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La solidarietà mondiale in crisi

07.12.2021, Cooperazione internazionale

La situazione in Svizzera sta gradualmente tornando alla normalità. Tuttavia, a livello globale la crisi del coronavirus è tutt’altro che finita. Bilancio intermedio e appello per una maggiore responsabilità globale.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

La solidarietà mondiale in crisi

Un prete cattolico con personale militare durante una disinfezione della statua del Cristo Redentore a Rio de Janeiro, Brasile.
© Ricardo Moraes / REUTERS

Nel dicembre 2019, i media cinesi segnalavano la diffusione di un virus sconosciuto a Wuhan, e alla fine di gennaio 2020, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dichiarava l’emergenza sanitaria internazionale. Da allora, il virus si è diffuso rapidamente in tutto il mondo, paralizzando l’economia internazionale e la vita sociale di molte persone quasi da un giorno all’altro. Da quel momento, molte cose non sono più le stesse. Più di cinque milioni di persone nel mondo sono morte a causa del virus (la cifra reale è molto più elevata), e innumerevoli altre stanno ancora soffrendo delle conseguenze sanitarie, sociali ed economiche della pandemia. Nonostante la speranza suscitata dallo sviluppo e dall’approvazione di numerosi vaccini contro il Covid, in molti luoghi la pandemia è lungi dall’essere finita, e molte delle conseguenze economiche e sociali diventano solo ora veramente visibili.

Nell’aprile 2020, Alliance Sud pubblicava un articolo intitolato “Una crisi mondiale necessita solidarietà globale”. Vi scriveva che la crisi toccava tutti, ma non allo stesso modo, e chiedeva un maggiore sostegno ai Paesi più poveri per superare la crisi, ridurre il debito mondiale e ricostruire meglio (“build back better”). Ma cosa è successo da allora e a che punto siamo dopo quasi due anni di crisi del coronavirus?

Una pandemia veramente sotto controllo?

Anche i sistemi sanitari occidentali sono stati regolarmente sotto attacco negli ultimi due anni. Operatori sanitari in crisi, unità di terapia intensiva sovraffollate e molti tragici destini individuali hanno occupato le prime pagine dei giornali. Ma le catastrofi con le conseguenze più gravi si sono verificate altrove - in India, Brasile o Perù, dove, nella primavera del 2021, molte famiglie hanno vagato per ore nelle città in cerca di ossigeno, mentre i loro cari soffocavano lentamente negli ospedali o sulla strada per raggiungerli; o nei campi profughi di Bangladesh, Colombia o Turchia, dove non solo il virus si è diffuso rapidamente, ma la scarsità di cibo e la fame hanno raggiunto proporzioni allarmanti.

Milioni di persone hanno perso il lavoro durante la pandemia. L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) stima che 205 milioni di persone saranno disoccupate nel 2022, rispetto ai 187 milioni del 2019. La disoccupazione è aumentata drammaticamente l’anno scorso, in particolare quella dei giovani e delle donne. Il numero di lavoratori poveri (“working poor”) – che vivono con meno di 3,20 dollari al giorno – è anche aumentato di 108 milioni dal 2019. Ma la situazione è più catastrofica per gli oltre due miliardi di lavoratori attivi del settore informale che non beneficiano di alcuna protezione sociale. Per loro, i confinamenti e altre restrizioni hanno spesso significato la perdita dei loro mezzi di sussistenza.

La Banca mondiale nota anche che a causa della crisi del coronavirus, la povertà estrema è aumentata per la prima volta in 22 anni. Stima che circa 121 milioni di persone sono venute a trovarsi in situazione di povertà estrema fino ad oggi. Ma come Alliance Sud ha notato in un articolo di fondo, la soglia di povertà di 1 dollaro al giorno della Banca mondiale è fissata ad un livello estremamente basso ed è esposta a vari problemi metodologici. Una definizione più realistica di questa povertà dipingerebbe probabilmente un quadro ancora peggiore.

La crisi del coronavirus ha anche aumentato notevolmente l’insicurezza alimentare e la fame. Per esempio, una persona su tre non ha avuto accesso a un’alimentazione adeguata nel 2020. La prevalenza della malnutrizione è aumentata dall’8,4% a circa il 9,9% in un solo anno, dopo essere rimasta praticamente stabile per cinque anni. Rispetto al 2019, nel 2020 la fame ha colpito 46 milioni di persone supplementari in Africa, 57 milioni in Asia e circa 14 milioni in America Latina e nei Caraibi.

Una vasta inchiesta condotta da Helvetas e da altre sette ONG europee presso 16’000 persone in 25 Paesi rivela il massiccio declino dei redditi, della sicurezza alimentare e dell'accesso all’istruzione al quale sono confrontate numerose persone. Mostra che le persone già più vulnerabili – anziani e disabili, madri single, donne e bambini – sono le più colpite dalla pandemia.

Distorsioni dell’economia mondiale

Mentre le economie di numerosi Paesi occidentali, compresa la Svizzera, sembrano essersi riprese con sorprendente rapidità, la ripresa nel Sud è stata molto più lenta. Il Fondo monetario internazionale (FMI) prevede una crescita del 6% dell’economia mondiale nel 2021, ma solo del 3,2% per l’economia africana. Rispetto all’impatto economico della crisi finanziaria globale del 2008, le conseguenze economiche di quella del coronavirus sono state molto più devastanti nella maggior parte dei Paesi poveri, soprattutto in Africa e in Asia del Sud.

L’aumento mondiale dei prezzi delle materie prime ha reso più costosi numerosi prodotti di base: i prezzi dei metalli e del petrolio aumentano dalla metà del 2020, e l’inflazione annuale delle derrate alimentari era di circa il 40% nel maggio 2021, il livello più alto da un decennio. Mentre l’aumento dei prezzi dei metalli e del petrolio si rivela problematico soprattutto per i Paesi industrializzati, l'aumento dei prezzi delle derrate alimentari ha delle ripercussioni significative sulla povertà e la fame nei Paesi poveri. In Nigeria, per esempio, i prezzi delle derrate alimentari sono aumentati di quasi un quarto dall’inizio della pandemia, precipitando 7 milioni di persone nella povertà estrema.

Il turismo è un altro settore particolarmente colpito dalla pandemia. Gli arrivi di turisti internazionali nei Paesi più poveri sono diminuiti del 67% nel 2020. L’ONU stima che saranno necessari almeno quattro anni perché il numero di arrivi torni ai livelli del 2019. Questa realtà minaccia i mezzi di sussistenza degli individui, delle famiglie e delle comunità, così come la sopravvivenza delle imprese nella catena del valore del turismo.

Indebitamento crescente

Mentre la maggior parte dei Paesi industrializzati ha lanciato importanti piani di rilancio per mitigare gli effetti economici della crisi del coronavirus, i Paesi più poveri non dispongono né delle risorse né del margine di manovra politico necessario per emulare l’Occidente. Questo perché, a) non possono prendere in prestito sui mercati internazionali dei capitali a dei tassi d'interesse ragionevoli, dato il loro rating del credito; b) non sono in grado di stampare denaro, dati i picchi d’inflazione; e c) possono mobilitare solo fondi limitati a livello nazionale a causa dell’evasione fiscale internazionale.

Secondo le stime del FMI, i Paesi a basso reddito dovranno spendere quasi 200 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni per continuare a lottare contro la pandemia e altri 250 miliardi di dollari per accelerare la ripresa economica. Tuttavia, la maggior parte di questi Paesi non hanno il margine di manovra necessario per aumentare le loro spese: il FMI afferma che 41 Paesi a basso reddito hanno addirittura ridotto la loro spesa totale nel 2020, e 33 di loro hanno comunque visto aumentare il loro rapporto debito pubblico/PIL. Il livello del debito estero dei Paesi in via di sviluppo ha così raggiunto la cifra record di 11,3 miliardi di dollari nel 2020, vale a dire il 4,6% in più rispetto al 2019 e 2,5 volte superiore al 2009 dopo la crisi finanziaria globale.

Dov’è la solidarietà mondiale?

Sono stati lanciati ripetuti appelli per un sostegno generoso e una riduzione del debito, ma poco si è concretizzato finora. La Debt Service Suspension Initiative (DSSI), concordata dai Paesi del G20, dalla Banca mondiale e dal FMI nella primavera del 2020, ha portato solo alla sospensione temporanea del servizio del debito per i prestiti bilaterali di alcuni Paesi. Non solo la Cina, come principale prestatore, non ha partecipato all'iniziativa, ma i numerosi prestatori privati non l'hanno sostenuta. Inoltre, per paura di scontentare i loro prestatori privati, solo poco più della metà dei Paesi “eleggibili” hanno partecipato. In definitiva, la DSSI ha aumentato il margine di manovra finanziario per 46 Paesi debitori nel 2020 e 2021 (rispettivamente di 5,7 miliardi di dollari e 7,3 miliardi di dollari). Tuttavia, dato che i pagamenti sospesi del debito devono ora essere aggiunti ai piani di rimborso a partire dal 2022, l’imminente crisi del debito è stata al massimo rinviata piuttosto che cancellata. E nemmeno i crediti d'urgenza concessi dal FMI e dalla Banca mondiale per affrontare la crisi risolvono il problema, poiché aumentano ancora il debito.

Anche se l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) è aumentato del 3,5% nel 2020, rappresenta ancora solo lo 0,32% del reddito nazionale lordo (RNL) combinato degli Stati membri del Comitato di aiuto allo sviluppo (CAS) dell’OCSE. È meno della metà dell’obiettivo riaffermato a livello internazionale dello 0,7% del RNL per l’APS e solo l’1% circa dei fondi che sono stati mobilitati per i piani di rilancio nazionali. Sebbene la Svizzera abbia rapidamente sbloccato fondi supplementari per progetti umanitari e per l’Alleanza Covax, rimane lontana, anche nel 2020, dall’obiettivo dello 0,7% concordato a livello internazionale, con lo 0,48% del RNL. Eppure è uno dei Paesi più prosperi del mondo.

Apartheid mondiale in materia di vaccini

L'ex segretario generale dell'OCSE, Angel Gurría, ha anche sottolineato che in futuro "dovremo fare uno sforzo molto maggiore per aiutare i Paesi in via di sviluppo nella distribuzione dei vaccini, dei servizi ospedalieri e per sostenere il reddito e i mezzi di sussistenza delle popolazioni più vulnerabili".

Purtroppo, l’egoismo dei Paesi occidentali non si manifesta solo nei piani di rilancio economico, ma anche nella distribuzione dei vaccini contro il Covid. Mentre in molti Paesi occidentali i bambini sono già vaccinati o una terza dose del vaccino, detta di richiamo, è amministrata, solo il 3,1% della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino nei Paesi più poveri.

