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L’inno alla gioia dei Paesi ricchi
07.12.2021, Finanza e fiscalità
L'OCSE e il G20 hanno dato la loro benedizione all'introduzione di un'aliquota fiscale minima per le grandi multinazionali. Questa decisione ha portato a forti critiche in Africa, Asia e America Latina.
"Pecunia non olet" (il denaro non ha odore): al vertice del G20 a Roma a fine ottobre, i capi di stato e di governo si sono riuniti davanti alla Fontana di Trevi per lanciare una moneta in euro coniata apposita-mente per il vertice.
© Roberto Monaldo/Keystone/APA/laPresse
A metà ottobre, gli oltre 120 Paesi membri del quadro inclusivo sul BEPS dell’OCSE, e per finire anche i Paesi del G20, si sono accordati sull'introduzione di una nuova aliquota fiscale minima internazionale. Le ONG di Africa e Asia che si impegnano per la giustizia fiscale hanno criticato l’accordo trovato all’interno dell’OCSE definendolo un accordo fiscale dei ricchi e i Paesi del G24 - un’alleanza di governi africani e latino-americani di Paesi in via di sviluppo ed emergenti - hanno sottolineato come una perdita di autonomia fiscale nazionale andrebbe di pari passo con le nuove regole: i Paesi che desiderano mantenere le loro tasse digitali unilaterali, o introdurne di nuove, subiranno la pressione delle sanzioni imposte dall’OCSE. Così i Paesi del G77 (il gruppo dei Paesi in via di sviluppo delle Nazioni Unite) hanno presentato una risoluzione a favore di un organismo intergovernativo sotto l’egida delle Nazioni Unite che subentrerebbe all’OCSE nel ruolo di leader politico nel campo della politica fiscale internazionale - e garantirebbe così una rappresentanza molto migliore degli ex Stati coloniali del Sud.
Efficacia zero
Dal punto di vista dei Paesi del Sud, la riforma lascia a desiderare per due motivi principali. Primo: l’intera industria estrattiva e il settore finanziario sono esclusi dalla redistribuzione del substrato fiscale. In gran parte dipendenti dalle industrie estrattive, i Paesi poveri del Sud non avranno quindi diritti aggiuntivi per tassare i profitti di queste industrie. Inoltre, il Pilastro Uno (ridistribuzione dei profitti delle imprese dai Paesi ospitanti ai Paesi di mercato) si applica unicamente alle imprese con un fatturato annuo di 20 miliardi di dollari e un tasso di profitto superiore al 10%. A livello globale, solo un centinaio di aziende sono interessate; in Svizzera probabilmente solo i giganti Novartis, Roche, Nestlé e Schindler. I principali beneficiari di questa ridistribuzione sono i Paesi ricchi con grandi mercati interni come gli Stati Uniti o la Germania. In secondo luogo, l’aliquota fiscale minima del 15% prevista nel Pilastro Due è troppo bassa e può essere applicata solo dal Paese in cui ha sede la società interessata. E anche in questo caso, solo a condizione che questa impresa abbia un fatturato annuo di più di 750 milioni. Questa novità ha degli effetti drammatici per i Paesi in via di sviluppo, che, secondo un calcolo degli economisti Petr Janský e Miroslav Palanský (2019), perdono entrate fiscali di circa 30 miliardi di dollari all'anno a causa dei trasferimenti di profitti alle sedi delle multinazionali del Nord. Una migliore mobilitazione delle entrate fiscali nazionali - che anche la Svizzera definisce come uno degli obiettivi della sua cooperazione tecnica allo sviluppo - può avere successo solo se la fuga della base imponibile verso giurisdizioni a bassa imposizione viene fermata. Da quarant'anni, le multinazionali hanno sviluppato queste pratiche con l'aiuto benevolo degli Stati di domicilio del Nord. I pilastri della riforma oramai adottati dall'OCSE e dai Paesi del G20 non cambieranno questa situazione.
Nuovi casi di evasione fiscale in Svizzera
I casi di evasione fiscale recentemente resi pubblici in imprese come Socfin (commercio di olio di palma e di caucciù), Glencore (petrolio, rame, carbone e altre materie prime) e Nestlé (derrate alimentari), nei quali il nostro Paese a bassa tassazione gioca sistematicamente un ruolo centrale, dimostrano che le nuove regole dell’OCSE sono insufficienti. Mentre lo studio “Cultivating Fiscal Inequality”, appena pubblicato da Pane per tutti, Rete tedesca per la giustizia fiscale e Alliance Sud, rivela che Socfin paga la maggior parte delle sue tasse a Friburgo, in Svizzera, anche se una parte importante delle sue attività si svolge nelle piantagioni della Sierra Leone, della Liberia e della Cambogia e che il valore aggiunto è quindi generato anche in questi Paesi, l’esempio di Nestlé in Marocco sottolinea l’urgente bisogno di una forte amministrazione fiscale nazionale: a causa di calcoli opachi dei prezzi di trasferimento, l’azienda svizzera di tradizione rischia di dover pagare tasse arretrate record di 110 milioni di dollari. Questo non sarebbe stato possibile senza le autorità fiscali che hanno minuziosamente controllato l’impresa. Ma sono proprio queste risorse che mancano a molti Paesi in via di sviluppo. Un altro rapporto pubblicato alla fine di ottobre dall’ONG investigativa CICTAR (Centre for International Corporate Tax Accountability and Research) rivela un trasferimento di profitti del gruppo specializzato in materie prime Glencore, dall’Australia al cantone di Zugo, in relazione alle sue attività legate al carbone. Anche se la pratica non è direttamente collegata alla politica di sviluppo, lo studio mostra come Zugo, cantone dove ha sede Glencore, trae beneficio direttamente da una delle attività più dannose per il clima. Con il suo sistema di bassa tassazione delle imprese multinazionali, la Svizzera non solo si oppone a una trasformazione ecologica e giusta della società mondiale in termini economici. Lo fa anche direttamente sul piano politico.
La Svizzera come avvocato delle multinazionali
Nel quadro di un’alleanza con altre giurisdizioni a bassa imposizione come l’Irlanda, il Lussemburgo, i Paesi Bassi o l’Ungheria, la Svizzera difende sempre le riforme meno vincolanti possibili nei negoziati di politica fiscale all'OCSE. Ne è prova recente una lettera che il ministro delle finanze UDC, Ueli Maurer, ha inviato al nuovo segretario generale dell’OCSE, Mathias Cormann, in agosto per esigere delle deduzioni dell’imposizione minima a favore delle società di gruppi impegnate in attività di ricerca e sviluppo (come i giganti farmaceutici basilesi) e proporre una regola aggiuntiva secondo la quale le multinazionali potrebbero dedurre le tasse pagate sul CO2 dalle loro imposte sugli utili. Una proposta assurda!
