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« Le disuguaglianze sono radicate nel sistema »

21.06.2021, Finanza e fiscalità, Agenda 2030

Stefano Zamagni, professore italiano di economia e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, spiega in un'intervista perché un nuovo inizio dell'economia civile non è più rinviabile.

« Le disuguaglianze sono radicate nel sistema »

Nel 2009, Stefano Zamagni (a destra) e diversi cardinali presentano l'enciclica papale "Caritas in Veritate": essa invita la comunità imprenditoriale a tener conto dei bisogni dei più poveri.
© Vincenzo Pinto / AFP210

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Procrastinare il problema del debito

17.03.2022, Finanza e fiscalità

La pandemia di covid-19 è causa di una crisi mondiale del debito che colpisce duramente i Paesi poveri del Sud. Alcuni sforzi multilaterali di alleggerimento del debito ci sono ma la situazione di questi Paesi peggiora.

Dominik Gross
Dominik Gross

Esperto in politica fiscale e finanziaria

Procrastinare il problema del debito

© Philip Bürli

Lo scoppio della pandemia di coronavirus, di due anni fa, ha riportato la questione dell’indebitamento al centro dei dibattiti sulla politica di sviluppo. Che questo tema sia tra le discussioni politiche principali a proposito della lotta contro le disuguaglianze su scala mondiale non è però di certo una novità. È altrettanto evidente che un cambiamento fondamentale nella gestione politica del debito pubblico è necessario per orientare le economie del pianeta verso lo sviluppo di società più ecologiche, più sociali e più democratiche. Tuttavia, come spesso accade, la consapevolezza non è sufficiente per generare cambiamenti concreti: secondo il rapporto annuale sull’indebitamento dei Paesi del Sud, pubblicato dalle ONG germaniche Misereor e erlassjahr.de, 135 dei 148 Paesi esaminati presentano all’ora attuale un indebitamento problematico. Trentanove di essi sono a serio rischio di fallimento. Tra questi figurano Paesi di tutti i gruppi di reddito e il loro numero è quadruplicato dall’inizio della pandemia.

A differenza degli Stati-nazione ricchi del Nord, che generalmente s’indebitano con le loro valute e mantengono una certa flessibilità nella gestione del debito tramite le loro istituzioni finanziarie e fiscali (in particolare le banche centrali), i Paesi poveri solitamente s’indebitano in valute straniere come il dollaro americano o il renminbi cinese. A causa delle loro economie più deboli, gli Stati poveri pagano anche tassi d’interesse molto più elevati sui mercati finanziari rispetto ai Paesi ricchi – in genere intorno al 5%. Al contrario, negli ultimi anni, Paesi come la Svizzera o la Germania sono stati in grado di assumere nuovi debiti praticamente a costo zero.

Senza la remissione del debito, i Paesi poveri difficilmente possono sottrarsi dalla trappola dell’indebitamento. Prima però occorre affrontare la questione politica per sapere chi dovrà sostenere i costi delle corrispondenti perdite di crediti: la popolazione, che a causa delle misure di austerità prese dallo Stato per ridurre il debito si ritrova confrontata con un deterioramento dei sistemi sanitari pubblici, dell’istruzione e delle infrastrutture e ha meno soldi per vivere, o i creditori, costretti a rinunciare ai rendimenti e ad accettare perdite sui propri fondi.

La spada di Damocle della politica del debito non è stata eliminata

Nel caso dell’attuale crisi del debito pubblico nel Sud del mondo, negli ultimi diciotto mesi i Paesi del G20, in accordo con il FMI e la Banca Mondiale (BM), hanno sempre fornito la stessa risposta: le società civili di questi Paesi devono pagare per questa crisi e non i donatori. È vero che, dallo scoppio della pandemia di coronavirus, alcune iniziative – tra le quali troviamo il fondo fiduciario d’assistenza e contenimento delle catastrofi (The Catastrophe Containment and Relief Trust, CCTR) del FMI e l’iniziativa dei Paesi G20 volta alla sospensione del servizio del debito (Debt Service Suspension Initiative, DSSI) – sono state lanciate da queste istituzioni multilaterali fornendo a breve termine un certo sollievo agli Stati indebitati. Tuttavia, non si può certo parlare di una vera via d’uscita dalla crisi del debito.

