Articolo, Global

La fine della globalizzazione (oppure no?)

21.06.2022, Cooperazione internazionale

Una pluralità di voci sostiene che la brutale aggressione bellica contro l’Ucraina segni la fine della globalizzazione. Che dire di questa tesi? Un tentativo di analisi.

Kristina Lanz
Kristina Lanz

Esperta in cooperazione internazionale

Dominik Gross
Dominik Gross

Esperto in politica fiscale e finanziaria

Laura Ebneter
Laura Ebneter

Esperta in cooperazione internazionale

La fine della globalizzazione (oppure no?)

Yury e Oleksiy, due contadini ucraini, coltivano la terra durante l'invasione russa.
© Foto: Ueslei Marcelino / REUTERS

La difficoltà nel parlare di globalizzazione sta nel fatto che il termine viene impiegato in modi molto diversi. Lo storico della globalizzazione tedesco Jürgen Osterhammel osserva che tutti parlano di “globalizzazione” dando tacitamente per scontato che il significato del termine sia chiaro. Tuttavia, secondo lo studioso questa è un’ipotesi irrealistica. Propone dunque di parlare piuttosto di “globalizzazioni”. La globalizzazione non designerebbe quindi più «un processo mondiale globale che include tutta l’umanità», ma una moltitudine di processi diversi nel mondo, in corso contemporaneamente o in momenti diversi, che possono (o potrebbero) essere in qualche modo interconnessi (o meno).

A grandi linee, quando si parla di globalizzazione, ci sono due punti di vista raramente separati in modo sufficientemente chiaro che spiegano perché è così facile che ci si fraintenda su questo argomento. Da un lato, per globalizzazione si intendono ricette di politica economica che si basano su una teoria economica, o piuttosto su un’ideologia. È così che i “critici della globalizzazione” degli anni Duemila comprendevano il termine. Questa ideologia e le ricette (spesso indigeste) venivano guarnite con narrazioni sulle promesse della globalizzazione. Dall’altro lato, con il termine “globalizzazione” vengono etichettati processi reali, come ad esempio la crescita del commercio internazionale, l’aumento dei flussi di capitale transfrontalieri o il peso delle imprese multinazionali. L’elenco potrebbe continuare a lungo.

Spesso si presume che le ricette alimentate dall’ideologia conducano linearmente ai processi reali misurabili, per esempio che l’eliminazione delle barriere commerciali e dei controlli sui movimenti di capitali abbia causato la rapida crescita del commercio globale. Eppure, la questione non è così semplice, perché una quota considerevole di tale crescita è dovuta direttamente o indirettamente al fatto che la Cina è diventata la “fabbrica del mondo”. Il Paese asiatico però è stato molto selettivo nell’eliminare le barriere commerciali, non ha mai liberalizzato i movimenti di capitale e ha mantenuto il controllo statale anche in altri settori.
In questo caso abbiamo a che fare piuttosto con una miscela di ideologia, ricette e sviluppi reali che si può riassumere come segue: la trasformazione del capitalismo globale è stata guidata a partire dagli anni Settanta da un’ideologia economica accolta con entusiasmo dalle multinazionali e dai governi occidentali. Le ricette di politica economica che ne sono derivate e che sono state applicate dai governi hanno favorito l’emergere delle multinazionali e hanno scatenato quattro processi globali fondamentali: la rapida crescita del commercio internazionale, la delocalizzazione della produzione industriale nei Paesi meno “sviluppati” (Cina compresa), l’aumento delle migrazioni sud-nord (soprattutto negli Stati Uniti, in Europa anche da est a ovest) e, soprattutto, l’estrema crescita, a partire dagli anni Settanta, del settore finanziario e della sua importanza per l’economia e la politica fiscale all’interno dei Paesi e al di là delle frontiere.

L’ideologia

L’ideologia economica viene comunemente definita neoliberismo, ma “neoliberismo” presenta esattamente lo stesso problema di “globalizzazione”: due persone in una stanza capiscono tre cose diverse quando sentono questo termine. Lo storico statunitense Quinn Slobodian ci viene in soccorso. Nel libro «Globalists – The End of Empire and the Birth of Neoliberalism» (2018) distingue due concetti neoliberali: il più noto proviene da Chicago, l’altro da Ginevra. Il primo consiste in un maggiore “laissez-faire” e in un numero sempre minore di confini statali (nazionali), cioè in mercati autoregolati che sostituiscono sempre di più sistemi di stato indeboliti in quanto forze strutturanti di una società. Ossia, per parafrasare il PLR svizzero degli anni ’70: più mercato, meno Stato. Gli economisti neoliberali della scuola di Chicago, che annovera tra i maggiori esponenti l’economista statunitense Milton Friedman, sognavano un mercato mondiale unico e onnicomprensivo, in cui la politica giochi un ruolo solo laddove il mercato non funzioni. Secondo le idee di Friedman e dei suoi adepti, in realtà ciò non dovrebbe essere il caso eccetto per le questioni di sicurezza (esercito e polizia).