Nella sua risposta, il signor Cormann giudica inverosimile la proposta di Ueli Maurer: “Le tasse sul CO2 sono tasse sugli input [le emissioni di CO2 sono tassate nella produzione, nota dell’autore] e non sugli utili [quindi i profitti delle imprese, idem] e quindi non si inseriscono nel quadro concettuale e nella concezione dei due pilastri”. È tanto più notevole in quanto il signor Maurer ha apparentemente avuto più successo con la sua prima richiesta finalizzata a nuove deduzioni fiscali minime per la farmaceutica. Nella “Handelszeitung”, il Dipartimento delle finanze ha annunciato con orgoglio ciò che segue come successo svizzero a Parigi dopo l’accordo dell’OCSE: permettendo alle imprese di richiedere deduzioni per i costi del personale e delle infrastrutture, il loro reddito imponibile è ridotto rispettivamente del 10% e dell’8% nei primi cinque anni dopo l’introduzione dell’imposizione minima (in seguito del 5% in ogni caso). I costi di queste deduzioni sono a carico del fisco svizzero. La Segreteria di Stato per le questioni finanziarie internazionali (SFI), responsabile presso il DFF, non rappresenta quindi né gli interessi di una comunità mondiale né gli interessi nazionali delle collettività pubbliche svizzere presso l'OCSE, ma semplicemente quelli delle imprese multinazionali con sede nel nostro Paese. Chiunque in Svizzera voglia impegnarsi per una politica fiscale globalmente più equa e per un cambiamento di paradigma nella bassa tassazione svizzera non può contare né sull’OCSE né sul Consiglio federale. Per raggiungere questo obiettivo, bisogna appellarsi alle forze politiche progressiste e alla società civile.
La Svizzera potrebbe migliorare la riforma dell’OCSE
La notizia incoraggiante in questo contesto è che relativamente poche modifiche tecniche potrebbero migliorare l’aliquota fiscale minima elaborata dall’OCSE in modo che anche i Paesi produttori poveri possano beneficiarne: mi riferisco all’aliquota fiscale minima effettiva per le multinazionali (“minimum effective tax rate for multinationals”, METR), sviluppata dalla società civile in cooperazione internazionale con economisti e avvocati fiscalisti e si basa essenzialmente su concetti tecnici analoghi a quelli dell’OCSE. In primo luogo, riorganizza la tassa minima in modo che possa essere attuata congiuntamente da singoli Paesi, o gruppi di Paesi, senza che sia necessario - a differenza dell’attuazione del Pilastro Due dell'OCSE - concludere un nuovo accordo multilaterale o modificare i trattati bilaterali in materia di doppia imposizione, il che è un altro punto debole del concetto dell’OCSE. In secondo luogo, il METR si applica anche ai Paesi di domicilio, vendita e produzione delle multinazionali. In un primo tempo, sono calcolati i profitti totali sottotassati all’interno di un gruppo. Questi ultimi sono definiti da un’aliquota fiscale minima, come nella proposta dell'OCSE. Tutto ciò che è inferiore a quest’aliquota è considerato come sottotassato. Mentre il Pilastro Due dell’OCSE prescrive un’aliquota fiscale minima del 15%, il METR partirebbe da un’aliquota del 25%, avvicinandosi così all’attuale media mondiale, che è appena inferiore.
In una seconda fase, questi profitti sottotassati sarebbero assegnati ai Paesi nei quali la creazione di valore di una multinazionale ha effettivamente luogo. Una formula garantirebbe questa attribuzione. Essa prende in considerazione a) il capitale (attivi fisici), b) il personale e c) i ricavi delle vendite di un’impresa multinazionale in un dato Paese.
In una terza tappa, i singoli Stati possono tassare autonomamente questi profitti localizzati, conformemente alla loro legislazione fiscale nazionale. Questo può garantire, almeno parzialmente, che i profitti di un’impresa multinazionale siano effettivamente tassati là dove un certo valore, da cui i profitti derivano, è prodotto (nei Paesi di produzione) o venduto (nei Paesi di mercato). Il quesito che si pone è se i Paesi che attuano le nuove regole dell’OCSE possono contemporaneamente introdurre un’aliquota fiscale minima superiore al tasso del 15% dell’OCSE. Si tratterebbe di un prerequisito per fare in modo che i Paesi in via di sviluppo le cui attuali aliquote d’imposta sugli utili sono generalmente superiori al 25% possano ugualmente beneficiare del METR.
Se la Svizzera fosse politicamente disposta a ripensare il suo modello economico di base nelle sue relazioni con le imprese multinazionali, sarebbe il Paese ideale per l'introduzione del sistema METR. Essendo un importante Stato ospite per le imprese multinazionali, dispone delle informazioni necessarie sulle loro pratiche commerciali, il che le permetterebbe anche di far progredire l’attuazione del METR in termini di politica fiscale. Inoltre, le sue possibilità di trovare dei Paesi partner per questo sistema sarebbero elevate, visto che la tassazione elvetica delle imprese multinazionali ha un’influenza significativa sulla situazione fiscale di molti Paesi che sono legati alla Svizzera attraverso le multinazionali corrispondenti. Se cercasse tali partner, per esempio, tra i Paesi del Sud dove le imprese svizzere estraggono le materie prime, o tra i Paesi emergenti che sono considerati sbocchi per le imprese di beni di consumo svizzere - come Nestlé o Procter&Gamble -, un’introduzione elvetica del sistema fiscale METR contribuirebbe in modo significativo a una politica di sviluppo svizzera efficace.
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La piazza finanziaria protegge gli amici di Putin
03.03.2022, Finanza e fiscalità
Con la guerra in Ucraina, la Svizzera ufficiale ha palesato le contraddizioni tra i principi della sua politica estera e i suoi interessi in materia di politica econo-mica estera. È finalmente giunto il momento di superarle.
Manifestazione per la pace a Berna il 26 febbraio 2022: la società civile fa pressione sul Consiglio federale affinché rafforzi le sanzioni contro la Russia.
© Marco Fähndrich / Alliance Sud
L'invasione russa in Ucraina ha portato alla luce le principali debolezze della politica estera elvetica. Come già avvenuto nei mesi precedenti, quando le tensioni tra Russia, Ucraina e NATO continuavano a crescere, il Consiglio federale ha recitato, durante la prima settimana di guerra, il ruolo che corrisponde all’immagine che la Svizzera ufficiale dà nel mondo in materia di politica estera. Si tratta in particolare dei principi di neutralità, di mediazione diplomatica tra le parti in conflitto ("buoni uffici") e dell’insistenza sul rispetto dei diritti umani e dei popoli. Il ministro degli Affari esteri e presidente della Confederazione Ignazio Cassis ha così proposto ai belligeranti un incontro a Ginevra per intavolare dei negoziati di pace. Nel frattempo il governo ucraino ha però preferito rivolgersi a Israele. E al tempo stesso, i belligeranti si parlano in Bielorussia, vicino alla frontiera ucraina. Il nostro Paese non ha nessun ruolo. È dunque lecito pensare che i buoni uffici della Svizzera interessino attualmente soprattutto la Svizzera.