Il FMI ha creato il fondo fiduciario CCTR nel 2010 e ha risposto alla crisi del coronavirus estendendolo a 29 Paesi a basso reddito. Fino ad aprile di quest’anno, il fondo fiduciario CCTR si fa carico di tutti i contributi che questi Paesi devono al FMI. L’ISSD è stata creata dai Paesi del G20 in primavera 2020 dopo lo scoppio della crisi di coronavirus. Ai 73 Paesi più poveri del pianeta che soddisfano i criteri di prestito dell’Agenzia internazionale per lo sviluppo (IDA, che fa parte della Banca Mondiale), questa iniziativa offre una moratoria sul debito: nel 2020 e 2021 i Paesi beneficiari dell’ISSD hanno potuto sospendere i rimborsi dovuti ai creditori bilaterali (si tratta di pagamenti rivolti ad altri Stati). Ad ogni modo, questi pagamenti saranno da recuperare tra il 2023 e il 2027. Se il fondo fiduciario CCTR include una cerchia molto ristretta di Paesi e permette in modo molto puntuale solo alcuni alleggerimenti ridotti del debito che sarebbe da restituire al FMI, l’ISSD non fa altro che rimandare il problema. Quest’iniziativa, per i Paesi interessati è stata certamente utile per ottenere un certo margine d’azione finanziario più ampio nella gestione immediata della pandemia, ma il problema è lungi dall’essere risolto, come evidenziato nel rapporto sull’indebitamento di Misereor e erlassjahr.de. Nel rapporto è esplicitato che, nel 2020, 58 Paesi a basso o medio reddito hanno pagato più interessi e capitali a creditori privati all’estero rispetto a quanto abbiano ricevuto in crediti nuovi dagli stessi creditori nel medesimo periodo.

La combinazione di moratorie sui debiti pubblici e multilaterali e il rifiuto di creditori privati, come le banche e i commercianti di materie prime, di partecipare alla remissione del debito ha come effetto il trasferimento dei crediti privati sui bilanci pubblici. Allo stesso tempo, secondo gli autori di questo rapporto, la pausa offerta dalla moratoria sul debito dell’ISSD del G20 e il massiccio sostegno in liquidità non sono stati sfruttati per intraprendere le attese riforme della struttura del debito.

Fallimenti di Stati: con “l’aiuto” della Svizzera

a Svizzera ha una responsabilità particolare nella gestione della crisi del debito, come dimostrato dal focus su tre Paesi del Sud nei quali il fallimento del settore pubblico è già una realtà evidente. Con le risorse del loro budget nazionale questi Paesi non possono più garantire il pagamento del loro debito e dipendono quindi dall’aiuto del FMI o della BM, o dalla rinuncia di riscossione dei crediti da parte dei creditori.

  • L’unico creditore privato in Chad si chiama Glencore. Il gruppo internazionale specializzato nel settore delle materie prime conduce la maggior parte delle sue transazioni, compresi i prestiti basati sulle risorse naturali (resource-backed loans, RBL), passando dal cantone di Zugo. Nel caso degli RBL, i Paesi produttori di materie prime promettono ai commercianti delle forniture future tramite contratti a termine; in cambio, per le quantità negoziate ricevono dai commercianti dei pagamenti anticipati, ad un prezzo stabilito, sotto forma di crediti. Nella primavera del 2021 lo stesso direttore della BM David Malpass ha chiesto a Glencore di accordare al Chad un alleggerimento del debito, ma da parte del gruppo di Zugo non è arrivata ancora nessuna reazione.
  • Fino ad oggi, anche lo Zambia faceva parte dei principali Paesi con i siti di estrazione di materie prime di Glencore. Ora si sa che l’evasione fiscale massiccia fa parte del modo di procedere del gruppo internazionale; questo a scapito del bilancio statale dello Zambia e a favore delle autorità fiscali svizzere.
  • In Mozambico le operazioni di credito illegali con Credit Suisse sono addirittura tra le prime responsabili della bancarotta del settore pubblico: destinati alla costruzione di una flotta semipubblica per la pesca, i crediti sono finiti nelle tasche delle élite economiche e politiche locali.