A questa idea di globalizzazione neoliberale quale processo mondiale in cui le forze del libero mercato giungono a pieno compimento autonomamente, Slobodian contrappone il gruppo ginevrino di pensiero neoliberale avanguardista. Il gruppo si è costituito negli anni ’30 presso l’università di Ginevra - proprio dove l’ONU ha la sua seconda sede. La «Geneva School», che comprendeva gli economisti Willhelm Röpke, Ludwig von Mises e Michael Heilperin, al contrario della scuola di Chicago non voleva «liberare il mercato dallo Stato», ma mettere lo Stato al servizio del mercato, con l’obiettivo principale di garantire il diritto alla proprietà privata non solo in un particolare Stato nazionale, ma in tutto il mondo. Slobodian scrive che per i «Geneva boys» era importante dare al mercato dello Stato un quadro globale di diritto (privato) e di elevare così a livello sovranazionale i meccanismi che servono a incrementare la proprietà privata – senza la palla al piede delle regole restrittive di uno Stato sociale redistributivo.

Le ricette

Le ricette basate sull’ideologia di politica economica dei neoliberisti di vario stampo nel 1989 sono poi state designate «Washington Consensus», perché sostenute dalle istituzioni che vi hanno sede: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, oltre al ministero delle finanze USA. In realtà, «Consenso di Washington, Ginevra (OMC - commercio), Parigi (OCSE - politica fiscale) e Bruxelles (UE)» sarebbe più preciso. Sviluppatosi originariamente in reazione alla crisi del debito dell’America Latina, il fulcro di questo programma consisteva nella concorrenza (in particolare nello smantellamento dello Stato sociale), nella deregolamentazione (commercio e movimenti di capitale) e nella privatizzazione. In cambio di nuovi prestiti, questo “consenso” è stato imposto ai Paesi indebitati dell’America Latina e dell’Africa negli anni ’80 attraverso i cosiddetti programmi di aggiustamento strutturale – un periodo che in seguito è stato spesso definito il «decennio perduto», poiché la povertà è aumentata vertiginosamente in molti Paesi.

A trainare questa agenda e ad approfittarne sono state le multinazionali e soprattutto le banche e altri attori finanziari. Lo ha ben sottolineato il direttore di ABB Percy Barnevik riassumendo in poche parole il programma del gruppo nel 2000: «Definisco la globalizzazione come la libertà del nostro gruppo aziendale di investire dove e quando vuole, di produrre ciò che vuole, di comprare e vendere dove vuole e di ridurre al minimo tutte le restrizioni imposte dalle leggi sul lavoro o da altre normative sociali».

Un punto di svolta decisivo è stato il crollo dell’Unione Sovietica nel mese di dicembre del 1991. Con la fine del “blocco orientale” era rimasta una sola superpotenza e ora le ricette potevano essere applicate a livello globale. Le grandi vittime di queste ricette, dopo i Paesi del Sud del mondo, sono stati i Paesi dell'ex Unione Sovietica: i consulenti economici statunitensi convinsero i loro governi ad applicare il consenso di Washington come terapia d’urto. Con il risultato che l’industria locale scomparve quasi del tutto e pochi poterono accaparrarsi le ricchezze nazionali e le materie prime che ancora rimanevano quale settore dominante dell’economia. Senza consenso di Washington, niente oligarchi.

Le promesse della globalizzazione

Le ideologie della globalizzazione e le relative ricette andavano di pari passo con una serie di narrazioni e di promesse, alcune delle quali vengono diffuse ancora oggi, nonostante le prove contrastanti. Per esempio, che l’economia mondiale porti la prosperità perpetua a tutti i Paesi che si impegnano davvero e con coerenza nel libero scambio e nella libera circolazione dei capitali. Che lo sviluppo economico generato grazie alla globalizzazione porti alla diffusione dei valori occidentali e, in ultima analisi, a un mondo di Stati democratici che cooperano pacificamente. O ancora, che la “governance globale” accresca il potere dei governi e risolverà i problemi comuni del mondo.