Nell’impiccio tra UE/USA e la lobby della piazza finanziaria
Dunque, mentre la diplomazia svizzera lavorava per le persone presenti nelle tribune in queste ultime settimane e questi ultimi mesi, il Consiglio federale ha impiegato quattro lunghe giornate caotiche per aderire completamente alle sanzioni dell’Unione europea contro la Russia. Quattro giorni durante i quali i russi facoltosi, vicini al regime, hanno potuto riorganizzare le loro costruzioni transnazionali di società, investimenti e conti, nelle quali alcune banche svizzere e altri prestatori di servizi finanziari svolgono (o hanno svolto) un ruolo, in modo tale che non possano più essere colpite dalle sanzioni. Ad ogni modo, la NZZ riferisce come sia molto grande, vista dall’interno della piazza finanziaria, la frenesia negli affari russi. La maniera in cui le banche reagiscono alle sanzioni sembra essere una questione strategica: alcune puntano su un’applicazione estremamente restrittiva per ridurre al minimo i rischi giuridici, considerevoli in questo contesto; altre cercano invece di essere il meno trasparenti possibile, per rendersi ancor più attrattive agli occhi dei clienti russi. È ipotizzabile che la pressione politica sul Consiglio federale, esercitata dall’UE e dagli Stati Uniti affinché prendesse delle sanzioni, ha dovuto superare quella esercitata dai rappresentanti politici della piazza finanziaria per far sì che il nostro governo, a maggioranza di destra, si decidesse a prendere questa misura.
Non c’è però alcuna garanzia che le sanzioni finanziarie contro i ricchi russi siano davvero qualcosa in più di una politica simbolica. Le strutture offshore con le quali i ricchi del mondo intero gestiscono oggi il loro denaro sono transnazionali e così intrecciate l’una nell’altra che spesso risulta quasi impossibile, per le autorità, attribuire chiaramente dei fondi patrimoniali a delle persone precise. Il New York Times ha così riferito che Vladimir Putin, sanzionato dagli Stati Uniti e dalla Svizzera, era probabilmente il più ricco dei russi, ma che nessuno sapeva dove si trovava esattamente il suo denaro. Persino il presidente delle Confederazione Cassis ha dovuto ammettere, alcuni giorni fa, che non si sapeva se Putin avesse a disposizione dei conti in Svizzera. L'applicazione delle sanzioni si scontra qui con il modello commerciale tradizionale della piazza finanziaria svizzera, che si basa sulle camere oscure piuttosto che sulla trasparenza. Le banche e i consulenti finanziari continuano a proporre, in Svizzera, dei servizi che favoriscono l’evasione fiscale, il riciclaggio di denaro sporco, la corruzione e gli affari criminali. È ciò che hanno mostrato recentemente – come in precedenza numerose altre fughe di notizie – i "Suisse Secrets"; una vasta collezione di dati provenienti dall’amministrazione patrimoniale globale di Credit Suisse (CS), che è stata trasmessa alla Süddeutsche Zeitung da un whistleblower. Nessuno ha saputo dare una risposta precisa alla seguente domanda: a quanto ammontano le somme di denaro russo gestite dalle banche in Svizzera? La NZZ ha scritto tra i 50 e i 150 miliardi di franchi. Già solo quest’ampia differenza tra i due valori è rivelatrice dell’assenza di trasparenza della nostra piazza finanziaria. Queste stime non considerano in ogni caso i capitali dei russi domiciliati in Svizzera. La somma degli averi di questi residenti dovrebbe situarsi nello stesso ordine di grandezza di quella degli stranieri. Un domicilio in Svizzera è infatti molto interessante per i ricchi, anche in termini di gestione patrimoniale, poiché essi beneficiano della protezione ancora molto rigida del segreto bancario nazionale. La "Goldküste" zurighese, le stazioni alpine come Gstaad o St. Moritz, nonché le rive dei laghi di Zugo e di Ginevra sono la prova che i ricchi russi vivono volentieri in Svizzera, anche se magari solo parzialmente.
Una banca all’origine d’un nuovo scandalo
Da parte sua, CS non ha fatto solamente brutte figure sulla stampa di queste ultime settimane con i "Suisse Secrets". Il Financial Times ha rivelato ieri che la grande banca svizzera negli ultimi giorni aveva domandato a degli hedge fund e ad altri investitori, sotto l’effetto delle sanzioni, di distruggere dei documenti di alcuni clienti russi sanzionati. La banca aveva accordato loro dei crediti per i quali, a fungere da garanzia, c’erano yacht, beni immobiliari e altri "giocattoli" simili. Alla fine del 2021, la banca aveva "trasferito" una parte di questi rischi di credito ai relativi hedge fund. Si suppone che, con questa esortazione, CS abbia voluto aiutare i clienti russi a sfuggire alle sanzioni. Alla luce degli scandali che una delle principali banche svizzere ha prodotto quasi tutte le settimane in questi ultimi mesi, il principio di base della filosofia svizzera in materia di compliance, ossia l’autocontrollo delle banche sul rispetto del loro dovere di diligenza, sembra quasi uno scherzo.
La reazione estremamente esitante del Consiglio federale di fronte allo scoppio della guerra in Ucraina, e il simultaneo comportamento commerciale molto sleale di una delle due grandi banche elvetiche, nuocciono alla reputazione della Svizzera e minacciano così anche la credibilità della sua politica estera. La scorsa settimana, il ministro degli Affari esteri Cassis ha giustificato ancora la rinuncia iniziale del Consiglio federale ad applicare le sanzioni dell’UE e degli Stati Uniti, sostenendo che si voleva tener aperta la via del dialogo con Putin. Scuse simili non sono una novità ma, contrariamente al mito, costituiscono la funzione reale della neutralità svizzera: essa rappresenta, specialmente in caso di conflitto, soprattutto una possibilità di (continuare a) fare degli affari con tutte le parti, piuttosto che permettere alla diplomazia di svolgere un vero ruolo di mediatore tra le parti in guerra.
L'affermazione di quest’ultima è sempre stata, ed è sempre, più facile da giustificare politicamente. È ciò che è successo durante la Seconda Guerra mondiale con la Germania nazista oppure negli anni ’80 del secolo scorso con l’aggiramento delle sanzioni economiche negli scambi con il Sudafrica dell’apartheid. Considerando i nuovi e drammatici grandi conflitti nel mondo, la Svizzera non sembra più potersi permettere, fino a nuovo avviso, una strategia di politica estera così ambigua. Il fatto che la Svizzera, dopo aver inizialmente rifiutato le sanzioni americane ed europee, le abbia finalmente adottate (o abbia dovuto farlo), è in ogni caso un segnale.