Questi tre Stati rientrano tutti nella lista dei Paesi prioritari della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC). Gli affari delle grandi multinazionali svizzere, con le quali la Confederazione collabora anche all’estero nell’ambito della sua politica economica estera, compromettono la credibilità dell’impegno della Svizzera in favore dello sviluppo sostenibile. La Confederazione farebbe bene a sfruttare le buone relazioni che indubbiamente ha con queste imprese per esortarle a partecipare alla necessaria riduzione del debito.

Pubblicazione

A chiunque prenda, verrà dato

23.02.2023, Finanza e fiscalità

Con la nuova imposizione minima, in origine l’OCSE intendeva rendere un po’ più equo il sistema fiscale internazionale applicato alle imprese. Il Consiglio nazionale e il Consiglio degli Stati hanno trasformato tale intenzione nel suo contrario.

Dominik Gross
Dominik Gross

Esperto in politica fiscale e finanziaria

A chiunque prenda, verrà dato

L'attuazione svizzera dell'imposizione minima OCSE è nell'interesse delle imprese, ma non del Sud globale. Nella foto: l'ex consigliere federale Ueli Maurer, a destra, con il vicecancelliere André Simonazzi.
© ANTHONY ANEX / Keystone SDA

Sul piano tecnico l’imposizione minima è indubbiamente molto complessa, ma a livello di pura politica interna il suo calcolo è molto semplice. L’ex ministro delle finanze svizzero Ueli Maurer è stato molto rapido nel farlo quando il Consiglio federale ha presentato il progetto per l’attuazione nazionale dell’imposizione minima a giugno dello scorso anno: «Se la Svizzera non prende i soldi in più, lo faranno gli altri», ha dichiarato. Tuttavia, per chi si batte a favore di una maggiore giustizia fiscale globale, come Alliance Sud, il ragionamento va fatto al contrario: i Paesi del Sud globale che ospitano controllate di gruppi di imprese svizzeri ricevono i soldi in più solo se non li prende la Svizzera.

Il fulcro dell’attuazione svizzera dell’imposizione minima è la cosiddetta imposta integrativa nazionale (nel linguaggio dell’OCSE “Domestic Minimum Top-up Tax, DMTT”). Essa garantisce che le multinazionali che in precedenza pagavano meno del 15% di imposte sui loro utili contabilizzati in Svizzera saranno ora soggette a percentuali fiscali aggiuntive che porteranno le aliquote effettive al minimo OCSE del 15%. Per esempio, una multinazionale attiva nel ramo delle materie prime del Cantone di Zugo finora pagava l’11% di imposte sugli utili. In futuro dovrà pagare imposte supplementari fino a coprire la differenza del 4%. Fin qui tutto bene, ma l’imposta integrativa nazionale nasconde un’insidia per la politica di sviluppo, che non sostiene affatto: tutto il gettito fiscale aggiuntivo rimane nel Cantone di Zugo, dove ha sede la multinazionale specializzata in materie prime. I Paesi del Sud del mondo dove l’impresa estrae le materie prime che poi commercia da Zugo rimangono a mani vuote. A torto, perché i profitti su cui i gruppi di imprese pagano le tasse in Svizzera spesso non sono realizzati qui, ma nei Paesi produttori del Sud globale - nel caso di un’impresa di materie prime, ad esempio, in una miniera di rame in un Paese africano.

I Paesi del Sud in cui le multinazionali svizzere hanno controllate ricevono i soldi dell’imposizione minima solo se la Svizzera non li prende. In altre parole, solo se la Svizzera non introduce l’imposta integrativa nazionale. Potrebbe farlo senza problemi poiché, a differenza dell’ultima riforma del sistema fiscale internazionale applicato alle imprese, questa volta l’OCSE, il G20 e l’UE non si basano su sanzioni contro i Paesi che non si adeguano, ma proprio su quegli incentivi di natura economica che Ueli Maurer ha splendidamente riassunto nella citazione sopra riportata.

