ad aumentare le loro spese di sviluppo (aiuto pubblico allo sviluppo, APS) per raggiungere l’obiettivo concordato a livello internazionale, ossia lo 0,7 % del reddito nazionale lordo (RNL)[3]. La Svizzera dovrebbe finalmente adeguarsi a quest’esigenza e aumentare i crediti quadro per la cooperazione internazionale, in modo da raggiungere la parte d’APS dello 0,7%, o perlomeno di nuovo una parte d'APS pari allo 0,5%, come richiesto dal Parlamento già da tempo. Conformemente all'Agenda 2030, la cooperazione internazionale della Confederazione (CI) dev’essere fortemente incentrata sui ceti più poveri della popolazione («Leave no one behind») e investire in sistemi educativi e sanitari accessibili al pubblico, nel rafforzamento della società civile e in particolare delle donne, nel rafforzamento della piccola agricoltura, nonché in possibilità di lavoro decenti e nella sicurezza sociale.
  2. Secondo il principio «ricostruire meglio» (build back better), la Svizzera deve adoperarsi affinché tutti i fondi d’aiuto nazionali e internazionali forniti per superare la crisi dovuta al coronavirus siano utilizzati in maniera ecologicamente e socialmente responsabile, contribuendo così a ridurre le disuguaglianze sociali e a contrastare la progressione del cambiamento climatico.
  3. I Paesi in via di sviluppo hanno un urgente bisogno d’entrate fiscali supplementari proprie, per poter lottare contro le conseguenze sociali ed economiche, probabilmente molto gravi, della crisi generata dal coronavirus. La Svizzera deve quindi adottare immediatamente delle misure di politica fiscale per accrescere la trasparenza dei centri finanziari e delle imprese elvetiche. Uno scambio accelerato e completo di dati fiscali provenienti dalle multinazionali aventi sede in Svizzera e degli attivi offshore gestiti nel nostro Paese deve permettere alle autorità fiscali dei Paesi in via di sviluppo d’identificare e impedire la frode fiscale verso la Svizzera. In questo contesto esistono tre misure immediate: anzitutto, la pubblicazione di rapporti specifici nazione per nazione da parte delle multinazionali (il cosiddetto public country by country reporting); secondariamente, delle esperienze pilota di scambio automatico d’informazioni sui dati dei clienti delle banche (progetti pilota SAI) con i Paesi in via di sviluppo; e in terzo luogo, l’introduzione di registri pubblici sui beneficiari effettivi delle società.
  4. Con più di 200 altre organizzazioni della società civile del mondo intero, Alliance Sud esige l’annullamento di tutti i pagamenti del debito estero dovuti nel 2020 dai Paesi in via di sviluppo ed emergenti a dei creditori bilaterali (Stati), multilaterali (FMI/Banca mondiale) e privati. La Svizzera dovrebbe fare pressione sull’FMI, sulla Banca mondiale e sul Club di Parigi per raggiungere questi obiettivi. Dovrebbe pure agire in seno all’FMI e alla Banca mondiale per favorire la messa a disposizione di risorse finanziarie supplementari nell’ambito degli strumenti d’emergenza delle istituzioni di Bretton Woods, grazie alle quali i Paesi in via di sviluppo e quelli emergenti potranno lottare a breve termine contro le conseguenze sociali ed economiche della crisi legata al coronavirus, senza dover contrarre nuovi debiti. A più lungo termine, la Svizzera deve impegnarsi negli organi di decisione della Banca mondiale e dell’FMI, per un allontanamento dalle condizioni di prestito politiche che portano a un indebolimento dei sistemi sanitari pubblici e di quelli educativi, come ad esempio la politica d’austerità prescritta dall’FMI o la privatizzazione dei sistemi educativi e sanitari promossi dalla Banca mondiale.

Il documento completo si può leggere in francese e/o in tedesco Kristina Lanz, Alliance Sud

[1] En Afrique „agir au plus vite pour éviter l’hécatombe“, colloquio con Denis Mukwege, Le Monde, 1° aprile 2020.

[2] World’s Billionaires have more wealth than 4.6 billion people, comunicato stampa dell’Oxfam, 20 gennaio 2020.

[3] The Covid-19 Shock to Developing Countries, UNCTAD (2020).