È necessaria un’inversione della politica estera
Il Consiglio federale e il Parlamento farebbero quindi bene a cogliere l’occasione data dalle crisi attuali per invertire il rapporto tra la politica estera e la politica economica estera della Svizzera: i valori fondamentali della politica estera svizzera non dovrebbero più servire da foglia di fico morale per i difficili interessi economici esteri. La pratica di quest’ultima dovrebbe invece orientarsi sui principi della prima. D’altronde la Svizzera s’è impegnata in favore di tale coerenza politica quando ha promesso, nel 2015, con tutti gli Stati membri dell’ONU, di attuare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU, che sono quindi stati integrati nell’Agenda 2030. Quest’ultima si basa sul principio della coerenza politica per lo sviluppo sostenibile. In teoria, questo principio significa che nessun settore politico dovrebbe contraddire gli obiettivi d’un altro.
A medio termine, come primo passo efficace verso una politica fiscale e finanziaria svizzera, coerente dal punto di vista del diritto internazionale e dei diritti umani, la Berna federale potrebbe aumentare la trasparenza delle costruzioni offshore. Per questo, è necessario un registro pubblico che indichi i proprietari effettivi di un conto bancario o di una società di comodo. A breve termine, il Consiglio federale deve mettere in piedi una task force che riunisca tutte le istituzioni federali interessate (Dipartimento federale delle finanze (DFF), Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari (FINMA), Ministero pubblico della Confederazione (MPC), Ufficio di comunicazione in materia di riciclaggio di denaro (MROS)). Essa potrebbe permettere la messa in atto effettiva delle sanzioni, esaminando le strutture patrimoniali reali delle persone sanzionate e stabilendo così un legame tra i nomi e i patrimoni. Altri Paesi hanno già deciso di costituire una task force simile, in particolare la Germania e gli Stati Uniti.
Delle società più giuste, più ecologiche e più democratiche sono la miglior assicurazione contro i despoti brutali come Vladimir Putin. Una politica commerciale ed economica che favorisce l’equilibrio politico, distribuendo equamente le ricchezze, è a sua volta una condizione necessaria alla loro costruzione. La Svizzera, nel suo ruolo di centro finanziario e commerciale importante, dispone di leve efficaci su scala mondiale che le permettono di contribuire a degli sviluppi di questo tipo.
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Tonnage Tax, o come affondare le entrate fiscali
03.10.2022, Finanza e fiscalità
Ciò che il Consiglio federale e le lobby delle grandi imprese multinazionali (in seguito: IM) vendono come un’innocua promozione dell’industria navale elvetica, potrebbe diventare un’importante scappatoia fiscale per le IM svizzere di materie prime.
Die Rohstoffbranche profitiert von der Krise – und bald von tieferen Steuern in der Schweiz?
© Stefanie Probst
Per i fautori di una politica fiscale svizzera a bassa imposizione, i commercianti di materie prime sono stati un po’ trascurati in questi ultimi anni nel nostro Paese. Nell’ambito dell’ultima riforma dell’imposizione delle imprese del 2019 (riforma fiscale e finanziamento dell’AVS, RFFA), la Confederazione aveva abolito i vecchi privilegi fiscali per le holding e le società miste (le società svizzere potevano con ciò dichiarare al fisco i guadagni realizzati all’estero senza alcun costo), di cui le IM attive nel commercio di materie prime avevano ampiamente approfittato nel passato. Se da un lato la maggioranza borghese della Berna federale ha creato nuovi sconti speciali per le IM farmaceutiche o di beni di consumo (per compensare i vecchi privilegi), dall’altro il settore delle materie prime è rimasto a mani vuote. Ora questo vuoto verrebbe colmato dalla cosiddetta tassa sul tonnellaggio.
Certo, a prima vista si tratta solo di uno sgravio fiscale per gli armatori svizzeri, ma esistono stretti legami tra questi ultimi e i commercianti di materie prime, come sottolineato anche dal Consiglio federale nel suo messaggio riguardante la tassa sul tonnellaggio. Inoltre, già oggi vale quanto segue: se un commerciante di materie prime accorda alla sua società di navigazione all’interno del gruppo tariffe di trasporto eccessivamente rincarate — impossibili da scoprire nella pratica —, i guadagni in altre società dello stesso gruppo possono essere ridotti, evitando così di pagare delle imposte.
Il ritorno di un concetto già abolito
Durante l’ultima riforma dell’imposizione delle imprese, il Consiglio federale aveva ancora cancellato questa tassa dal menu, soprattutto a causa di dubbi costituzionali. Con la tassa sul tonnellaggio, le navi non devono più essere tassate in funzione dei guadagni che i loro gestori ne ricavano, bensì in funzione del volume del carico. In seguito, l’«utile netto» della navigazione così calcolato dev’essere considerato con gli ulteriori guadagni degli altri settori d’attività di una società. Siccome così alcune imprese devono essere tassate diversamente rispetto all’imposta ordinaria sugli utili, il Consiglio federale ha dubitato a quell’epoca della compatibilità con il principio costituzionale dell’imposizione secondo la capacità economica e ha quindi chiesto due pareri legali su questo soggetto. Pareri che, nel 2015, hanno dato esiti opposti: da una parte Robert Danon, di Losanna, è giunto a una conclusione negativa, mentre dall’altra Xavier Oberson, di Ginevra, ha confermato la compatibilità con la Costituzione.
Va peraltro detto che entrambi i professori di diritto beneficiano di mandati lucrativi presso studi legali commerciali che ottimizzano la fiscalità delle aziende. La grande differenza tra le due perizie è la seguente: contrariamente a Robert Danon, Xavier Oberson giudica che la navigazione marittima sia minacciata nella sua esistenza in Svizzera e quindi considera che, conformemente all’art. 103 della Costituzione federale, l’introduzione di questa imposta forfettaria è giustificata come misura di politica strutturale. L’asserzione è piuttosto bizzarra data l’enorme importanza della navigazione per l’economia mondiale e i suoi stretti legami con i commercianti di materie prime — che fanno parte delle più grandi e più redditizie imprese in Svizzera. All’epoca la faccenda era troppo scottante per il Consiglio federale, mentre oggi, a quanto pare, esso ha superato i suoi dubbi senza che qualcosa sia cambiato nella situazione costituzionale di partenza. Oltre ai dubbi in termini di costituzionalità, il progetto di legge cela anche due altri importanti problemi:
• Livello d’imposizione: sarebbe fortemente ridotto rispetto agli ordinari tassi d’imposizione sugli utili in tutti i cantoni svizzeri. Come dimostrato dai giuristi Mark Pieth e Kathrin Betz, nel loro nuovo libro sulle compagnie di navigazione in Svizzera, l’introduzione della tassa sul tonnellaggio si tradurrebbe in un tasso effettivo d’imposizione sugli utili pari mediamente al 7% circa. Questo tasso è nettamente inferiore all’11% accordato a Glencore e ad altre IM dall’hub di materie prime di Zugo, il cantone fiscalmente più vantaggioso. Il Consiglio federale intende inoltre autorizzare delle riduzioni fiscali supplementari, tanto più elevate quanto i sistemi di propulsione delle navi sono più rispettosi dell’ambiente. Se viene accordata la tassazione massima del 20%, l’imposizione media può abbassarsi fino a 5,6 punti percentuali. È particolarmente scioccante che il Consiglio federale voglia escludere gli utili imposti dalla tassa sul tonnellaggio dalla nuova imposizione minima dell’OCSE, che deve garantire che le IM siano tassate almeno al 15% in Svizzera. L’introduzione della tassa sul tonnellaggio aggira quindi gli sforzi internazionali volti a frenare la corsa verso il basso delle imposte sulle imprese, in ogni caso già basse.