L’attuazione svizzera non è un contributo a una maggiore giustizia fiscale globale

Per i Paesi economicamente svantaggiati del Sud del mondo in cui operano le multinazionali svizzere, l’imposizione minima non rappresenta un passo avanti, anzi si tratta addirittura di un passo indietro, per i seguenti motivi.

a) L’aliquota dell’imposizione minima è troppo bassa: le aliquote fiscali sugli utili nei Paesi produttori del Sud globale sono generalmente comprese tra il 25% e il 35%. L’imposizione minima del 15%, molto più bassa, non garantisce loro alcun gettito aggiuntivo. Nella primavera del 2021, gli Stati Uniti avevano chiesto un’aliquota fiscale minima del 21% sotto la nuova amministrazione democratica di Biden. Poi la Svizzera, insieme ad altri Paesi a bassa tassazione come l’Irlanda e il Lussemburgo, ha negoziato con successo una riduzione dell’aliquota. È quanto dimostra una lettera di Ueli Maurer al Segretario generale dell’OCSE Mathias Corman dell’autunno 2021.

b) L’imposizione minima non impedisce il trasferimento degli utili: le multinazionali trasferiscono gli utili che realizzano con la produzione in Paesi ad alta tassazione a Paesi a bassa tassazione con aliquote fiscali molto ridotte. In questo modo risparmiano parecchie tasse nei Paesi produttori, ma allo stesso tempo permettono ai Cantoni svizzeri di tassare a basse aliquote utili che non sono nemmeno stati realizzati nel nostro Paese. Ne è un esempio il caso del commerciante di materie prime agricole svizzero-lussemburghese Socfin. Inoltre, l’équipe di economisti guidata dal professore di Stanford Gabriel Zucman mostra che l’anno scorso le multinazionali hanno trasferito 111 miliardi di dollari di utili in Svizzera. Il 39% del gettito totale dell’imposta sull’utile in Svizzera, pari a 22,7 miliardi di dollari, proviene da questo fenomeno di profit shifting. Tuttavia, il calcolo non include il trasferimento degli utili da molti Paesi del Sud, perché mancano i dati fiscali necessari. Comunque, casi come quello citato della Socfin di Friburgo dimostrano che gli importi di tale trasferimento di utili probabilmente siano molto più elevati. Da uno studio degli economisti Petr Janský e Miroslav Palanský del 2019 emerge che ogni anno almeno 80 miliardi di euro di utili vengono trasferiti dai Paesi in via di sviluppo a Paesi a bassa tassazione come la Svizzera. Tuttavia, ad oggi resta impossibile dire con esattezza quanto di questo denaro finisca in Svizzera a causa dei già citati problemi di dati nei Paesi d’origine nonché per la mancanza di trasparenza degli standard contabili svizzeri. Anche con l’introduzione dell’imposizione minima, la Svizzera continua a essere un obiettivo attraente per il trasferimento di utili dai Paesi in via di sviluppo.

c) L’imposizione minima limita l’autonomia fiscale dei Paesi del Sud del mondo: se la Svizzera introdurrà l’imposizione minima, priverà i Paesi del Sud globale che ospitano controllate di multinazionali svizzere del diritto di tassare tali controllate secondo le proprie leggi fiscali nazionali. Questi Paesi non potranno più applicare misure unilaterali alle controllate delle grandi imprese svizzere, come una ritenuta alla fonte sui pagamenti transfrontalieri infragruppo superiore al 9% (che è la soglia ancora consentita dalle nuove norme OCSE). Ciò comporta ulteriori perdite fiscali nei Paesi interessati.

Quindi questa riforma non solo lascia a mani vuote i Paesi economicamente svantaggiati del Sud globale, ma limita ulteriormente la loro indipendenza fiscale. Per cercare almeno di ridurre questa ingiustizia globale, Alliance Sud a marzo 2022 ha proposto che una parte delle entrate aggiuntive previste in Svizzera venga restituita ai Paesi a basso reddito del Sud del mondo. Ciò avrebbe potuto avvenire facilmente mediante gli strumenti del finanziamento della cooperazione internazionale o del finanziamento climatico internazionale. Nella discussione parlamentare sul disegno di legge svizzero, tuttavia, non è stata prestata attenzione all’impatto che l’imposta integrativa svizzera avrà sui Paesi del Sud globale. Sviluppi come questo potrebbero anche essere una delle ragioni per cui importanti economie africane come la Nigeria e il Kenya hanno annunciato che non introdurranno l’imposizione minima. Tuttavia ciò serve a poco a questi Paesi se hanno a che fare con multinazionali la cui sede si trova in un Paese che, come la Svizzera, vuole introdurre un’imposta integrativa nazionale: il gettito fiscale aggiuntivo viene percepito in quest’ultimo e i diritti di tassazione del Paese nei confronti delle controllate sono ridotti.