Un’analisi dell'istituto di ricerca Airfinity evidenzia che, sulla base degli attuali tassi di vaccinazione, l’80% degli adulti nei Paesi del G7 sarà vaccinato entro la fine del 2021. Nel frattempo, il G7 avrà accumulato quasi un miliardo di dosi di vaccino in eccesso. Queste sarebbe sufficienti per vaccinare una gran parte della popolazione dei 30 Paesi (soprattutto africani) con i tassi di vaccinazione più bassi. Creata con lo scopo di assicurare una distribuzione mondiale più equa dei vaccini, l’iniziativa Covax ha finora fornito meno del 10% dei 2 miliardi di dosi promesse ai Paesi a basso e medio reddito. Questo è in parte dovuto al fatto che i Paesi più ricchi hanno firmato dei contratti prioritari con i produttori di vaccini, costringendo Covax ad uscire dal mercato dei vaccini. Per assurdo, diversi Paesi ricchi (tra cui l'Inghilterra, il Qatar e l’Arabia Saudita) hanno anche acquistato vaccini dal programma Covax.

Anche la Svizzera, con una popolazione di circa 8,6 milioni di abitanti, ha concluso dei contratti con cinque produttori di vaccini per un totale di circa 57 milioni di dosi (anche se solo tre di questi vaccini sono stati approvati da Swissmedic ad oggi). All’alleanza Covax sono state promesse 4 milioni di dosi del produttore Astra Zeneca, non autorizzato in Svizzera, di cui solo circa 400’000 sono state distribuite finora.

Oltre all’iniziativa Covax, è determinante anche rafforzare le capacità di produzione di vaccini nei Paesi a basso e medio reddito. Tuttavia, questa opzione richiederebbe che le aziende farmaceutiche condividano la tecnologia e il loro know-how in materia di vaccini con i produttori di questi Paesi. Una proposta dell’India e del Sudafrica all'Organizzazione mondiale del commercio (OMC) che chiede la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale dei vaccini, dei test e dei trattamenti contro il Covid è stata sostenuta da Cina e Russia, e in parte da Francia, Stati Uniti e Spagna, così come dall’OMS e da Papa Francesco. L’industria farmaceutica e la Svizzera vi si oppongono e continuano a sostenere la causa delle misure volontarie.

Ritorno alla normalità?

Anche se sembra che la Svizzera avrà presto superato la crisi del coronavirus, questo è lungi dall’essere il caso a livello mondiale. Il sostegno ad hoc dei progetti umanitari, la donazione di dosi di vaccino “vecchie” o “indesiderate”, e la concessione di nuovi prestiti ai Paesi più poveri non saranno sufficienti a combattere la crisi attuale e le sue cause soggiacenti e strutturali.

Solo se riconosciamo che siamo tutti interconnessi e congiuntamente responsabili di rendere il pianeta un luogo vivibile, potremo andare avanti e superare non solo questa crisi ma anche le crisi sistemiche soggiacenti, compresa la crisi climatica globale. La pandemia di coronavirus lo ha dimostrato chiaramente: volere (sul piano politico), è potere.

La responsabilité de la Suisse

Comptant parmi les pays les plus riches et les plus mondialisés de la planète, la Suisse a une responsabilité particulière. Alliance Sud formule donc les exigences suivantes envers la Suisse :

  • comme premier territoire à faible imposition et septième place financière de la planète, elle doit prendre des mesures immédiates pour mettre fin à l'évasion fiscale des pays pauvres impliquant des groupes de sociétés, des prestataires de services financiers et des cabinets d'avocats helvétiques. Ce n'est que de cette manière que les pays pauvres pourront mobiliser des ressources publiques suffisantes pour lutter contre la crise du coronavirus ;
  • elle doit s’engager à ce que les 40 banques suisses ayant actuellement accordé des prêts aux 86 pays les plus pauvres annulent tous leurs prêts à ces États débiteurs en raison de la situation sociale et économique dans ces pays ;
  • elle doit enfin honorer ses engagements au plan international et augmenter progressivement son taux d’APD à 0,7 % du RNB et axer toute sa coopération au développement sur les droits, les besoins et les attentes des plus pauvres et des plus vulnérables ;
  • enfin, elle doit remettre au plus vite ses doses de vaccin excédentaires à Covax et arrêter de bloquer la proposition de l'Inde et de l'Afrique du Sud à l'OMC.
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La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

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La fine della globalizzazione (oppure no?)

21.06.2022, Cooperazione internazionale

Una pluralità di voci sostiene che la brutale aggressione bellica contro l’Ucraina segni la fine della globalizzazione. Che dire di questa tesi? Un tentativo di analisi.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Dominik Gross
Dominik Gross

Esperto in politica fiscale e finanziaria

Laura Ebneter
Laura Ebneter

Esperta in cooperazione internazionale

La fine della globalizzazione (oppure no?)

Yury e Oleksiy, due contadini ucraini, coltivano la terra durante l'invasione russa.
© Foto: Ueslei Marcelino / REUTERS

La difficoltà nel parlare di globalizzazione sta nel fatto che il termine viene impiegato in modi molto diversi. Lo storico della globalizzazione tedesco Jürgen Osterhammel osserva che tutti parlano di “globalizzazione” dando tacitamente per scontato che il significato del termine sia chiaro. Tuttavia, secondo lo studioso questa è un’ipotesi irrealistica. Propone dunque di parlare piuttosto di “globalizzazioni”. La globalizzazione non designerebbe quindi più «un processo mondiale globale che include tutta l’umanità», ma una moltitudine di processi diversi nel mondo, in corso contemporaneamente o in momenti diversi, che possono (o potrebbero) essere in qualche modo interconnessi (o meno).

A grandi linee, quando si parla di globalizzazione, ci sono due punti di vista raramente separati in modo sufficientemente chiaro che spiegano perché è così facile che ci si fraintenda su questo argomento. Da un lato, per globalizzazione si intendono ricette di politica economica che si basano su una teoria economica, o piuttosto su un’ideologia. È così che i “critici della globalizzazione” degli anni Duemila comprendevano il termine. Questa ideologia e le ricette (spesso indigeste) venivano guarnite con narrazioni sulle promesse della globalizzazione. Dall’altro lato, con il termine “globalizzazione” vengono etichettati processi reali, come ad esempio la crescita del commercio internazionale, l’aumento dei flussi di capitale transfrontalieri o il peso delle imprese multinazionali. L’elenco potrebbe continuare a lungo.

Spesso si presume che le ricette alimentate dall’ideologia conducano linearmente ai processi reali misurabili, per esempio che l’eliminazione delle barriere commerciali e dei controlli sui movimenti di capitali abbia causato la rapida crescita del commercio globale. Eppure, la questione non è così semplice, perché una quota considerevole di tale crescita è dovuta direttamente o indirettamente al fatto che la Cina è diventata la “fabbrica del mondo”. Il Paese asiatico però è stato molto selettivo nell’eliminare le barriere commerciali, non ha mai liberalizzato i movimenti di capitale e ha mantenuto il controllo statale anche in altri settori.
In questo caso abbiamo a che fare piuttosto con una miscela di ideologia, ricette e sviluppi reali che si può riassumere come segue: la trasformazione del capitalismo globale è stata guidata a partire dagli anni Settanta da un’ideologia economica accolta con entusiasmo dalle multinazionali e dai governi occidentali. Le ricette di politica economica che ne sono derivate e che sono state applicate dai governi hanno favorito l’emergere delle multinazionali e hanno scatenato quattro processi globali fondamentali: la rapida crescita del commercio internazionale, la delocalizzazione della produzione industriale nei Paesi meno “sviluppati” (Cina compresa), l’aumento delle migrazioni sud-nord (soprattutto negli Stati Uniti, in Europa anche da est a ovest) e, soprattutto, l’estrema crescita, a partire dagli anni Settanta, del settore finanziario e della sua importanza per l’economia e la politica fiscale all’interno dei Paesi e al di là delle frontiere.

L’ideologia

L’ideologia economica viene comunemente definita neoliberismo, ma “neoliberismo” presenta esattamente lo stesso problema di “globalizzazione”: due persone in una stanza capiscono tre cose diverse quando sentono questo termine. Lo storico statunitense Quinn Slobodian ci viene in soccorso. Nel libro «Globalists – The End of Empire and the Birth of Neoliberalism» (2018) distingue due concetti neoliberali: il più noto proviene da Chicago, l’altro da Ginevra. Il primo consiste in un maggiore “laissez-faire” e in un numero sempre minore di confini statali (nazionali), cioè in mercati autoregolati che sostituiscono sempre di più sistemi di stato indeboliti in quanto forze strutturanti di una società. Ossia, per parafrasare il PLR svizzero degli anni ’70: più mercato, meno Stato. Gli economisti neoliberali della scuola di Chicago, che annovera tra i maggiori esponenti l’economista statunitense Milton Friedman, sognavano un mercato mondiale unico e onnicomprensivo, in cui la politica giochi un ruolo solo laddove il mercato non funzioni. Secondo le idee di Friedman e dei suoi adepti, in realtà ciò non dovrebbe essere il caso eccetto per le questioni di sicurezza (esercito e polizia).

A questa idea di globalizzazione neoliberale quale processo mondiale in cui le forze del libero mercato giungono a pieno compimento autonomamente, Slobodian contrappone il gruppo ginevrino di pensiero neoliberale avanguardista. Il gruppo si è costituito negli anni ’30 presso l’università di Ginevra - proprio dove l’ONU ha la sua seconda sede. La «Geneva School», che comprendeva gli economisti Willhelm Röpke, Ludwig von Mises e Michael Heilperin, al contrario della scuola di Chicago non voleva «liberare il mercato dallo Stato», ma mettere lo Stato al servizio del mercato, con l’obiettivo principale di garantire il diritto alla proprietà privata non solo in un particolare Stato nazionale, ma in tutto il mondo. Slobodian scrive che per i «Geneva boys» era importante dare al mercato dello Stato un quadro globale di diritto (privato) e di elevare così a livello sovranazionale i meccanismi che servono a incrementare la proprietà privata – senza la palla al piede delle regole restrittive di uno Stato sociale redistributivo.

Le ricette

Le ricette basate sull’ideologia di politica economica dei neoliberisti di vario stampo nel 1989 sono poi state designate «Washington Consensus», perché sostenute dalle istituzioni che vi hanno sede: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, oltre al ministero delle finanze USA. In realtà, «Consenso di Washington, Ginevra (OMC - commercio), Parigi (OCSE - politica fiscale) e Bruxelles (UE)» sarebbe più preciso. Sviluppatosi originariamente in reazione alla crisi del debito dell’America Latina, il fulcro di questo programma consisteva nella concorrenza (in particolare nello smantellamento dello Stato sociale), nella deregolamentazione (commercio e movimenti di capitale) e nella privatizzazione. In cambio di nuovi prestiti, questo “consenso” è stato imposto ai Paesi indebitati dell’America Latina e dell’Africa negli anni ’80 attraverso i cosiddetti programmi di aggiustamento strutturale – un periodo che in seguito è stato spesso definito il «decennio perduto», poiché la povertà è aumentata vertiginosamente in molti Paesi.