• Assenza di standard ambientali e sociali sulle navi: il Consiglio federale e, finora, anche la Commissione dell’economia del Consiglio nazionale (che probabilmente non delibererà prima di metà novembre) non vogliono legare il nuovo privilegio fiscale a un cosiddetto requisito di bandiera. Un tale obbligo significherebbe che le compagnie marittime potrebbero approfittare della tassa sul tonnellaggio solo per le navi battenti bandiera svizzera o di un Paese dell’area SEE (nazioni dell’UE, più Islanda, Norvegia e Liechtenstein). Ciò inciterebbe gli armatori a non delocalizzare le proprie navi verso i cosiddetti Paesi di bandiera di convenienza, che servono all’industria navale come zone quasi prive di leggi, nelle quali devono a malapena rispettare le prescrizioni statali per le loro attività. Per le navi battenti bandiera svizzera, il nostro Paese potrebbe obbligare gli armatori a rispettare standard ambientali e lavorativi migliori. Secondo Mark Pieth e Kathrin Betz, la tassa sul tonnellaggio avrebbe comunque dei vantaggi indiretti, malgrado i problemi che solleva. Secondo loro, gli armatori che dovessero immatricolare almeno il 60% della loro flotta nello spazio SEE o in Svizzera dovrebbero sottostare, in alcune circostanze, alle regole dell’UE contro la demolizione selvaggia nell’Asia del Sud. Tuttavia il dibattito sulla responsabilità delle imprese in Svizzera dimostra pure che la volontà di applicare norme più severe nell’ambito dell’economia e dei diritti umani è estremamente debole in seno alla maggioranza borghese della Berna federale.
Discutibile sul piano costituzionale, elusiva dell’imposta minima dell’OCSE e priva di standard ambientali e sociali: nella versione trattata attualmente dalla Commissione dell’economia del Consiglio nazionale, l’introduzione della tassa sul tonnellaggio farebbe onore alla reputazione ambigua della Svizzera come paradiso fiscale per le IM. Inoltre, ad approfittarne sarebbero proprio le IM per le quali la guerra e la crisi energetica generano utili record: basata a Baar nel canton Zugo, Glencore (il secondo più grande commerciante di petrolio al mondo, dopo Vitol, pure con sede in Svizzera) ha così realizzato un guadagno record di 12 miliardi di dollari nel primo semestre 2022. Invece di dare a questi profittatori della guerra occasioni supplementari di dumping fiscale, il Consiglio nazionale e il Consiglio degli Stati dovrebbero gravare questi profitti legati alla guerra con un’imposta sui guadagni in eccesso e investirli nella lotta contro le molteplici crisi che scuotono il pianeta.
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Un «taglio di capelli» per le multinazionali
23.03.2023, Finanza e fiscalità
Secondo il programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), almeno 54 nazioni del Sud globale devono far fronte a gravi problemi d’indebitamento.
© Silke Kaiser / pixelio.de
La maggior parte di esse si trova nell’Africa subsahariana (24 nazioni); seguono l’America latina e i Caraibi (10 nazioni). Oltre la metà delle persone che vive in estrema povertà risiede in questi Paesi. 28 di essi fanno parte dei 50 Paesi maggiormente minacciati dal cambiamento climatico sul nostro pianeta. L’UNDP esige un «Haircut» («taglio di capelli»): in altre parole, una riduzione del debito pari al 30%.
Le voci ammonitrici non mancano. Di recente, un commentatore del Financial Times ha scritto che si profila all’orizzonte un «decennio perso». Con ciò si riferisce alla crisi del debito che colpì l’America latina negli anni ’80 del secolo scorso, con le relative drammatiche conseguenze per le persone coinvolte. Certo, gli aumenti dei tassi d’interesse al Nord provocano dei deflussi di capitale al Sud, come fu il caso in quel periodo, ma ora c’è una notevole differenza. Invece di essere le banche a concedere prestiti direttamente agli Stati, come avveniva a quell’epoca, adesso sono i fondi d’investimento come BlackRock a investire il denaro dei fondi di pensione e degli investitori privati nelle obbligazioni di Stato delle nazioni del Sud globale.
Inoltre, è entrata in scena la Cina. Questa potenza mondiale detiene la stessa quantità di debiti di tutti gli altri Paesi creditori messi assieme (circa il 10%). Tuttavia, ciò rappresenta meno di un quarto dei debiti verso i creditori privati (il resto è detenuto da istituzioni multilaterali come la Banca Mondiale). Durante i negoziati, tutti hanno quindi giocato a scaricabarile. L’Occidente deplora la mancanza di cooperazione della Cina che, da parte sua, punta il dito sul fatto che i creditori privati non siano pronti a ridurre il loro debito e che gli attori multilaterali godano di uno statuto privilegiato, e quindi non partecipano nemmeno loro.
Ma quale ruolo gioca la Svizzera in questo contesto? Non lo sappiamo. Non c’è alcuna trasparenza sul ruolo degli investitori elvetici nel Sud globale. L’unica cosa certa è che – accanto alla Cina – un altro attore è entrato in gioco: i commercianti svizzeri di materie prime. Ma, anche qui, regna spesso una certa opacità. Il Fondo Monetario Internazionale ha così rivelato che il Ciad avrebbe un debito di oltre un miliardo di dollari verso Glencore – ossia più di un terzo di tutti i debiti del Paese. La multinazionale, con sede nel canton Zugo e attiva nel settore delle materie prime, che da poco ha triplicato l’utile annuale grazie ai suoi profitti di guerra, si è fermamente rifiutata di ridurre il debito. La Svizzera ha quindi la responsabilità di agire con trasparenza e deve far in modo che le sue grandi imprese multinazionali vadano dal parrucchiere e accettino un «taglio di capelli».
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Comunicato stampa
No al programma di ricompensa per le imprese
24.04.2023, Finanza e fiscalità
Il Consiglio federale presenta oggi i suoi argomenti in merito alla votazione sull’imposizione minima dell’OCSE. Per Alliance Sud è chiaro: il progetto premia i Cantoni a bassa tassazione e le multinazionali per il loro dumping fiscale.
© Thorben Wengert / pixelio.de
Ogni anno le multinazionali elvetiche trasferiscono profitti per oltre 100 miliardi di dollari nel nostro Paese a bassa tassazione. Nei Cantoni di Zugo, Basilea Città, Vaud o Ginevra aumentano le entrate fiscali; nei Paesi che non possono permettersi di promuovere l’evasione fiscale aggressiva, diminuiscono drasticamente. I profitti non vengono tassati dove sono stati realizzati, ma dove le grandi aziende pagano meno tasse.