Misure di promozione della piazza economica

Secondo la volontà del Parlamento, solo il 25% del gettito aggiuntivo dell’imposizione minima rimarrebbe al governo federale. Il restante 75% andrebbe ai Cantoni. Ad approfittarne sono soprattutto le due note regioni di bassa imposizione fiscale Zugo (commercianti di materie prime) e Basilea Città (industria farmaceutica). Anche il modo in cui verranno utilizzate le entrate fiscali aggiuntive è già in gran parte chiaro. Nel caso della Confederazione, in conformità con il Decreto federale le entrate devono essere utilizzate esplicitamente per misure di promozione della piazza economica. Molti Cantoni hanno già annunciato misure di questo tipo, probabilmente soprattutto sotto forma di riduzioni delle imposte sul capitale o delle imposte sulle persone fisiche con redditi elevati (ad esempio manager del gruppo). Sono in discussione anche nuovi accordi speciali tra le autorità fiscali cantonali e le multinazionali in cui lo Stato si fa carico di una parte dei costi operativi, misure di promozione della ricerca per start-up (legate al settore farmaceutico) (a Basilea) o addirittura sovvenzioni per i salari nelle multinazionali.

Insomma, il gettito aggiuntivo dell’imposizione minima in Svizzera non sarà utilizzato a beneficio della comunità, come richiesto dalla sinistra in Parlamento, ma tornerà alle multinazionali stesse. Entrate aggiuntive che, si noti bene, di solito derivano dal trasferimento degli utili dei gruppi da Paesi con aliquote fiscali superiori al 20 o 25 per cento. Dal punto di vista delle multinazionali, questo è un trucco sofisticato: le entrate fiscali che le grandi imprese multinazionali svizzere sottraggono agli altri Paesi trasferendo i loro utili in Svizzera e facendoli tassare qui con aliquote molto più basse verranno ora riutilizzate in Svizzera a beneficio proprio di queste imprese. Non c’è da stupirsi che associazioni di imprese come Economiesuisse o Swiss Holdings vogliano a tutti i costi questa riforma, anche se a prima vista i loro membri dovranno pagare più tasse di prima.

Le scappatoie fiscali minano ulteriormente l’imposizione minima

Ma non è tutto: il concetto di attuazione dell’imposizione minima, presentato al Parlamento dal Consiglio federale, è anche pieno di scappatoie fiscali. Il Consiglio nazionale e il Consiglio degli Stati non si sono occupati nemmeno di queste negli ultimi mesi. Pertanto c’è un certo rischio che, contrariamente alle aspettative, l’imposizione minima non porti ad alcun significativo gettito aggiuntivo in Svizzera. Viene quindi naturale sospettare che la maggioranza borghese a Berna voglia introdurre l’imposizione minima principalmente per proteggere le multinazionali svizzere da un’ulteriore tassazione in altri Paesi.

In ultima analisi, ciò va a scapito delle popolazioni in Svizzera e nel mondo. Le multinazionali svizzere nei Paesi poveri del Sud del mondo non si limitano a sfruttare la manodopera o a inquinare l’ambiente. Con il loro dumping fiscale, impediscono anche lo sviluppo di buoni sistemi di istruzione, sanità e infrastrutture. La legislazione svizzera sull’imposizione delle imprese in questo viene in loro aiuto in modo decisivo. Alliance Sud non può accettare un’altra riforma dell’imposizione dei grandi gruppi di imprese che in ultima analisi avvantaggia soprattutto i gruppi stessi. Essa danneggia direttamente i Paesi in via di sviluppo. La Svizzera dovrebbe invece astenersi dall’introdurre l’imposizione minima, dando così ai Paesi produttori delle multinazionali svizzere la possibilità di tassarle come meglio credono.