A trainare questa agenda e ad approfittarne sono state le multinazionali e soprattutto le banche e altri attori finanziari. Lo ha ben sottolineato il direttore di ABB Percy Barnevik riassumendo in poche parole il programma del gruppo nel 2000: «Definisco la globalizzazione come la libertà del nostro gruppo aziendale di investire dove e quando vuole, di produrre ciò che vuole, di comprare e vendere dove vuole e di ridurre al minimo tutte le restrizioni imposte dalle leggi sul lavoro o da altre normative sociali».

Un punto di svolta decisivo è stato il crollo dell’Unione Sovietica nel mese di dicembre del 1991. Con la fine del “blocco orientale” era rimasta una sola superpotenza e ora le ricette potevano essere applicate a livello globale. Le grandi vittime di queste ricette, dopo i Paesi del Sud del mondo, sono stati i Paesi dell'ex Unione Sovietica: i consulenti economici statunitensi convinsero i loro governi ad applicare il consenso di Washington come terapia d’urto. Con il risultato che l’industria locale scomparve quasi del tutto e pochi poterono accaparrarsi le ricchezze nazionali e le materie prime che ancora rimanevano quale settore dominante dell’economia. Senza consenso di Washington, niente oligarchi.

Le promesse della globalizzazione

Le ideologie della globalizzazione e le relative ricette andavano di pari passo con una serie di narrazioni e di promesse, alcune delle quali vengono diffuse ancora oggi, nonostante le prove contrastanti. Per esempio, che l’economia mondiale porti la prosperità perpetua a tutti i Paesi che si impegnano davvero e con coerenza nel libero scambio e nella libera circolazione dei capitali. Che lo sviluppo economico generato grazie alla globalizzazione porti alla diffusione dei valori occidentali e, in ultima analisi, a un mondo di Stati democratici che cooperano pacificamente. O ancora, che la “governance globale” accresca il potere dei governi e risolverà i problemi comuni del mondo.

È ormai sempre più evidente che nessuna di queste promesse è stata mantenuta: mentre la povertà è diminuita in alcuni Paesi, soprattutto asiatici (che non hanno sostenuto il consenso di Washington o lo hanno sostenuto solo in parte), nel contempo il divario a livello globale è aumentato. L’economista Thomas Piketty mostra che tra il 1980 e il 2014 i redditi della metà più povera della popolazione mondiale sono aumentati del 21%, mentre nello stesso periodo i redditi dello 0,1% più ricco sono aumentati del 617%. Mentre la liberalizzazione del commercio e l’emergere di catene globali del valore hanno estremamente rafforzato il potere di mercato di alcune imprese, i sindacati sono stati indeboliti in tutto il mondo, le prestazioni sociali sono state tagliate e in molti luoghi è iniziata una corsa al ribasso dei salari. E invece della libertà, della democrazia e dei diritti umani promessi dalla narrazione, in realtà oggi sempre più persone sono confrontate con la repressione e l’oppressione.

L’ONG “Freedom House” constata che la democrazia oggi è sotto attacco da parte di leader e gruppi populisti in tutte le regioni del mondo, un attacco spesso accompagnato dalla repressione contro le minoranze o contro altri “nemici” costruiti. Allo stesso tempo, negli ultimi due decenni, i governi autocratici hanno esteso sempre più la loro influenza al di là dei propri confini, cercando di mettere a tacere i critici, rovesciare i governi democratici e rimodellare le norme e le istituzioni internazionali per servire i propri interessi. Ciò rende sempre più difficile anche la cooperazione in organismi globali come le Nazioni Unite.

Fine? Quale fine?

Anche se nessuna delle promesse della globalizzazione si è avverata, la guerra in Ucraina non segna certo la “fine della globalizzazione” come ideologia con le sue ricette politiche. Da un lato, anche prima della guerra, nessuna delle istituzioni del consenso di Washington, Ginevra, Parigi e Bruxelles sosteneva ancora indistintamente le stesse ricette di prima della crisi finanziaria del 2007. Dall’altro, le istituzioni finanziarie internazionali, ancora dominate dall’Occidente, continuano a diffondere tranquillamente parti di questa ideologia nonostante la crisi climatica sempre più acuta, le ricorrenti crisi economiche e alimentari e le crisi del debito che si aggravano abbiano in realtà già da tempo dimostrato l’inadeguatezza di queste ricette. Purtroppo non c’è da aspettarsi che la guerra possa cambiare le cose.

La guerra contro l’Ucraina sta forse portando a una battuta d’arresto o addirittura a un’inversione di tendenza della reale integrazione economica mondiale? È altamente improbabile, anche se alcune catene del valore cambieranno o si accorceranno. Che la Russia nella morsa delle sanzioni e alcuni stati vassalli formino uno spazio economico eurasiatico chiuso è da escludere. L’Occidente (compreso il Giappone) è troppo importante per la Cina dal punto di vista economico.

E ora?

L’ideologia della globalizzazione ha sempre meno appigli per legittimarsi. Le molteplici crisi dimostrano chiaramente che l’attuale modello di economia globale non è in grado di garantire pace, libertà, salute e benessere per tutti. Che stia distruggendo il Pianeta in ogni caso è ovvio. Qual è dunque la via da seguire?

Innanzitutto, abbiamo bisogno di una nuova ideologia che, invece di concentrarsi sulla crescita economica “eterna”, sulla massimizzazione del profitto e sugli interessi personali a breve termine, sia focalizzata sulle nostre interdipendenze, sul nostro inserimento nell’ambiente naturale e sui nostri interessi comuni e a lungo termine.

Dopodiché abbiamo bisogno di una politica economica e di sviluppo che si ponga l’obiettivo di realizzare i diritti universali dell’uomo per tutte le persone sulla Terra e che promuova la loro realizzazione globale, invece di ostacolarla. Infine, questa nuova politica di sviluppo deve essere in grado di indicare come poterlo fare in armonia con i limiti del pianeta. Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile nel quadro dell’Agenda 2030 dovrebbero fungere da orientamento.

Per realizzare la grande trasformazione di cui abbiamo bisogno non c’è un piano generale né una mappa: occorrono innumerevoli esperimenti, processi di ricerca e confronti politici, dalle fondamenta fino ai forum internazionali della “governance globale”. Come già rilevò il movimento anti-globalizzazione negli anni ’90 in risposta al «There is no alternative» dell’ex prima ministra britannica Margaret Thatcher: «There are thousands of alternatives».

Articolo apparso in versione accorciata su "LaRegione" del 19 luglio 2022.

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Chi teme le ONG? (parte 2)

24.03.2021, Cooperazione internazionale

La nostra democrazia beneficia del fatto che una varietà di attori porta la sua esperienza, le sue opinioni e le sue preoccupazioni al dibattito politico.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Chi teme le ONG? (parte 2)

La sensibilizzazione è anche nel "menu" della società civile. L'Università delle Arti di Zurigo (nella foto, il Toni-Areal) gestisce un centro per l'arte e la costruzione della pace in collaborazione con l'artasfoundation.
© Christian Beutler / Keystone

La nostra democrazia beneficia del fatto che al dibattito politico partecipano molteplici attori, ognuno con le proprie specializzazioni, opinioni ed esigenze. Oltre ai vari attori economici e ad altri gruppi della società civile (come i sindacati o gli attori nell’ambito dell’educazione), anche le ONG che operano nell'interesse generale contribuiscono al dibattito democratico nel nostro Paese. Contrariamente ai rappresentanti dell’economia, che generalmente difendono i propri interessi, queste ONG si battono per cause ambientali o sociali senza scopo di lucro, conformemente al loro mandato. Il loro impegno politico è finanziato mediante le quote associative e i fondi raccolti per scopi politici specifici.

Mentre diverse personalità politiche borghesi siedono nei consigli di amministrazione del settore privato, appaiono regolarmente agli eventi di lobbying delle associazioni economiche e si oppongono spesso con veemenza a una maggiore trasparenza delle donazioni ai partiti (visto che probabilmente renderebbe determinati legami ancora più evidenti), le ONG di cooperazione allo sviluppo dovrebbero essere esaminate con la lente d’ingrandimento alla ricerca di eventuali legami politici e rappresentazioni di interessi. Allo stesso tempo, il fatto che anche altri attori e associazioni, che beneficiano di sovvenzioni statali e di altri contributi pubblici, lancino ugualmente campagne di informazione e interferiscano nelle campagne di votazione non sembra preoccupare quelle stesse personalità politiche che vogliono zittire politicamente le ONG.

Un «divieto politico» generale per le ONG che percepiscono fondi pubblici metterebbe probabilmente a tacere molte voci critiche e consoliderebbe il dominio dei lobbisti del mondo economico. Anche se questo è quello che si augurano alcuni esponenti politici borghesi, un tale divieto rappresenterebbe una dichiarazione di fallimento per un Paese che ama sottolineare la sua democrazia, la sua apertura al mondo e la sua tradizione umanitaria. Eppure, se le ONG non avessero più il diritto di svolgere attività politiche, anche per tutti gli altri contributi e le altre sovvenzioni della Confederazione si dovrebbe esaminare se i beneficiari si impegnano in ambito politico e se, in tal caso, caso dovrebbero essere interrotti anche questi contributi statali. E ciò non sarebbe certo nell'interesse dei politici interessati.

Le attività educative al centro dell'Agenda 2030

All’indomani della votazione sull’iniziativa per multinazionali responsabili, tuttavia, le attività politiche delle ONG non sono state l’unico elemento al centro delle critiche. Anche le attività di educazione e sensibilizzazione in Svizzera sono state messe in discussione. In dicembre, infatti, la DSC ha annunciato senza preavviso (probabilmente su pressione del capo del dipartimento) che non avrebbe più potuto cofinanziare le attività di educazione e sensibilizzazione delle ONG in Svizzera. Questa decisione è tanto più sorprendente se si considera che un anno prima la DSC aveva adottato nuove linee direttrici per la collaborazione con le ONG, in cui si specifica che uno dei compiti principali delle ONG svizzere «consiste nell’informare e sensibilizzare l’opinione pubblica svizzera, e in particolare i giovani, in merito alle sfide globali e allo stretto nesso tra pace, sicurezza, sviluppo sostenibile e benessere» (Direttive della DSC per la cooperazione con le ONG svizzere, 2019).