Anni fa, volendo porre fine a questo gioco, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) propose l’introduzione di una soglia minima per le aliquote fiscali applicate alle multinazionali, che erano scese da decenni. L’imposizione minima avrebbe potuto portare a una «rivoluzione» per una maggiore giustizia fiscale. Ma i Paesi a bassa tassazione come l’Irlanda, Singapore e la Svizzera, grazie a un’abile azione di lobbying presso l’OCSE, l’hanno trasformata in un programma di ricompensa per sé stessi. Un «Sì» il 18 giugno non solo lo renderebbe effettivo in Svizzera, ma aggiungerebbe a questa golosa torta per multinazionali anche la ciliegina elvetica, una sorta di «Sweet Swiss finish». Infatti, le entrate aggiuntive sarebbero destinate al finanziamento di nuove misure di promozione della piazza economica. Dominik Gross, esperto di politica fiscale presso Alliance Sud, afferma: «Il gettito aggiuntivo dell’imposizione minima OCSE andrebbe a beneficio proprio di quelle multinazionali che sfruttano le aree a bassa tassazione della Svizzera per privare altri Paesi del loro gettito fiscale. Proprio secondo il motto: «A chiunque prenda, verrà dato».
Alliance Sud, il centro di competenza svizzero per la cooperazione internazionale e la politica di sviluppo, respinge quindi fermamente il progetto in questa forma. «Con un “no”, diamo al Consiglio federale e al Parlamento la possibilità di elaborare un progetto migliore, che vada a vantaggio non solo delle grandi aziende, ma anche della popolazione svizzera e dei Paesi in cui le imprese elvetiche producono», dichiara Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud.
Qui potete trovare una spiegazione dettagliata del «no» di Alliance Sud.
Per ulteriori informazioni:
Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, +41 31 390 93 30
Dominik Gross, responsabile politica fiscale e finanziaria di Alliance Sud, +41 78 838 40 79
Marco Fähndrich, responsabile della comunicazione di Alliance Sud, +41 79 374 59 73
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Comunicato stampa
La Svizzera resta un paradiso per la frode fiscale
18.02.2020, Finanza e fiscalità
Nella classifica delle piazze finanziarie nell’ombra, stilata quest’anno dal "Réseau pour la justice fiscale", la Svizzera occupa il terzo posto. Per le persone agiate del Sud è sempre facile nascondere i soldi in Svizzera.
Solo negli Stati Uniti e nelle Isole Cayman (foto) l’evasione fiscale trova delle condizioni migliori rispetto alla Svizzera
© pixelio.de / Katharina Wieland Müller
Selon les derniers calculs du Réseau pour la justice fiscale (TJN), la place financière suisse a réduit de 12 % par rapport à 2018 le risque d'agir comme un port offshore pour les réfugiés fiscaux du monde entier et elle est passée de la première place en termes d’opacité à la troisième. Les seuls pays qui devancent la Suisse sont les États-Unis et les îles Caïmans. Cette amélioration est principalement due au fait que la Suisse a étendu son réseau international d'échange automatique des renseignements sur les clients (EAR) à plus de 100 pays.
Toutefois, à quelques exceptions près, les pays pauvres ne sont toujours pas inclus. Les personnes fortunées des pays du Sud peuvent donc toujours cacher leur argent pratiquement sans risque aux autorités fiscales de leur pays d'origine en utilisant les services offshore des banques et autres prestataires de services financiers en Suisse. Cela a été démontré encore une fois récemment par les révélations sur les constructions offshore suisses d’Isabel dos Santos, la fille de l'ex-président angolais (#Luandaleaks).
Selon l'Association suisse des banquiers (SwissBanking), les institutions locales gèrent encore plus d'un quart des actifs transfrontaliers mondiaux. Cela signifie que la Suisse est toujours le plus grand centre financier offshore du monde – bien qu'il ne soit plus le plus opaque. Compte tenu de la grande importance de la place financière suisse pour l'industrie offshore mondiale et malgré l'assouplissement du secret bancaire au cours des dix dernières années, la contribution de la politique financière et fiscale suisse à la lutte contre la fraude fiscale mondiale reste insuffisante. Il y a encore beaucoup de rattrapage à faire dans ce domaine, même par rapport aux normes internationales.
Alliance Sud propose les réformes suivantes :
- La Suisse devrait aider les pays du Sud à respecter les normes de l'OCDE en matière de rapports afin qu'ils puissent rejoindre le réseau EAR.
- Dans le cadre d'une nouvelle révision du droit des sociétés, la Suisse doit introduire un registre public des ayants droit économiques, qui fournira des informations sur les personnes qui possèdent effectivement des sociétés offshore en Suisse. Les pays de l'UE sont en train de mettre en place un tel registre.
- Les rapports pays par pays des sociétés multinationales, qui ont déjà été échangés avec des dizaines de pays, doivent être rendus publics afin que l'évasion fiscale ne continue pas à bénéficier de la protection de l'État. Dans l'UE, ce règlement, qui fournit des informations sur les structures de profit, s'applique déjà aux grandes banques.
Pour plus d'informations:
Dominik Gross, spécialiste de la politique financière et fiscale à Alliance Sud : +41 78 838 40 79,
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Comunicato stampa
La cultura dell'iniquità fiscale
20.10.2021, Finanza e fiscalità
Il gruppo agroalimentare lussemburghese Socfin trasferisce degli utili della produzione di materie prime a Friburgo, un cantone svizzero a bassa tassazione. Questa pratica di ottimizzazione fiscale aggressiva equivale all'espatrio di profitti a scapito della popolazione che vive nelle zone interessate in Africa e in Asia. Per la prima volta, un rapporto di Pain pour le prochain, Alliance Sud e di Netzwerk Steuergerechtigkeit Deutschland ha fatto luce sul funzionamento di questo meccanismo. Anche la Svizzera è in parte responsabile di questo fenomeno, poiché la politica elvetica di dumping in materia di fiscalità delle imprese è uno dei pilastri di questo sistema iniquo.
La piantagione di caucciù della Salala Rubber Corporation (SRC) in Liberia copre circa 4500 ettari di terreno.
© Brot für alle
La società Socfin, con sede in Lussemburgo, ha ottenuto in dieci Paesi africani e asiatici delle concessioni che coprono una superficie di più di 380’000 ettari, cioè quasi l’equivalente della superficie agricola della Svizzera. Nelle sue 15 piantagioni, il gruppo produce caucciù e olio di palma che poi vende sul mercato mondiale. Anche se la società ha una struttura complessa, è chiaro che commercializza gran parte del suo caucciù attraverso una filiale basata a Friburgo, ovvero Sogescol FR. Un'altra filiale, Socfinco FR, anch'essa con sede a Friburgo, è incaricata di amministrare le piantagioni e fornire delle prestazioni alle altre società del gruppo.