Per ulteriori informazioni:
Dominik Gross, esperto di politica fiscale, Alliance Sud, tel. +41 78 838 40 79

Articolo, Global

New York anziché Parigi!

18.06.2023, Finanza e fiscalità

Nel 2016, l'OCSE prometteva una riforma del sistema fiscale internazionale che avrebbe tenuto conto anche degli interessi dei Paesi del Sud mondiale. Sette anni dopo, si nota chiaramente che l’OCSE ha fallito nelle sue proprie ambizioni.

Dominik Gross
Dominik Gross

Esperto in politica fiscale e finanziaria

New York anziché Parigi!

Una strada principale davanti alla sede delle Nazioni Unite a New York.
© Ed JONES / AFP / Keystone

«Affinché il denaro resti in Svizzera»: è ciò che si poteva leggere sui manifesti dei favorevoli all’introduzione dell’imposta minima dell’OCSE nel nostro Paese. Con questo semplice slogan, le associazioni di multinazionali d’economiesuisse e di SwissHoldings hanno vinto la votazione del 18 giugno, con l’aiuto benevolo dei partiti borghesi. Il Consiglio federale potrà applicare l’imposta minima a partire dal 1° gennaio 2024. Se questa genererà effettivamente introiti supplementari consistenti in Svizzera, essi serviranno a promuovere la nostra piazza economica. Così, nel nostro Paese, le entrate supplementari saranno trasferite proprio alle imprese multinazionali (IMN) che ogni anno privano altri Paesi di oltre 100 miliardi di dollari di substrato fiscale e garantiscono ai Cantoni svizzeri con una bassa tassazione, come Zugo e Basilea Città, delle abbondanti entrate d’imposte sul reddito. Il fatto stesso che una tale attuazione dell’imposta minima sia possibile lo dimostra: l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), con sede a Parigi, ha fallito nei suoi sforzi dell’ultimo decennio per rendere il sistema fiscale mondiale un po’ più equo. In ciò, nulla di troppo sorprendente. In effetti, anche se più di 140 Paesi, tra cui alcune nazioni emergenti e in via di sviluppo, hanno partecipato ai negoziati su questa «riforma», a spuntarla sono stati ancora una volta gli interessi dei Paesi ricchi del nord globale.

Parità di trattamento? Solo all’ONU!

Questa realtà ha anche a che fare con la storia del cosiddetto «quadro inclusivo» (inclusive framework), creato nel 2016 dall’OCSE. La promessa allora fu quella di voler mettere tutti i Paesi in condizioni d’uguaglianza. Ma la condizione d’adesione a questo quadro è l’adozione delle regole contro l’erosione della base d’imposta e il trasferimento degli utili (base erosion and profit shifting, BEPS) che solo i 39 Paesi membri dell’OCSE (soprattutto gli Stati ricchi del Nord mondiale) avevano elaborato negli anni precedenti. Un centinaio di Paesi in sviluppo è stato escluso dal processo. Le regole in questione sono quindi fatte su misura per le nazioni benestanti del Nord. Il prezzo dell’adesione al «quadro inclusivo» è di conseguenza elevato per le nazioni in via di sviluppo. I Paesi del Sud mondiale, che ospitano una gran parte della produzione nell’economia mondiale odierna, non beneficeranno affatto dei circa 250 miliardi d’introiti supplementari che l’OCSE s’aspetta a livello planetario grazie all’introduzione dell’imposta minima.