La sensibilizzazione e l'educazione relative ai temi dello sviluppo sostenibile (compresa la cooperazione allo sviluppo) costituiscono a loro volta un elemento chiave dell'Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile, sottoscritta anche dal nostro Paese. Con i suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS), l'Agenda 2030 si rivolge a tutti i Paesi, non solo a quelli in via di sviluppo. Chiede un cambiamento radicale nella cooperazione internazionale e invita tutti i Paesi a rendere sostenibile ogni ambito politico, considerando anche le interdipendenze globali. La sensibilizzazione e l'educazione sono essenziali per raggiungere gli OSS: per esempio, l'OSS 4 richiede che tutti i Paesi garantiscano entro il 2030 l’acquisizione, da parte di tutti gli studenti, della conoscenza e delle competenze necessarie a promuovere lo sviluppo sostenibile. Ciò comprende un’educazione volta ad uno sviluppo e uno stile di vita sostenibile, ai diritti umani, alla parità di genere, alla promozione di una cultura pacifica e non violenta, alla cittadinanza globale e alla valorizzazione delle diversità culturali e del contributo della cultura allo sviluppo sostenibile. L'educazione allo sviluppo sostenibile ha un ruolo importante anche nel quadro della Strategia per uno sviluppo sostenibile (SSS) 2030 della Svizzera, la cui consultazione si è appena conclusa.

Sebbene le ONG siano ancora autorizzate a svolgere attività di educazione e di sensibilizzazione in Svizzera (nella misura in cui riescono a mobilitare fondi a questo scopo in altro modo), l'esclusione ufficiale dell'educazione e della sensibilizzazione dai contratti programmatici della DSC con le ONG è un grande passo indietro nella comprensione della cooperazione allo sviluppo. In futuro le ONG dovrebbero concentrarsi nuovamente sull’assistenza all'estero — come auspica anche la consigliera nazionale Schneider-Schneiter — e astenersi dal sottolineare le interdipendenze mondiali. Per esempio, le ONG possono sostenere una campagna contro il lavoro minorile in Costa d'Avorio, ma non dovrebbero menzionare che anche le multinazionali svizzere traggono profitto vantaggiosamente dal lavoro dei bambini; possono scavare pozzi in Tanzania, ma non dovrebbero menzionare che sono le attività minerarie irresponsabili delle multinazionali a contribuire massicciamente alla scarsità d'acqua; possono occuparsi delle vittime della crisi climatica in Bangladesh, ma non dovrebbero menzionare che anche il nostro stile di vita, la nostra piazza finanziaria e la nostra industria contribuiscono in larga misura al riscaldamento globale.

La Svizzera ignora le raccomandazioni dell'OCSE

Un processo di revisione tra pari (peer review) del Comitato di aiuto allo sviluppo (CAS) dell'OCSE ha valutato la cooperazione allo sviluppo della Svizzera nel 2019 e ha avanzato diverse proposte di miglioramento (come si vede dal confronto con OCSE DAC 2019). L'OCSE critica, in primo luogo, la mancanza di analisi e, soprattutto, l'assenza di dibattito sull'impatto delle politiche nazionali (per esempio finanziarie, agricole o commerciali) sui Paesi in via di sviluppo. Chiede alla Svizzera di «diffondere e discutere di tali analisi sia in seno al governo che nella società svizzera in generale». Nel contempo l'OCSE osserva che la Svizzera continua ad ottenere scarsi risultati negli ambiti della comunicazione e della sensibilizzazione dell'opinione pubblica sulle tematiche della cooperazione allo sviluppo. Raccomanda quindi al Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) di finanziare e attuare strategie di comunicazione e di sensibilizzazione per il suo programma di sviluppo. Tale approccio dovrebbe permettere alla DSC di comunicare in maniera proattiva per rafforzare il sostegno politico e pubblico alla cooperazione allo sviluppo. Tuttavia, la recente decisione del DFAE va nella direzione opposta, come critica anche l'ex consigliera federale Micheline Calmy-Rey esponendo la sua opinione in un articolo apparso su «Weltwoche», settimanale con sede a Zurigo. La DSC continua a essere sotto tutela in materia di comunicazione e le ONG sono invitate a non comunicare riguardo a questioni di coerenza politica. Rimane da augurarsi che il Parlamento si renda conto che la democrazia svizzera può solo beneficiare di una popolazione illuminata, ben informata e politicamente attiva e di una società civile forte.

Pubblicato il 14 aprile 2021

Su Il corriere dell'Italianità

(Traduzione Nina Nembrini)

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Chi teme le ONG? (parte 1)

23.03.2021, Cooperazione internazionale

In novembre, l'Iniziativa per multinazionali responsabili è stata respinta di poco dalla maggioranza dei Cantoni. Le associazioni economiche conservatrici hanno potuto tirare un sospiro di sollievo. Ma il contraccolpo non si è fatto attendere ...

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Chi teme le ONG? (parte 1)
Test di ammissione scritto presso la HSG di San Gallo per i candidati stranieri. Anche la società civile svizzera è messa alla prova, anche se ha superato da tempo il test della democrazia.
© Ennio Leanza / Keystone

Raramente un'iniziativa popolare ha fatto tanto scalpore come quella delle multinazionali responsabili. Già mesi, se non anni prima della votazione, i giornali ne parlavano regolarmente; le bandiere arancioni e le molteplici attività di numerosi comitati locali le avevano conferito visibilità tra la popolazione. Per la prima volta nella storia politica svizzera, un'ampia coalizione di 130 Organizzazioni non governative - ONG, numerosi rappresentanti delle Chiese e dell'economia, parlamentari di tutti i partiti politici e migliaia di volontari si sono uniti per perseguire lo stesso scopo. Anche se alla fine l'iniziativa non è riuscita a conquistare la maggioranza dei Cantoni, ha comunque dimostrato ciò che la società civile e soprattutto le ONG possono ottenere quando uniscono le loro forze. Tuttavia, quello che si potrebbe interpretare come segnale positivo di una democrazia vivace e di una popolazione interessata sembra non piacere a tutti.

I liberali vogliono vietare la politica alle ONG

Ancora prima della votazione, Ruedi Noser (consigliere agli Stati PLR e tra i primi oppositori dell'iniziativa) aveva presentato una mozione che chiede alla Confederazione di esaminare se le condizioni dell'esenzione fiscale per le organizzazioni di pubblica utilità (cioè le ONG) che perseguono obiettivi politici sono ancora soddisfatte o se l'esenzione fiscale deve essere revocata. Nella sua risposta, fondata su basi giuridiche, il Consiglio federale propone tuttavia di respingere la mozione. Innanzitutto, specifica le attività che promuovono l'interesse generale, cioè «l'assistenza sociale, l'arte e le scienze, l'insegnamento, la promozione dei diritti umani, la protezione del paesaggio, della natura e degli animali nonché l'aiuto allo sviluppo». Sottolinea inoltre che nel caso delle «organizzazioni esentate da imposte, possono crearsi anche legami con temi politici (ad esempio nel caso delle organizzazioni impegnate nella tutela dell'ambiente, dei disabili, della salute, dei diritti umani, ecc.)». Il Consiglio federale precisa anche che «il sostegno materiale o ideale di iniziative o referendum non si oppone all'esenzione fiscale». La mozione sarà dapprima discussa in seno alla Commissione dell'economia e dei tributi del Consiglio degli Stati (CET-CS) e poi verrà riesaminata nello stesso Consiglio degli Stati.

In seguito alla votazione sull'iniziativa per multinazionali responsabili si è scatenata una tempesta in Parlamento, che ha generato tutta una serie di interrogazioni, interpellanze, postulati e mozioni che mettono in discussione il ruolo politico delle ONG. Per esempio, la consigliera nazionale Elisabeth Schneider-Schneiter (PPD) ha presentato un postulato per chiedere al Consiglio federale di redigere un rapporto che indichi quali attività delle ONG vengono finanziate con quali fondi e su quali basi giuridiche, nonché quali rappresentanti politici siedono negli organi direttivi di queste ONG. Motivazione della richiesta: «le organizzazioni di aiuto allo sviluppo si occupano sempre più spesso di politica di sviluppo in Svizzera invece di fornire assistenza concreta all'estero». Inoltre, una mozione del consigliere nazionale Hans-Peter Portmann (PLR) chiede al Consiglio federale di esaminare l'opportunità di fornire un sostegno statale ai progetti di cooperazione internazionale di ONG che hanno partecipato a campagne politiche e di interrompere, se è il caso, tali sovvenzioni.

Sembra che questi interventi parlamentari cerchino di evitare un dibattito critico sul ruolo politico delle associazioni e dei think tank vicini al mondo economico, che in qualità di attori non governativi fanno pur parte delle ONG. Solo le ONG nell’ambito della cooperazione allo sviluppo sono infatti esplicitamente menzionate. Tuttavia, il finanziamento delle attività politiche di ONG con fondi della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) è sempre stato escluso per contratto. È ovvio che la Confederazione non voglia investire denaro pubblico in campagne politiche, però un divieto politico generale per le ONG che ricevono finanziamenti federali sarebbe non solo assurdo, ma anche particolarmente problematico.

(continua qui)

Noch selten hat eine Volksinitiative für so viel Furore gesorgt wie die Konzernverantwortungsinitiative (KVI). Schon Monate, gar Jahre vor der Abstimmung stand sie immer wieder in den Schlagzeilen und war auch dank der orangen Fahnen und der vielfältigen Aktivitäten zahlreicher Lokalkomitees bei der Bevölkerung sehr präsent. Zum ersten Mal in der Schweizer Politgeschichte zog eine breit abgestützte Koalition aus 130 NGOs, zahlreichen KirchenvertreterInnen, WirtschaftsvertreterInnen, ParlamentarierInnen aus allen politischen Parteien sowie Tausenden von Freiwilligen am gleichen Strick. Auch wenn die Initiative schlussendlich am Ständemehr scheiterte, zeigte sie doch, was die Zivilgesellschaft und allen voran die NGOs erreichen können, wenn sie ihre Kräfte bündeln. Was eigentlich als positives Zeichen einer lebendigen Demokratie und einer interessierten Bevölkerung gedeutet werden könnte, scheint jedoch nicht allen zu passen.

Liberale wollen Politikverbot für NGOs

Schon bevor es zur Abstimmung kam, reichte Ruedi Noser (FDP-Ständerat und KVI-Gegner der ersten Stunde) eine Motion ein, mit der er den Bund beauftragte zu prüfen, ob die Voraussetzungen für eine Steuerbefreiung bei gemeinnützig tätigen Organisationen (sprich NGOs), die sich politisch engagieren, noch gegeben seien oder ob die Steuerbefreiung andernfalls aufzuheben sei. Der Bundesrat beantragt allerdings in seiner rechtlich fundierten Antwort die Ablehnung dieser Motion. Er hält fest, welche Tätigkeiten als das Gemeinwohl fördernd gelten, namentlich «die soziale Fürsorge, die Kunst und Wissenschaft, der Unterricht, die Förderung der Menschenrechte, der Heimat-, Natur- und Tierschutz sowie die Entwicklungshilfe». Gleichzeitig zeigt er auf, dass sich bei «steuerbefreiten Organisationen auch Schnittstellen zu politischen Themen ergeben (so z. B. bei Umweltorganisationen, Behindertenorganisationen, Gesundheitsorganisationen, Menschenrechtsorganisationen etc.)». Der Bundesrat hält zudem fest, dass «die materielle oder ideelle Unterstützung von Initiativen oder Referenden einer Steuerbefreiung grundsätzlich nicht entgegenstehen». Die Motion wird nun zuerst in der ständerätlichen Kommission für Wirtschaft und Abgaben (WAK) diskutiert, bevor sie im Ständerat wieder aufgenommen wird.