Nel 2020, Socfin ha registrato un utile consolidato di 29,3 milioni di euro. Il rapporto, che analizza il profitto per dipendente e nei diversi Paesi nei quali opera Socfin, mette in evidenza la distribuzione particolarmente disuguale di questi redditi. Se l'utile per dipendente è stato di circa 1’600 euro nei Paesi africani nei quali opera Socfin, lo stesso non si può dire delle filiali svizzere del gruppo, dove la cifra ha raggiunto 116’000 euro l'anno scorso, un importo quasi 70 volte superiore. In Svizzera, l'utile per dipendente ha addirittura superato i 200’000 euro in media tra il 2014 e il 2020.
Bassa tassazione, profitti elevati
Come spiegare queste differenze nella distribuzione degli utili all'interno dello stesso gruppo? Secondo il rapporto pubblicato da Pain pour le prochain, Alliance Sud e di Netzwerk Steuergerechtigkeit Deutschland, la risposta si trova nella tassazione dei Paesi in cui opera Socfin. Infatti, è dove le tasse sono più basse che il profitto dell'azienda per dipendente è più elevato. Nei Paesi africani nei quali Socfin è attiva, l'aliquota fiscale varia dal 25 al 33%, contro meno del 14% in Svizzera. Si tratta di un classico schema di trasferimento degli utili tra filiali per scopi di ottimizzazione fiscale aggressiva.
Questa pratica, molto diffusa tra le multinazionali, non è necessariamente illegale, ma è comunque iniqua, perché priva i Paesi produttori dell'emisfero sud delle entrate fiscali che sono indispensabili per il loro sviluppo e aumenta così le disuguaglianze mondiali. Ogni anno, circa 80 miliardi di euro di utili realizzati nei Paesi in via di sviluppo sono esportati in giurisdizioni a bassa tassazione come la Svizzera, una cifra che rappresenta più della metà della spesa pubblica annuale destinata alla cooperazione allo sviluppo a scala mondiale.
Il trasferimento degli utili all'interno delle multinazionali è generalmente difficile da cogliere per l’opinione pubblica (a causa dell'opacità che lo circonda) e per le amministrazioni fiscali (a causa della mancanza di volontà o di mezzi sufficienti). Nel caso di Socfin, invece, i rapporti finanziari ripartiti per zone pubblicati dalla società forniscono informazioni sulla struttura e lo scopo delle transazioni tra le filiali. Che si tratti di commercio, consulenza, licenze o altri servizi, le transazioni infragruppo delocalizzano in Svizzera gran parte delle entrate generate in Africa e in Asia. Solo un esame approfondito da parte delle autorità fiscali permetterebbe di verificare se questi prezzi di trasferimento sono, come sostiene Socfin, in linea e pertinenti con le norme dell’OCSE.
La Svizzera deve essere più trasparente
La realtà delle piantagioni nell'emisfero Sud rappresenta l'altra faccia della medaglia rispetto agli ottimi risultati registrati in Svizzera. In effetti, Socfin dispone di concessioni estremamente vantaggiose in questi Paesi, ma non offre una compensazione sufficiente alla popolazione interessata, paga ai lavoratori solo salari modesti per il loro duro lavoro e non mantiene pienamente le sue promesse di investimento sociale. Nonostante questo contesto particolarmente favorevole, alcune concessioni del gruppo, come la piantagione di caucciù di LAC in Liberia, registrano perdite continue - il che, secondo il rapporto, supporta ulteriormente l'ipotesi che gli utili siano trasferiti dall'Africa al paradiso fiscale svizzero.
Questa pratica rappresenta oggi un notevole beneficio per la Svizzera, queste transazioni generano quasi il 40% delle entrate dell'imposta sull’utile delle società a livello cantonale e federale. Per combattere gli abusi che derivano da questa pratica, è imperativo che il nostro Paese migliori la trasparenza della sua politica fiscale e renda pubblici i ruling, gli accordi che le amministrazioni fiscali concludono con le società. Lo stesso vale per i rapporti che le multinazionali sono obbligate a presentare in Svizzera nell'ambito dello scambio di rendicontazioni Paese per Paese dell'OCSE, il cui accesso è attualmente limitato alle amministrazioni fiscali. Prima di tutto, è importante che la Svizzera promuova un regime internazionale di imposizione delle imprese che localizzi la tassazione degli utili nei Paesi in cui sono generati e non nelle giurisdizioni a bassa tassazione.
Mobilitazione a Friburgo
Questa mattina, Pain pour le prochain organizza un’azione di mobilitazione davanti alla sede di Sogescol e di Socfinco a Friburgo per sollecitare Socfin a cessare le sue pratiche immorali di trasferimento degli utili e di ottimizzazione fiscale all'interno delle sue strutture. È anche importante che il gruppo risponda alle richieste delle comunità locali, restituisca le terre contese e garantisca salari decenti a tutte le lavoratrice e tutti i lavoratori delle piantagioni.
Cliccate su questo link per scaricare le foto di questa azione a partire dalle 10 del mattino circa.
Materiale da scaricare:
Sintesi del rapporto (in francese), versione integrale del rapporto (in inglese)
Ulteriori informazioni:
Lorenz Kummer, responsabile media di Pain pour le prochain: +41 79 489 38 24
Socfin: l’évasion fiscale sur le dos des plus démunis
Pain pour le prochain, Alliance Sud et Réseau allemand pour la justice fiscale
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Comunicato stampa
Combattere la fame nel mondo in maniera efficace
29.01.2016, Finanza e fiscalità
Malgrado una produzione sufficiente di derrate alimentari, 800 milioni di persone soffrono sempre ed ancora di fame. L’iniziativa contro la speculazione alimentare propone alcune misure contro questo scandalo. (in francese)
© Erich Westendarp / pixelio.de
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Pubblicazione
Progetto fiscale e finanziamento dell’AVS
22.01.2019, Finanza e fiscalità
Il 19 maggio si voterà sulla riforma dell’imposizione delle imprese, che il Parlamento ha legato al finanziamento supplementare dell’AVS. Dal punto di vista dello sviluppo, la proposta, che fa seguito al rifiuto della RII III, non è un progresso.
Il collegamento da parte del Parlamento di due affari politici - l'imposizione delle imprese e il finanziamento dell'AVS - è ampiamente definito di mercanteggiamento.
© Pixabay
Dopo l’esito del referendum contro la Riforma fiscale e il finanziamento dell’AVS, gli elettori si pronunceranno di nuovo sulla riforma dell’imposizione delle imprese, rimasta in sospeso. L’analisi della politica fiscale fatta da Alliance Sud mostra che, dal punto di vista della politica di sviluppo, la proposta non contiene alcun progresso significativo rispetto alla riforma dell’imposizione delle imprese III (RII III), che è stata rifiutata due anni fa. Ancora una volta, è previsto di sostituire i vecchi regimi fiscali speciali, che nuociono allo sviluppo, con dei nuovi.