Bisogna quindi trovare un’alternativa ed essa sta per emergere a New York: alla fine dello scorso anno, l’Assemblea generale dell’ONU ha adottato, su iniziativa del gruppo dei Paesi africani e del G-77 (il gruppo di tutti i Paesi in sviluppo), una risoluzione che dà il via a un progetto di convenzione fiscale dell’ONU. Ad esempio, analogamente alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che definisce il ritmo e traccia l’orientamento della politica climatica mondiale dal 1992, questa convenzione creerebbe un quadro multilaterale veramente inclusivo per la politica fiscale internazionale. Un simile approccio consentirebbe di elaborare e negoziare dei principi di politica fiscale che potrebbero rimediare allo squilibrio fondamentale tra il Nord e il Sud nell’attuale sistema fiscale mondiale. Una convenzione fiscale dell’ONU permetterebbe di creare regole multilaterali per un sistema fiscale radicato a livello transnazionale e non più basato su accordi bilaterali. Certo, nel sistema attuale alcuni accordi multilaterali completano le regole iscritte nelle convenzioni bilaterali in materia di doppia imposizione (CDI), ma in fin dei conti sono queste ultime che determinano il modo in cui i Paesi si ripartiscono il substrato fiscale proveniente dai flussi finanziari transfrontalieri nell’economia mondiale. Spesso ciò avviene a scapito dei Paesi in sviluppo che, dato il loro minore potere economico, escono regolarmente perdenti nei negoziati bilaterali sulle CDI con i Paesi del Nord.  

È giunta l’ora di un’imposizione globale

Una convenzione quadro dell’ONU in materia di politica fiscale sarebbe anche la condizione preliminare all’introduzione d’una tassazione globale delle IMN. Nell’attuale sistema fiscale, le differenti società nazionali delle IMN sono trattate come delle imprese individuali. Le IMN dovrebbero quindi essere tassate in ogni Paese in funzione degli utili che realizzano in un determinato Paese. Tuttavia, ormai da decenni, i trasferimenti degli utili sono un gran problema per i Paesi con delle aliquote fiscali relativamente elevate. Tassando i loro utili non dov’è stato creato il valore aggiunto, ma dove gli utili sono più bassi, le IMN privano ogni anno numerosi Paesi di miliardi d’entrate fiscali. Una tassazione globale renderebbe obsoleti i trasferimenti degli utili, poiché le diverse società d’una IMN non sarebbero più tassate per Paese e quindi le IMN non sarebbero più incitate a contabilizzare i loro utili laddove le aliquote fiscali sono più basse. Invece di ciò, tutti gli utili di tutti i Paesi nei quali l’IMN è attiva sarebbero addizionati e il substrato dell’imposta sugli utili verrebbe attribuito a ogni nazione secondo una formula che terrebbe conto del numero di dipendenti per Paese, della cifra d’affari e dei valori fisici (ad esempio le fabbriche). In seguito ogni Paese tasserebbe questi utili secondo le proprie regole fiscali.  

L’ufficio del segretario generale dell'ONU António Guterres sta redigendo un rapporto sulla creazione di una convenzione fiscale che sarà presentata in settembre a New York, dopo la consultazione degli Stati membri dell’ONU e delle parti coinvolte. L’Alleanza globale per la giustizia fiscale (Global Alliance for Tax Justice, GATJ) e la Rete europea sul debito e lo sviluppo (Eurodad), di cui Alliance Sud è membro, sono molto coinvolte in questo processo.

La Svizzera dice no

All’Assemblea generale, la Svizzera ha votato a favore della risoluzione. Tuttavia, rispondendo a un’interpellanza del consigliere nazionale socialista e copresidente di Swissaid Fabian Molina, che s’interrogava sulla posizione del Consiglio federale sulla questione di una convenzione fiscale dell’ONU, il Consiglio federale sottolinea che sostiene «un resoconto del quadro istituzionale della cooperazione internazionale in materia fiscale» in seno all’ONU, ma rifiuta la creazione d’una convenzione fiscale delle stesse Nazioni Unite. Sembra dunque convinto di saper meglio dei Paesi in sviluppo quale sia la miglior cosa per loro. Così, in un vecchio stile coloniale-paternalistico, scrive: «Il Consiglio federale, d’altra parte, giudica discutibile l’utilità d’una convenzione fiscale delle Nazioni Unite per difendere la posizione dei Paesi in sviluppo».

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La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Finanze pubbliche

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La Svizzera, nel confronto internazionale, ha un indebitamento pubblico estremamente basso. Deve quindi approfittare della sua eccellente situa-zione finanziaria per cofinanziare in modo sostanziale una vasta trasfor-mazione equa ed ecologica, sia in Svizzera che all’estero. 