Nach der KVI-Abstimmung ging ein Sturm im Parlament los, und es hagelte eine Reihe von Fragen, Interpellationen, Postulaten und Motionen, die allesamt die politische Rolle der NGOs in Frage stellen. So verlangt etwa Nationalrätin Elisabeth Schneider-Schneiter (CVP) in einem Postulat vom Bundesrat einen Bericht zur Frage, welche NGO-Tätigkeiten mit welchen Mitteln auf Basis welcher gesetzlichen Grundlage finanziert werden und welche politischen VertreterInnen in den Steuerungsorganen Einsitz nehmen. Begründet wird ihr Vorstoss damit, dass sich «Entwicklungshilfeorganisationen immer mehr mit entwicklungspolitischen Forderungen im Inland, statt mit konkreter Entwicklungshilfe im Ausland beschäftigen». Eine Motion von Nationalrat Hans-Peter Portmann (FDP) verlangt vom Bundesrat die Überprüfung der staatlichen Unterstützungen an Projekte der internationalen Zusammenarbeit von Nichtregierungsorganisationen (NGOs), die sich an politischen Kampagnen beteiligt haben, und diese Unterstützung bei Bedarf einzustellen.

Eine kritische Diskussion über die politische Rolle von wirtschaftsnahen Verbänden und Think Tanks, die als nicht-staatliche Akteure eigentlich ebenfalls zu den NGOs gehören, soll mit diesen Vorstössen anscheinend vermieden werden. Es ist darum ausdrücklich nur von NGOs im Bereich der Entwicklungszusammenarbeit die Rede. Nur: Die politische Arbeit der NGOs mit Geldern der Direktion für Entwicklung und Zusammenarbeit (DEZA) war schon immer vertraglich ausgeschlossen. Es macht Sinn, dass der Bund keine Steuergelder in politische Kampagnen stecken will – ein generelles Politikverbot für NGOs, die Bundesgelder erhalten, wäre aber ebenso absurd wie höchst problematisch.

(weiter zum Teil 2)

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Articolo

Per una “comunicazione responsabile”

01.10.2020, Cooperazione internazionale

Alliance Sud ha elaborato insieme alle sue organizzazioni membri e ai suoi partner un manifesto per una comunicazione responsabile della cooperazione internazionale.

Marco Fähndrich
Marco Fähndrich

Responsabile della comunicazione e dei media

Per una “comunicazione responsabile”

Il cantante britannico Ed Sheeran in Liberia. Spesso le celebrità si mettono a disposizione per buone azioni (e immagini), anche in Svizzera: in tal modo si consolida una concezione paternalista della cooperazione internazionale.
© Foto: Comic Relief.

Oltre ai media e alla politica, le organizzazioni non governative (ONG) modellano la percezione pubblica del Sud attraverso il loro lavoro di relazioni pubbliche e la raccolta di fondi. In questo contesto, anche degli stereotipi vengono trasmessi nella comunicazione: le immagini paternalistiche dello sviluppo veicolano l'idea che i Paesi sviluppati mostrino ai Paesi “sottosviluppati” come fare le cose correttamente. Gli abitanti del Sud sono presentati come degli oggetti e dei destinatari di aiuti o sostegni, mentre le organizzazioni di sviluppo e le loro collaboratrici e i loro collaboratori sono dei soggetti ed esperti che agiscono.

In diverse attività di comunicazione, il contesto nel quale si iscrive la cooperazione allo sviluppo è raramente affrontato, in particolare le cause strutturali della povertà e dell'esclusione. Anche le relazioni sistemiche, cioè le condizioni politiche, economiche e sociali, sono spesso trascurate. Di conseguenza, il pubblico ha poche idee concrete sul funzionamento e gli effetti della cooperazione allo sviluppo. Inoltre, spesso sorgono contraddizioni e incoerenze tra il lavoro di campagna per la politica di sviluppo e la pubblicità per le donazioni; queste minacciano di erodere la fiducia nelle ONG.

Il presente manifesto offre una guida per le collaboratrici e i collaboratori delle ONG della cooperazione internazionale. Il nucleo è costituito da linee guida interne al settore per una comunicazione responsabile nella cooperazione internazionale, che servono come impegno personale verso il pubblico. L'obiettivo non è quello di raggiungere la perfezione, ma di riflettere sul proprio lavoro di comunicazione in modo autocritico e trasparente.

Interessata/o?

Anche altre organizzazioni attive nella cooperazione internazionale possono firmare il Manifesto e usarlo come linea guida per la loro comunicazione. Per farlo, contatta direttamente il responsabile della comunicazione di Alliance Sud (marco.faehndrich@alliancesud.ch).

Global, Opinione

Neutralità inflazionistiche

29.09.2022, Cooperazione internazionale

Per il 2020 o il 2021, l’ONU constata un degrado dell’indice di sviluppo umano nel 90 % dei Paesi. Il pianeta brucia, o è sommerso dall’acqua, e la Svizzera discute di neutralità piuttosto che di solidarietà.

Neutralità inflazionistiche

© Parlamentsdienste 3003 Bern

Cassis, Pfister, Blocher: questi tre illustri signori tentano di profilarsi attribuendo alla parola neutralità un aggettivo. Ma prima parliamo del sostantivo: la neutralità della Svizzera era vitale finché i Paesi confinanti erano in guerra. Fu il caso durante quella franco-tedesca del 1871 e ancor di più durante la Prima Guerra mondiale, quando le differenti simpatie per i belligeranti divisero il Paese.  

Durante la Seconda Guerra mondiale, la neutralità è stata accompagnata da un altro elemento ben conosciuto: l’affarismo con i belligeranti. Fino al 1944, alcune imprese elvetiche hanno fornito grandi quantità d’armamenti alla Germania nazista. Durante la guerra si poteva ancora parlare di una situazione di emergenza, ma in seguito l’affarismo è rimasto, mentre la neutralità ha assunto una parvenza benevola. La neutralità, intesa come «facciamo affari con tutti e non ci preoccupiamo delle sanzioni», è stata una delle tre ragioni (con la piazza finanziaria e le leggi fiscali) grazie alle quali la Svizzera è diventata la piattaforma mondiale del commercio di materie prime.

Non essendo membro dell'ONU, fino agli anni Novanta la Svizzera non ha rispettato le sanzioni dell'ONU, ad esempio contro la Rhodesia (diventata Zimbabwe) o il Sudafrica dell’apartheid. Marc Rich, il padrino del commercio svizzero di materie prime, la cui impresa è diventata Glencore e i cui «Rich-Boys» hanno fondato società come Trafigura, ha parlato del commercio petrolifero con il regime iniquo dell’Africa australe come del suo affare più importante e più redditizio. Ma anche i commercianti di cereali stabiliti sulle rive del Lemano hanno approfittato dell’embargo sui cereali imposto dagli Stati Uniti all’Unione sovietica e hanno quindi sfruttato la situazione, sebbene la Svizzera non fu del tutto neutrale a livello ideologico e pratico (v. l’affare Crypto) durante la guerra fredda.  

Passiamo agli aggettivi: la «neutralità cooperativa» d'Ignazio Cassis avrebbe relativizzato l’affarismo, definendo chiaramente il nuovo status quo dopo l’invasione russa dell’Ucraina (con l’applicazione delle sanzioni UE). Ma il Consiglio federale ha risposto picche all’aggettivo del presidente della Confederazione.  

La «neutralità decisionista» del presidente dell’Alleanza di Centro Gerhard Pfister è meno chiara. Se si legge la sua recente intervista nel giornale Le Temps, i «diritti umani, la democrazia e la libertà d’espressione» limiterebbero l’affarismo. Stando all’intervista accordata ai giornali di Tamedia, si tratta piuttosto dei valori del «modello economico e sociale occidentale», ossia «lo Stato di diritto, la sicurezza della proprietà privata e il benessere sociale».

La «neutralità integrale» dell’ex consigliere federale Christoph Blocher vuole invece un ritorno all’affarismo assoluto. Già tempo fa l’aveva difeso contro gli oppositori dell’apartheid. Il Gruppo di lavoro Africa del Sud (ASA), che ha fondato e presieduto, è insorto contro le sanzioni e ha dato una piattaforma ai politici di destra e ai militari sudafricani per far passare i loro messaggi disumani. L'ASA ha pure organizzato viaggi propagandistici, all’insegna di «Sulle tracce dei boeri».

Anch’io avrei ancora degli aggettivi d’aggiungere, perché ciò che sarebbe più approppriato per la Svizzera sarebbe una neutralità «compassionevole» (rifugiati) e «compatibile con il mondo» (i diritti umani prima dell’affarismo).      

Articolo pubblicato dal Corriere del Ticino il 21 settembre 2022

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«La solidarietà è il prerequisito per la pace»

03.10.2022, Cooperazione internazionale

L’ex consigliera nazionale Regula Rytz prosegue il suo impegno a livello internazionale come nuova presidente di Helvetas. A suo avviso, le molteplici crisi attuali mostrano l’importanza della cooperazione allo sviluppo.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Marco Fähndrich
Marco Fähndrich

Responsabile della comunicazione e dei media

«La solidarietà è il prerequisito per la pace»
Regula Rytz ha alle spalle una lunga carriera politica, dal piano cantonale fino a quello nazionale come Presidente dei Verdi Svizzeri.
© Daniel Rihs / Alliance Sud

Intervista di Kristina Lanz, Andreas Missbach e Marco Fähndrich (pubblicata su «La Regione» il 6 ottobre 2022)

Fino a questa primavera sedeva ancora in Consiglio nazionale, da giugno è la nuova presidente di Helvetas. Cosa la entusiasma di più del suo nuovo ruolo?
Regula Rytz: il mondo è scosso da crisi. Mi preoccupano molto le conseguenze sociali, qui in Svizzera e soprattutto dove le persone da tempo devono lottare per sopravvivere o per avere un tetto sopra la testa. Helvetas apporta miglioramenti concreti: questo per me è più importante che mai.

Le mancherà qualcosa della vita politica quotidiana a Palazzo federale?
Il lavoro nelle commissioni, ovvero dove si cercano soluzioni con colleghi e colleghe di altri partiti. La crescente polarizzazione, invece, non mi mancherà affatto.