La proposta attuale è volta a dare all’imposizione svizzera delle società una forma accettata internazionalmente e ad abolire definitivamente i vecchi regimi fiscali speciali, riservati esclusivamente ai benefici dei gruppi stranieri tassati in Svizzera. E’ una buona cosa dal punto di vista dello sviluppo. Al contempo però, crea nuove possibilità per le multinazionali di trasferire i profitti. Spostando i profitti verso paesi dalla pressione fiscale ridotta, come la Svizzera, le imprese privano i paesi in via di sviluppo di introiti fiscali potenziali stimati a 200 miliardi di dollari all’anno.
L’analisi dettagliata fatta da Alliance Sud del nuovo strumento di dumping fiscale della Riforma fiscale e finanziamento dell’AVS mostra che la nuova politica fiscale svizzera contemplata non è compatibile con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU. La Svizzera, che è il paese con la più alta densità di sedi di multinazionali per abitante, ha una responsabilità particolare nella lotta contro le disuguaglianze sociali nel mondo e per il finanziamento adeguato dell’Agenda 2030.
Per via del dumping fiscale di giuridizioni dalla fiscalità bassa come la Svizzera, l’imposta sulle società è in diminuzione in tutto il mondo da decenni. Ciò impedisce di fornire i servizi pubblici sanitari, educativi o di infrastrutture più urgenti ai gruppi sfavoriti della popolazione nei paesi in via di sviluppo. La Svizzera non è un parassita del treno che porta nel baratro la fiscalità internazionale delle imprese – è una delle locomotive e lo resterà con la Riforma fiscale e finanziamento dell’AVS.
Nonostante le lacune notevoli della parte fiscale del disegno di legge, Alliance Sud si astiene dal dare indicazioni di voto sulla Riforma fiscale e il finanziamento dell’AVS. La parte AVS del disegno di legge porta su una questione di politica interna che oltrepassa il mandato di politica di sviluppo dell’organizzazione. Al contempo, i membri di Alliance Sud hanno opinioni divergenti sulla possibilità di pervenire ad una riforma dell’imposizione delle imprese giusta dal punto di vista dello sviluppo al di là della proposta attuale. Ciononostante è chiaro che detta riforma rimane necessaria indipendentemente dal risultato del voto di maggio.
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Comunicato stampa
RFFA: vecchi difetti – nuove etichette
08.04.2019, Finanza e fiscalità
Il 19 maggio, gli elettori si pronunceranno sulla Riforma fiscale e finanziamento dell'AVS (RFFA). L'aspetto fiscale del progetto di legge non fa nessun passo in avanti in materia di politica di sviluppo rispetto alla precedente Riforma, la RII III.
Per il Sud.
© Pixabay
La réforme de l'imposition des entreprises (RIE III) a été clairement rejetée en février 2017 grâce à la résistance des syndicats et des partis rouges-verts aux urnes. La partie fiscale de la RFFA – comme c'était déjà l'objectif de la RIE III – consiste désormais à remplacer les anciens privilèges fiscaux spéciaux accordés aux entreprises des secteurs pharmaceutique, financier et des matières premières, qui doivent être abolis d'ici fin 2019, par de nouvelles incitations à la fraude fiscale. La boîte à brevets, l'impôt sur les bénéfices ajusté en fonction des intérêts ou l'indication des réserves latentes en cas d'immigration doivent être utilisés comme nouveaux instruments.
Dominik Gross, expert financier chez Alliance Sud, déclare : « Avec la RFFA, la Suisse veut continuer à importer des profits des multinationales étrangères. Les mécanismes correspondants recevront simplement de nouveaux noms. » Ce sont les pays en développement qui en subissent le plus les conséquences : les transferts de bénéfices des multinationales vers des juridictions à faible fiscalité comme la Suisse privent les communautés du monde entier de centaines de milliards de dollars de recettes fiscales potentielles chaque année. Dominik Gross : « C'est de l'argent qui serait nécessaire d'urgence pour lutter contre la pauvreté dans les pays du Sud ou pour la transition vers des infrastructures respectueuse du climat. »
Dans son document d’analyse détaillée sur la RFFA, Alliance Sud met en lumière les points suivants dans une perspective de développement :
- Les anciens privilèges fiscaux accordés aux multinationales ne seront plus tolérés par l'UE et l'OCDE à partir de 2020. Ils devront être abolis d'ici la fin de l'année, quel que soit le résultat du vote sur la RFFA. Charles Juillard, président de la Conférence des directeurs financiers cantonaux, a déclaré à Radio RSF que le Département fédéral des finances l'avait récemment confirmé.
- L'alternative la plus probable à la RFFA serait un mini-modèle sans nouveaux privilèges, comme le PDC l'avait déjà proposé lors de la consultation sur la proposition fiscale 17 de l'époque – avant de la lier au financement AVS.
- Les nouvelles déductions fiscales sur les gains de brevets dans le cadre de la boîte à brevets sont difficiles à calculer. Selon les informations de l'administration fédérale, elles entraîneront une réduction maximale de 70 % du bénéfice imposable et permettront ainsi d'atteindre un taux effectif d'imposition de seulement 9 %. La Suisse resterait ainsi une locomotive de la concurrence fiscale internationale, ruineuse pour la population.
- Le couplage de l'impôt sur le bénéfice ajusté en fonction des intérêts à un taux d'imposition minimum cantonal n'a aucun effet sur le développement. Pour les Etats dont les recettes fiscales sont déduites, il importe peu que les bénéfices des sociétés correspondantes soient transférés dans différents cantons suisses ou qu'ils soient tous concentrés dans quelques cantons (pour l'instant, cela ne serait possible qu'à Zurich).
- La nouvelle règle de remboursement en vertu du principe de l'apport en capital (PAC) ne s'applique pas lorsque les actionnaires concernés sont des personnes morales. Les réserves issues du capital d'une société qui s'installe en Suisse ou d'une filiale d'un groupe étranger après le 24 février 2008 (introduction de la PAC) sont également exemptées de la règle de remboursement. Dans tous ces cas, même après l'introduction de la RFFA, les sociétés peuvent ainsi rembourser à leurs actionnaires - en particulier aux actionnaires étrangers - leurs réserves de capitaux à investir en toute exonération fiscale et continuer ainsi à éviter complètement l'imposition des dividendes en Suisse.
- En augmentant sensiblement la part de l'impôt fédéral direct du canton, la Confédération subventionne des réductions d'impôts massives pour toutes les entreprises cantonales selon le principe de l'arrosoir. Cela donne un nouvel élan à la spirale descendante des taux d'imposition normaux dans la concurrence fiscale inter cantonale. Etant donné que les cantons sont également impliqués individuellement dans la « course internationale vers le bas », cette mesure est également préjudiciable à la politique de développement. En avril 2018, la Confédération suisse des syndicats a supposé que le taux moyen de l'impôt cantonal sur les bénéfices serait réduit de 40 % à la suite de la proposition fiscale. La RFFA n'y change rien. La boîte à brevets et l'impôt sur les bénéfices ajusté en fonction des intérêts n'entravent pas cette spirale descendante – contrairement à ce que l'on prétend souvent. C'est ce que montrent les concepts de mise en œuvre de la RFFA de nombreux cantons.
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