È ormai sempre più evidente che nessuna di queste promesse è stata mantenuta: mentre la povertà è diminuita in alcuni Paesi, soprattutto asiatici (che non hanno sostenuto il consenso di Washington o lo hanno sostenuto solo in parte), nel contempo il divario a livello globale è aumentato. L’economista Thomas Piketty mostra che tra il 1980 e il 2014 i redditi della metà più povera della popolazione mondiale sono aumentati del 21%, mentre nello stesso periodo i redditi dello 0,1% più ricco sono aumentati del 617%. Mentre la liberalizzazione del commercio e l’emergere di catene globali del valore hanno estremamente rafforzato il potere di mercato di alcune imprese, i sindacati sono stati indeboliti in tutto il mondo, le prestazioni sociali sono state tagliate e in molti luoghi è iniziata una corsa al ribasso dei salari. E invece della libertà, della democrazia e dei diritti umani promessi dalla narrazione, in realtà oggi sempre più persone sono confrontate con la repressione e l’oppressione.

L’ONG “Freedom House” constata che la democrazia oggi è sotto attacco da parte di leader e gruppi populisti in tutte le regioni del mondo, un attacco spesso accompagnato dalla repressione contro le minoranze o contro altri “nemici” costruiti. Allo stesso tempo, negli ultimi due decenni, i governi autocratici hanno esteso sempre più la loro influenza al di là dei propri confini, cercando di mettere a tacere i critici, rovesciare i governi democratici e rimodellare le norme e le istituzioni internazionali per servire i propri interessi. Ciò rende sempre più difficile anche la cooperazione in organismi globali come le Nazioni Unite.

Fine? Quale fine?

Anche se nessuna delle promesse della globalizzazione si è avverata, la guerra in Ucraina non segna certo la “fine della globalizzazione” come ideologia con le sue ricette politiche. Da un lato, anche prima della guerra, nessuna delle istituzioni del consenso di Washington, Ginevra, Parigi e Bruxelles sosteneva ancora indistintamente le stesse ricette di prima della crisi finanziaria del 2007. Dall’altro, le istituzioni finanziarie internazionali, ancora dominate dall’Occidente, continuano a diffondere tranquillamente parti di questa ideologia nonostante la crisi climatica sempre più acuta, le ricorrenti crisi economiche e alimentari e le crisi del debito che si aggravano abbiano in realtà già da tempo dimostrato l’inadeguatezza di queste ricette. Purtroppo non c’è da aspettarsi che la guerra possa cambiare le cose.

La guerra contro l’Ucraina sta forse portando a una battuta d’arresto o addirittura a un’inversione di tendenza della reale integrazione economica mondiale? È altamente improbabile, anche se alcune catene del valore cambieranno o si accorceranno. Che la Russia nella morsa delle sanzioni e alcuni stati vassalli formino uno spazio economico eurasiatico chiuso è da escludere. L’Occidente (compreso il Giappone) è troppo importante per la Cina dal punto di vista economico.

E ora?

L’ideologia della globalizzazione ha sempre meno appigli per legittimarsi. Le molteplici crisi dimostrano chiaramente che l’attuale modello di economia globale non è in grado di garantire pace, libertà, salute e benessere per tutti. Che stia distruggendo il Pianeta in ogni caso è ovvio. Qual è dunque la via da seguire?

Innanzitutto, abbiamo bisogno di una nuova ideologia che, invece di concentrarsi sulla crescita economica “eterna”, sulla massimizzazione del profitto e sugli interessi personali a breve termine, sia focalizzata sulle nostre interdipendenze, sul nostro inserimento nell’ambiente naturale e sui nostri interessi comuni e a lungo termine.

Dopodiché abbiamo bisogno di una politica economica e di sviluppo che si ponga l’obiettivo di realizzare i diritti universali dell’uomo per tutte le persone sulla Terra e che promuova la loro realizzazione globale, invece di ostacolarla. Infine, questa nuova politica di sviluppo deve essere in grado di indicare come poterlo fare in armonia con i limiti del pianeta. Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile nel quadro dell’Agenda 2030 dovrebbero fungere da orientamento.

Per realizzare la grande trasformazione di cui abbiamo bisogno non c’è un piano generale né una mappa: occorrono innumerevoli esperimenti, processi di ricerca e confronti politici, dalle fondamenta fino ai forum internazionali della “governance globale”. Come già rilevò il movimento anti-globalizzazione negli anni ’90 in risposta al «There is no alternative» dell’ex prima ministra britannica Margaret Thatcher: «There are thousands of alternatives».

Articolo apparso in versione accorciata su "LaRegione" del 19 luglio 2022.

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