Ci sono Paesi del Sud del mondo con i quali ha un legame personale?
Mio marito da bambino è stato in Nepal con i suoi genitori, che lavoravano per l’organizzazione precedente alla Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC). Anche Helvetas, all’epoca, operava già sul posto. Io stessa ho avuto modo di visitare il Nepal tre volte e ho potuto vedere come la cooperazione allo sviluppo sia cambiata nel corso degli anni. In passato si investiva soprattutto in progetti infrastrutturali come le strade; oggi si promuove molto di più anche l’economia locale, ad esempio mediante la formazione professionale.

In futuro Helvetas si impegnerà maggiormente in ambito politico a livello nazionale?
Per questo c’è Alliance Sud, che fa un lavoro eccellente. Il nostro obiettivo primario rimane il lavoro sul campo: collaboriamo con la DSC e le autorità locali, ma anche con le ONG locali e con il settore privato. Oltre a ciò ha sempre fatto parte delle nostre attività sensibilizzare la popolazione svizzera sulle interrelazioni globali e chiedere una maggiore coerenza delle politiche.

Lei siede anche nel consiglio di fondazione della “Fondation Gobat pour la Paix”. Cosa può insegnarci oggi Albert Gobat, dimenticato premio Nobel per la pace ed ex membro del governo nel Canton Berna?
Albert Gobat creò l’Unione interparlamentare prima della Prima guerra mondiale con l’obiettivo di riunire persone di tutti i Paesi e di tutti i partiti e di evitare in tal modo una spirale di violenza. Questo ci dimostra che ci sono sempre persone che cercano un modo per risolvere i conflitti in modo pacifico e costruttivo. Ne abbiamo bisogno oggi più che mai. Tra l’altro, Gobat proveniva dal partito liberale e può essere un modello anche per il PLR odierno.

Intende per l’attuale ministro degli esteri e presidente della Confederazione Ignazio Cassis? A sentire lui, sembra che la Svizzera sia una delle migliori al mondo...
Dipende da qual è la Svizzera di cui stiamo parlando. Trovo notevole la grande solidarietà che la popolazione ha mostrato effettuando donazioni e ospitando i profughi ucraini. Anche la politica non è rimasta a guardare: la Confederazione ha aderito alle sanzioni e ha già fornito oltre 100 milioni di franchi per l’aiuto umanitario. Naturalmente si potrebbe e si dovrebbe fare di più, soprattutto nell’attuazione delle sanzioni. Anche la Conferenza di Lugano per la ricostruzione dell’Ucraina è stata un segnale positivo. Ma ora la Svizzera dovrebbe partecipare attivamente alla piattaforma europea per la ricostruzione.

Il ministro Cassis ha saltato la conferenza internazionale contro la crisi della fame che si è tenuta a Berlino a giugno: c’è il rischio che altre crisi, come quella alimentare o quella climatica, vengano dimenticate?
L’attenzione dell’opinione pubblica è concentrata sulla guerra in Ucraina perché ha una dimensione globale e coinvolge una potenza nucleare, certo. Ma la crisi della fame e la crisi climatica non possono essere trascurate nella loro drammaticità. Le persone da noi sono sempre più consapevoli che tutto è connesso. Secondo uno studio del Politecnico federale di Zurigo, la maggioranza della popolazione ritiene che la cooperazione internazionale debba essere ampliata. Porta stabilità e prospettive per il futuro.

La gente è solidale, ma non il Parlamento, che vuole aumentare in modo significativo le spese per l’esercito. Nei prossimi anni, a causa del freno all’indebitamento, ciò potrebbe portare a misure di risparmio nell’ambito della cooperazione internazionale. Cosa può fare la società civile?
Le sfide finanziarie sono grandi perché le crisi si sovrappongono. Il nostro compito è dimostrare che in questa situazione la cooperazione allo sviluppo dovrebbe essere rafforzata e non indebolita. Se non facciamo abbastanza per lottare contro la povertà e la fame nel mondo, i costi che ne deriveranno saranno enormi. Non dimentichiamo che la Svizzera non ha ancora raggiunto l’obiettivo dello 0,7% di aiuto pubblico allo sviluppo rispetto al reddito nazionale lordo.

L’anno prossimo si terranno le elezioni federali. I temi globali potranno giocarvi un ruolo?
Spero e mi aspetto che i partiti tematizzino i rischi globali, perché riguardano tutti noi. La pandemia di Covid-19 ce l’ha mostrato chiaramente. Oggi viviamo in un mondo altamente interconnesso in cui non è più possibile prescindere dal rafforzamento delle pari opportunità globali.

Secondo lei quali sono attualmente le maggiori sfide della cooperazione internazionale?

A causa dell’accumularsi di conflitti violenti e di eventi climatici estremi – basti pensare al Pakistan – l’aiuto umanitario è al momento molto richiesto. Salva vite umane e garantisce i bisogni primari delle persone nel breve periodo. Ma allo stesso tempo, non si possono trascurare la cooperazione allo sviluppo e la promozione della pace a lungo termine. Poiché solo con esse sono possibili prospettive sostenibili e opportunità eque per tutti, in modo che le persone possano liberarsi dalla povertà. Helvetas funge da anello di congiunzione tra questi livelli: nei campi profughi, ad esempio, non forniamo solo aiuti d’emergenza, ma anche possibilità di formazione.

Si critica spesso il fatto che la cooperazione allo sviluppo dei cosiddetti “white saviours” (salvatori bianchi) perpetui modelli postcoloniali. Vale anche per la Svizzera?
La critica non riguarda tanto la Svizzera quanto le grandi organizzazioni internazionali. La cooperazione svizzera allo sviluppo è radicata nel territorio. Anche Helvetas lavora da sempre a stretto contatto con i partner locali e la popolazione.  

Ma non si potrebbe informare meglio riguardo all’importante collaborazione con le organizzazioni locali?
Naturalmente. Tuttavia mostriamo già oggi con trasparenza quali sono i risultati del nostro lavoro e quanto sia centrale la popolazione locale per raggiungerli.
Cosa ne pensa della collaborazione con il settore privato? Si tratta piuttosto di un’opportunità o di un rischio?
Questo aspetto è sempre stato un punto forte della cooperazione svizzera allo sviluppo. In molti Paesi abbiamo fatto ottime esperienze con la promozione delle piccole e medie imprese e delle catene del valore locali. L’importante sono le regole del gioco: se tutte le aziende rispettano le norme di diritto del lavoro e dell’ambiente, anche le ingiustizie si ridurranno. Le imprese internazionali, in particolare, hanno un’enorme influenza in questo campo.

E che ruolo ha la politica in questo?
Per la popolazione è ovvio che le aziende svizzere debbano rispettare gli standard ambientali e i diritti umani anche all’estero. La discussione in merito all’iniziativa per multinazionali responsabili l’ha dimostrato. Se il Consiglio federale prende sul serio le sue promesse, la Svizzera deve finalmente rafforzare le leggi in materia.

L’Agenda 2030, con i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile, ha avuto finora un impatto limitato: in Svizzera è poco conosciuta e sempre più spesso viene strumentalizzata dalle aziende per il greenwashing. Dovremmo forse concentrarci piuttosto sulla realizzazione di singoli obiettivi?
Per coinvolgere le persone di solito ci vogliono temi concreti. Pertanto, ha certamente senso evidenziare i singoli obiettivi. Se per esempio altri Paesi non sono più in grado di fornire cibo a sufficienza a causa della crisi climatica, diventa un problema anche per noi in Svizzera. La soluzione sta nel collegare le politiche alimentari globali e nazionali.

E come possiamo fare in modo che la Svizzera si assuma maggiori responsabilità nella politica climatica estera?
Dobbiamo mostrare quanto siano grandi la nostra impronta ecologica e l’influenza della nostra piazza finanziaria e del commercio di materie prime. Purtroppo, molte conseguenze negative non si possono più evitare. La Svizzera deve sostenere meglio i Paesi più poveri nelle misure di protezione e adattamento. Ciò non può essere realizzato senza ulteriori possibilità di finanziamento.

Le crisi di oggi sono un’opportunità per il nostro lavoro?
Paradossalmente, è così: la crescente visibilità dei problemi può portare a una maggiore disponibilità ad agire. Quando all’improvviso le catene di approvvigionamento vacillano, quando mancano prodotti alimentari e c’è penuria di energia, c’è solo una via d’uscita: più cooperazione, giustizia ed eque opportunità. Mostrare e spiegare chiaramente ciò che la cooperazione allo sviluppo può realizzare è l’imperativo del momento.

Tuttavia, la maggior parte delle persone in Svizzera è più preoccupata per la propria pensione o per l’aumento dei costi sanitari che per la situazione in Africa orientale...  
La nostra qualità di vita dipende anche da come stanno le persone nei Paesi più poveri. Un mondo in cui molte persone sono perdenti è un mondo scomodo. Un mondo in cui molte persone non hanno più nulla da perdere è un mondo pericoloso. Da storica, so che è soprattutto in tempi di crisi che spesso si ricorre alla violenza. È dunque ancora più importante la solidarietà internazionale: è il prerequisito per la pace e la stabilità.

E cosa dice ai giovani che hanno perso ogni speranza?
Io sono cresciuta in tempi di guerra fredda: quando avevo 20 anni, mi aspettavo una guerra nucleare ogni giorno; questo mi ha spinto a impegnarmi politicamente. Lo so per esperienza: l’impegno tenace paga e ci sono molti sviluppi positivi.

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L’epoca dei “salvatori bianchi” è finita

05.12.2022, Cooperazione internazionale

Le disuguaglianze in termini di potere sono ancora un grosso problema nella cooperazione allo sviluppo. I cambiamenti sono in corso laddove vi è una seria riflessione sulla decolonizzazione.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

L’epoca dei “salvatori bianchi” è finita
Medico, filosofo, teologo, organista, Premio Nobel per la pace – e un "salvatore bianco"? Albert Schweitzer (1875 – 1965) a Lambarene, Gabun.
© The Granger Collection, New York / Keystone

La cooperazione allo sviluppo (CS) si è evoluta molto nel corso degli ultimi 30 anni. Nonostante vari progressi, nella mente dei più prevale ancora una concezione molto coloniale della CS: da un lato vi sono le popolazioni povere, per lo più scure di pelle, che apparentemente non riescono a liberarsi dalla povertà di propria iniziativa; dall’altro lato vi sono persone altruiste, per lo più bianche, che utilizzano al meglio le loro conoscenze e il loro know-how per aiutare i poveri.

Correggere questi preconcetti e trasferire il potere decisionale nelle relazioni tra Nord e Sud sono due aspetti al centro del dibattito sulla decolonizzazione della cooperazione allo sviluppo (decolonizing aid), che negli ultimi anni ha acquisito notevole slancio. Lanciato da organizzazioni del Sud del mondo, è ora ampiamente trattato anche in ambito accademico e da tempo è entrato a far parte del lavoro di molte organizzazioni non governative (ONG) internazionali.

Altruismo o colonialismo?

Nel 1949, in un discorso alla nazione, il Presidente degli Stati Uniti Truman parlò per la prima volta della necessità secondo la quale le nazioni ricche e “sviluppate” dovessero sfruttare i loro progressi per aiutare i Paesi più poveri e “sottosviluppati” a svilupparsi. Mentre la preoccupazione principale di Truman era quella di fermare l’ascesa del comunismo nei Paesi più poveri, il concetto fu adottato anche dalle potenze coloniali europee. Così si poteva preservare l’influenza europea anche negli Stati ormai indipendenti e, allo stesso tempo, stendere un velo di aiuto altruistico sugli orrori dell’epoca coloniale.

Anche le politiche di sviluppo propagandate dall’Occidente sono state concepite fin dall’inizio per mantenere l’influenza politica e l’accesso delle imprese e dei governi occidentali alle materie prime e alle risorse indispensabili dei Paesi più poveri. Spesso il cosiddetto aiuto allo sviluppo era legato anche a condizioni che garantivano alle imprese occidentali un mercato di vendita nei Paesi più poveri; per questo tipo di aiuto vincolato si è affermato il termine "tied aid".

Nell’ambito della politica economica mondiale, a partire dagli anni Sessanta hanno svolto un ruolo centrale anche le istituzioni finanziarie internazionali dominate dall’Occidente (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale). Dopo che negli anni ‘60 e ‘70 molti dei governi di recente indipendenza avevano ottenuto ingenti prestiti dalla Banca Mondiale e dall’FMI per la costruzione di grandi progetti infrastrutturali (spesso orientati all’esportazione), negli anni ‘80 i nuovi prestiti sono stati vincolati a condizioni rigorose sull’apertura del mercato e sulla liberalizzazione degli scambi.

Solo negli anni ‘90 si è giunti a una prima fase di auto-riflessione, in particolare a causa delle massicce proteste della società civile contro le politiche della Banca Mondiale e dell’FMI, nonché delle crescenti critiche interne ed esterne all’agenda top-down del cosiddetto aiuto allo sviluppo e all’incapacità di ridurre la povertà. Da allora è stato dato più spazio a temi come diritti umani, governance e analisi del contesto politico, mentre la riduzione della povertà – in maniera misurabile – è stata posta esplicitamente al centro dell’attenzione. Ma anche il coordinamento tra i Paesi donatori e la cooperazione con i vari attori nel Sud globale (dai governi alle organizzazioni della società civile) hanno acquisito rilevanza. Così, almeno ufficialmente, non si parlò più di “aiuto allo sviluppo”, ma di “cooperazione allo sviluppo”.

Un’immagine dello sviluppo obsoleta

Anche se il principio dell’aiuto vincolato o tied aid è malvisto nell’odierna CS, anche se nella cooperazione con gli Stati si considerano maggiormente i diritti umani e lo stato di diritto, e il principio della “cooperazione” ha acquisito importanza, continua a persistere l’immagine colonialista dei white saviours (“salvatori bianchi”), proprio come la convinzione che lo sviluppo sia qualcosa di lineare e che noi, nei Paesi industrializzati occidentali, abbiamo raggiunto lo stato ideale di sviluppo grazie a diligenza, intelligenza e innovazione. Sono stati dimenticati la schiavitù, l’imperialismo e il colonialismo, così come le ingiuste relazioni commerciali ed economiche globali che continuano ancora oggi, senza le quali la prosperità occidentale nella sua forma attuale non esisterebbe.

Consapevolmente o meno, anche la cooperazione allo sviluppo odierna spesso attraverso le sue attività di comunicazione e raccolta fondi contribuisce a consolidare un’immagine obsoleta dello sviluppo, caratterizzata da stereotipi sulla povertà, “salvatori bianchi” e assenza di contestualizzazione. In una lettera aperta pubblicata di recente, 93 organizzazioni ucraine e oltre 100 individui fanno appello senza mezzi termini alle organizzazioni internazionali e alle ONG: «Smettete di parlare a nostro nome e smettete di controllare la narrativa in modi che favoriscono i vostri propri interessi istituzionali!». Anche il linguaggio utilizzato nella CS può rafforzare queste immagini. Ad esempio, il termine spesso utilizzato di “capacity building” implica una mancanza di conoscenze e capacità da parte delle persone e delle organizzazioni locali. Le ONG riunite sotto l’ombrello di Alliance Sud hanno riconosciuto questo problema e hanno lanciato congiuntamente un manifesto per una comunicazione responsabile della cooperazione internazionale.

Le modalità della cooperazione

Oltre all’urgente revisione delle immagini e delle narrative che la CS veicola, nell’attuale dibattito sulla decolonizzazione sono oggetto di critica anche le modalità di cooperazione tra donatori occidentali e beneficiari locali. In particolare le organizzazioni della società civile nel Sud del mondo, che svolgono un lavoro importante in molti campi – dalla tutela dei diritti umani alla lotta contro la corruzione, dalla tutela dell’ambiente alla lotta contro la povertà – si sentono emarginate nell’attuale CS. Criticano il fatto che le decisioni vengono prese in gran parte in Occidente e che spesso agiscono come semplici partner per l’attuazione di progetti già definiti in Occidente, che non sia data loro fiducia e che le loro conoscenze locali siano poco valorizzate.

In effetti, il settore internazionale dello sviluppo è ancora dominato da “esperti ed esperte” occidentali e vi sono grandi disparità non solo negli stipendi del personale espatriato e di quello locale, ma anche nelle loro competenze decisionali e di azione. Uno studio dell’OCSE pubblicato nel 2019 mostra inoltre che solo circa l’1% dei fondi bilaterali complessivi per lo sviluppo è stato destinato direttamente alle organizzazioni locali dei Paesi in via di sviluppo. Lo studio mostra anche che le organizzazioni della società civile sono impiegate di preferenza come partner per l’attuazione di progetti e priorità dei Paesi donatori e raramente sono considerate attori dello sviluppo autonomi. Le procedure e i requisiti burocratici complicati rendono l’accesso ai finanziamenti estremamente difficile, soprattutto per le organizzazioni locali più piccole.

Il futuro della cooperazione allo sviluppo

Il dibattito sulla decolonizzazione della CS è importante perché mostra che neanch’essa è libera da mentalità e schemi di comportamento coloniali superati. Tuttavia, in questo dibattito è altrettanto importante non generalizzare. La storia della Banca Mondiale e dell’FMI è diversa da quella dell’ONU, della cooperazione bilaterale allo sviluppo e delle ONG. E anche se la CS nel suo complesso è ancora lontana da una cooperazione completamente decolonizzata da pari a pari, molto è cambiato in meglio negli ultimi anni. I diritti umani e la democratizzazione hanno acquisito maggiore rilevanza, la localizzazione e la decolonizzazione della CS oggi sono seriamente discusse e promosse a vari livelli. Ad esempio, diverse ONG impiegano principalmente personale locale nei loro uffici all’estero o lavorano esclusivamente con organizzazioni locali, secondo il principio “locally led and globally connected”. Inoltre, il lavoro di varie organizzazioni internazionali e ONG è diventato più politico: insieme alle ONG nel Sud del mondo, vengono denunciate e combattute le ingiustizie globali.

È inoltre importante collocare sempre la CS in un contesto globale: mentre diversi ambiti politici continuano a contribuire effettivamente al trasferimento di risorse e creazione di valore dal Sud al Nord globale e alla riesportazione di prodotti di scarto indesiderati verso il Sud, la CS rappresenta uno dei pochi ambiti politici in cui i fondi fluiscono dal Nord al Sud (in misura maggiore o minore, a seconda del Paese e dell’istituzione) senza interessi personali, e i problemi globali vengono affrontati congiuntamente.

Per il futuro della CS ora è importante passare davvero dalle parole ai fatti, rompere gli schemi esistenti di finanziamento e cooperazione, condividere il potere decisionale e fare spazio a mentalità e modelli d’azione non occidentali. Solo così è possibile una vera cooperazione alla pari. Inoltre, è necessario costruire una nuova e chiara narrativa, che si allontani dall’aiuto e si avvicini alla responsabilità e alla riparazione, dai Paesi sviluppati e in via di sviluppo, dalle persone che aiutano e dai beneficiari a processi globali comuni di apprendimento e di sviluppo verso la sostenibilità e la giustizia mondiali.  

Molti degli attuali problemi che affliggono i Paesi più poveri hanno origine nel Nord globale: l’estrazione di materie prime non sostenibile e che viola i diritti umani, l’evasione fiscale, i flussi finanziari illegittimi e illegali e il peggioramento della catastrofe climatica sono solo alcuni esempi. Per affrontare questi problemi alla radice, sono più che mai necessarie una rete e una cooperazione che vadano oltre i confini delle nazioni, da pari a pari.

Articolo pubblicato su "LaRegione" del 3. gennaio 2023.

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Intervista

«Non vogliamo una guerra infinita»

15.06.2023, Cooperazione internazionale

Il movimento pacifista sembra quasi del tutto assente dalla guerra in Ucraina, forse perché nessuno sa cosa potrebbe voler dire in questo caso «fare la pace». Alliance Sud lo ha domandato all’ambasciatore Thomas Greminger.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

«Non vogliamo una guerra infinita»

Thomas Greminger, direttore del Centro di politica di sicurezza di Ginevra. Presso l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), Greminger è noto per aver gestito nel 2014 la crisi derivante dall’annessione della Crimea da parte della Russia, a scapito dell’Ucraina. In precedenza è stato capo della Divisione Sicurezza umana del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE), capo della Cooperazione Sud presso la Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) e segretario generale dell’OSCE (2017-2020).
© Martial Trezzini / KEYSTONE

In seno all’OSCE lei ha promosso varie attività di mediazione e mantenimento della pace, in particolare in Ucraina, dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia. Si può dire che l’invasione dell’Ucraina da parte della stessa Russia nel 2022 sia la prova del fallimento di questi sforzi?
Thomas Greminger: Nel 2014-2015 siamo riusciti a impedire l’escalation della crisi in Ucraina, ma non a risolvere il conflitto tra Russia e Ucraina e nemmeno quello di fondo tra Russia e Occidente. L’Occidente ha insistito sul fatto che la NATO è un’alleanza difensiva, che non ha intenzioni offensive e che molti Paesi vi hanno voluto aderire perché temevano Mosca. Tuttavia l’Occidente non ha riconosciuto che la Russia aveva legittime preoccupazioni in materia di sicurezza e che la sua percezione di una minaccia da parte dell’Occidente risulta di lunga data, risalendo a Napoleone e alla Germania di Hitler. Putin ha certamente sfruttato tutto ciò perseguendo un’agenda revanscista, ma il sentimento della Russia riguardo alla propria sicurezza è legittimo. In fin dei conti, occorre riconoscere che nessuna organizzazione internazionale è in grado di impedire a una grande potenza di scatenare una guerra, né l’ONU né tantomeno l’OSCE.

È possibile fare la pace nel contesto attuale e, se sì, cosa significa? Cedere il 20% del territorio ucraino alla Russia?
Comincio a sentire delle richieste di un piano B. Il piano A consiste nel sostenere l’Ucraina sul campo di battaglia finché vorrà continuare a combattere. Al momento prevale l’opinione che si debba attendere l’esito dell’offensiva di primavera da entrambe le parti e che poi si possa tornare al tavolo dei negoziati per negoziare un cessate il fuoco e forse anche un accordo di pace. Si tratterebbe di una vera sfida a causa di una serie di problemi, a cominciare dalle questioni territoriali sulle quali nessuna delle due parti è disposta a scendere a compromessi.

Ma è molto probabile che nessuna delle due posizioni si concretizzi: l’Ucraina vuole liberare tutti i territori occupati dal 2014 e la Russia vuole consolidare tutte le posizioni annesse. Non abbiamo alcun interesse a ricompensare Putin permettendogli di cambiare i nostri confini con mezzi militari, ma non vogliamo una guerra infinita. La soluzione transitoria sarebbe rappresentata dalla cessione temporanea di territorio, come quella verificatasi tra Germania Est e Ovest dopo la Seconda Guerra Mondiale o tra le due Coree. Non si tratta di cedere un territorio nel senso formale del diritto internazionale, ma di concordare una cessione temporanea che potrebbe essere rinegoziata sotto un successivo governo russo.

Cosa accadrebbe dopo?
La seconda serie di domande sarebbe: quali garanzie di sicurezza otterrà l’Ucraina per assicurarsi di non essere mai più invasa dalla Russia? Entrerà a far parte della NATO oppure diventerà neutrale? Il governo ucraino vuole diventare membro della NATO per ottenere le garanzie dell’articolo 5 del Trattato di Washington, ma politicamente questo passo risulta difficile perché importanti membri della NATO esprimono riluttanza e, ovviamente, per la Russia l’adesione dell’Ucraina alla NATO sarebbe inaccettabile. Inoltre, si pongono le questioni dei risarcimenti nell’ambito della revisione delle sanzioni e la questione dei crimini di guerra.

Attualmente, i due capi di Stato vogliono protrarre il conflitto sul campo di battaglia e non hanno alcuna voglia di sedersi al tavolo dei negoziati perché pensano di poter vincere militarmente. Se una delle due parti si trovasse ad avere un’opinione diversa, l’atteggiamento potrebbe cambiare.

I famosi buoni uffici della Svizzera sembrano essere inesistenti. È così e, in caso affermativo, dobbiamo reinventarli?
Le parti coinvolte in questa guerra non sono interessate alla mediazione e al supporto tradizionali. Ciò che ha offerto la Turchia è una mediazione di potere attraverso il suo ruolo di potenza regionale e l’accesso del presidente Erdogan ai due capi di Stato. Non è il tipo di mediazione che la Svizzera o la Norvegia potrebbero offrire e anche se la Svizzera non avesse imposto sanzioni non le sarebbe stato chiesto di mediare.

I russi ci dicono che siamo sulla lista dei Paesi ostili a causa delle sanzioni, e il comitato costituzionale sulla Siria non può più riunirsi a Ginevra. Invece i colloqui internazionali sulla Georgia continuano a tenersi a Ginevra e la Russia vi partecipa. I russi sono molto pragmatici; vengono a Ginevra quando pensano che ci sia qualcosa da guadagnarci. Questo vale anche per tutta una serie di piattaforme di dialogo informale che offriamo per conto del Geneva Centre for Security Policy (GCSP).

La neutralità della Svizzera viene sempre meno compresa dall’Occidente. Ha ancora senso?
È vero che è sotto pressione, soprattutto da parte dei Paesi occidentali, ma dal punto di vista della Ginevra internazionale, la neutralità è molto apprezzata da tutti gli altri Paesi, compresi quelli del Sud globale. I Paesi occidentali comunque apprezzano che siamo in grado di offrire contesti di dialogo su questioni controverse come l’Artico, la Siria e le armi nucleari. È anche nel loro interesse che, in un mondo estremamente polarizzato, vi siano Paesi neutrali in grado di offrire uno spazio di dialogo e negoziazione. La neutralità non ha perso il suo senso, anche se ci sono pressioni.

D’altra parte, la Svizzera ha dimostrato chiaramente di condividere i valori occidentali di rispetto dei diritti umani, dello Stato di diritto e della democrazia. In questo senso, sottolinea l’idea che la neutralità non è una questione di valori. Allo stesso tempo, però, va plaudito al fatto che la Svizzera non si sia unita al campo che sostiene militarmente l’Ucraina, poiché minerebbe il senso di imparzialità di un Paese che ospita un numero così elevato di organizzazioni internazionali.

Secondo l’Ukraine Support Tracker, la Svizzera non sta facendo molto per l’Ucraina nel confronto internazionale. Dovrebbe aumentare il suo impegno e, se sì, come?
La Svizzera non sembra essere particolarmente ben posizionata in questa classifica per quanto riguarda il livello complessivo di sostegno all’Ucraina perché quest’ultimo include il sostegno militare (armi, munizioni), che è molto costoso. Non sorprende quindi che arrivi solo al 28° posto. La situazione migliora già molto se si includono i costi legati ai rifugiati (17° posto).

In ogni caso ciò fa presagire che, a breve e medio termine, la Svizzera sarà sottoposta a pressioni per compensare la mancanza di sostegno militare. Dal punto di vista della condivisione degli oneri, potremmo vederci obbligati a contribuire in modo significativo in altri settori, come l’aiuto umanitario e la ricostruzione dell’Ucraina. La pressione perché il nostro Paese faccia ancora di più aumenterà. Aumenteranno anche le pressioni perché si risparmi altrove, ma molti Paesi del Sud stanno soffrendo a causa della guerra e non sarebbe una mossa saggia ridurre la cooperazione allo sviluppo in altre parti del mondo. Oltre alle ragioni umanitarie, infatti, una tale mossa concederebbe ai Paesi autoritari come la Russia e la Cina la possibilità di estendere la loro influenza nei Paesi del Sud.

La Svizzera dovrebbe autorizzare la riesportazione di materiale bellico?
Faremmo bene a concentrarci su ciò che sappiamo fare meglio! La riesportazione di armi non sarà mai decisiva sul campo di battaglia in Ucraina. In quanto Paese che difende lo Stato di diritto, dobbiamo applicare la legislazione in vigore, e se la legge sull’esportazione di materiale bellico non lo consente, non possiamo esportarlo, oppure sarà necessario modificare la legge. Se vogliamo cambiarla, possiamo farlo, ma ci vuole tempo. Per il momento, dobbiamo applicare la legislazione in vigore.

Alliance Sud esige una politica di sicurezza globale per prevenire guerre future. Cosa ne pensa?
Nel corso della mia carriera mi sono occupato di sviluppo, pace e sicurezza, insistendo sempre sui legami tra questi ambiti. In quanto Paese con un’economia fortemente orientata al contesto internazionale, la Svizzera dipende da relazioni stabili tra gli Stati. Ciò si applica anche agli Stati fragili. Gli Stati più colpiti dalle ripercussioni di guerra, insicurezza alimentare ed energetica, disordini politici, inflazione, ecc. sono Stati fragili. I Paesi poveri sono più vulnerabili ai conflitti etnici, sociali e interstatali. Investire nella cooperazione allo sviluppo rafforza la resilienza degli Stati fragili, può ridurre i fallimenti di Stato e il potenziale di conflitto, e un numero minore di persone è costretto ad abbandonare le proprie case. La politica di sviluppo è una politica di prevenzione dei conflitti.

 

Intervista pubblicata su "La Regione" del 5 luglio 2023

Una fondazione indipendente, ma finanziata dalla Confederazione

Il Geneva Centre for Security Policy (GCSP) è una fondazione indipendente, il cui consiglio comprende 53 Paesi e il Cantone di Ginevra. È stata creata dalla Confederazione svizzera, che assicura il 70% del suo budget. A dirigerla sono diplomatici di carriera (come l’attuale direttore Thomas Greminger) a cui per questa funzione viene conferito il titolo di ambasciatore dal Consiglio federale.
Dallo scoppio della guerra in Ucraina, il GCSP ha mantenuto il suo programma di formazione per dirigenti imparziale e inclusivo sia nello spirito sia nella pratica. Continua a organizzare corsi con partecipanti russi e ucraini. Offre uno spazio di dialogo informale e si occupa di questioni direttamente legate alla guerra nonché, più indirettamente, di argomenti che non vengono più discussi a livello governativo, come il dialogo sulle armi nucleari tra Stati Uniti e Russia.

Comunicato stampa

Le ONG sono centrali nel mondo e in Svizzera

03.03.2021, Cooperazione internazionale

La Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) ha annunciato ieri i contributi programmatici 2021-2022 e ha sottolineato l'importante ruolo svolto dalle organizzazioni non governative (ONG) nella cooperazione internazionale della Svizzera. Sebbene la Confederazione consideri centrali l'informazione e la sensibilizzazione della società, non intende più sostenerle.

Le ONG sono centrali nel mondo e in Svizzera

© PD

“E’ molto positivo che la DSC rafforzi l’importanza del partenariato con le ONG e apprezzi il loro impegno, la loro competenza e la loro presenza in seno alla popolazione", commenta Mark Herkenrath, direttore esecutivo di Alliance Sud. Le ONG contribuiscono in modo significativo alla riuscita dell’attuazione della cooperazione internazionale della Confederazione e sono giustamente sostenute dalla Confederazione in questo sforzo. Esse completano il lavoro della DSC in termini tematici e geografici.

Mentre il lavoro politico con i contributi ai programmi è sempre stato vietato, ora, in seguito all'iniziativa per le multinazionali responsabili, è vietato, d’ora in poi, anche l'uso di questi contributi per lavori di informazione e di educazione in Svizzera: "Questo è incomprensibile, in quanto oltre al Comitato di aiuto allo sviluppo dell'OCSE, numerose personalità e organismi avvertono da anni che la comprensione da parte della popolazione svizzera delle interrelazioni internazionali e delle sfide mondiali dello sviluppo è ancora insufficiente", afferma Mark Herkenrath.

Il fatto che questo lavoro di informazione e educativo venga ora, per così dire, privatizzato è in contrasto con le raccomandazioni internazionali e con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile OSS-SDGs (Agenda 2030).