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Il freno all’indebitamento è entrato in vigore in Svizzera nel 2003: oggi è organizzato molto rigorosamente e viene applicato in maniera ancor più estrema. Ciò ha portato automaticamente a una riduzione del debito, sebbene la Svizzera presentasse già da tempo, in confronto alla situazione internazionale, un indebitamento pubblico basso.

La politica di risparmio elvetica, fine a sé stessa, fa sì che il margine di manovra finanziario della Confederazione negli investimenti a favore dello sviluppo sostenibile rimanga inutilmente limitato. Inoltre, questa politica mette costantemente sotto pressione il budget per la cooperazione internazionale (CI) dato che, con l’agricoltura, l’esercito e determinati ambiti della cultura, la CI è una delle poche spese non vincolate nel budget della Confederazione.

Le possibilità d’influenzare la politica finanziaria del Parlamento, a predominanza borghese, sono perciò grandi. In tempi caratterizzati da molteplici crisi, questa politica finanziaria non è più adatta. La politica finanziaria elvetica ha bisogno d’un cambio di paradigma, che liberi le risorse finanziarie necessarie per far fronte alle immense sfide sociali, sia in patria che all’estero. 

Finanza sostenibile

Finanza sostenibile

Alliance Sud s’impegna affinché la piazza finanziaria elvetica contribuisca in modo coerente ed effettivo al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU e per far sì che le attività commerciali del nostro Paese siano conciliabili con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima.

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L’Accordo di Parigi sul clima obbliga le nazioni a conciliare i flussi finanziari con uno sviluppo che presenti delle scarse emissioni di gas a effetto serra e che resista al cambiamento climatico. Degli obiettivi analoghi sono previsti a livello internazionale anche nell’ambito della biodiversità.

La Svizzera è il centro più importante al mondo per la gestione di valori patrimoniali transfrontalieri e dispone di un settore assicurativo che copre i rischi globali. Di conseguenza ha una grande responsabilità nel far sì che i flussi finanziari siano conciliabili con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile e di protezione del clima e che non favoriscano il greenwashing.

Sdebitamento

Sdebitamento

Da alcuni anni l’indebitamento dei Paesi del Sud globale è nuovamente tornato a crescere. La crisi climatica, la guerra e le conseguenze economiche della pandemia aggravano il problema. I creditori svizzeri devono partecipare attivamente al processo di sdebitamento. 

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Il sovraindebitamento di molti Paesi del Sud globale rappresenta un grande ostacolo per finanziare nuovi investimenti a favore della crescita. Il denaro che essi devono utilizzare per il servizio del debito a favore dei loro creditori al Nord manca poi per coprire le necessarie ed urgenti spese per lo sviluppo.

In Svizzera le banche e i commercianti di materie prime agiscono come creditori. Dato il ruolo della Svizzera come sede d’importanti creditori privati non basta, nel suo caso, partecipare con modesti contributi ai programmi di riduzione del debito dell’FMI (Fondo Monetario Interna-zionale) o della Banca mondiale. Per di più, in quest’ambito, regna pochis-sima trasparenza: non si sa esattamente né dove, né quali banche e commercianti di materie prime abbiano accordato crediti o sottoscritto obbligazioni e nemmeno se ne conosce il valore.

Alliance Sud vuole più chiarezza in questo settore e una Confederazione attiva, che induca i creditori privati in Svizzera a partecipare a consistenti programmi di sdebitamento per le nazioni del Sud. 

Imposizione delle imprese

Imposizione delle imprese

A livello planetario, la Svizzera è una delle più importanti sedi per le multinazionali e grazie alla sua imposta sugli utili molto bassa è anche una meta prediletta per i trasferimenti dei profitti. 

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Le multinazionali svizzere trasferiscono annualmente utili pari a oltre 100 miliardi di dollari nel nostro Paese, a bassa imposizione. Nei cantoni di Zugo, Basilea Città, Vaud o Ginevra aumentano così le entrate fiscali. Nei Paesi che non possono permettersi di promuovere un’evasione fiscale aggressiva, esse decrescono drammaticamente. I profitti non vengono tassati dove sono stati generati, bensì dove le multinazionali pagano meno imposte.

Dal 2016, la Svizzera ha rivisto più volte la sua legge sull’imposizione delle imprese. Le possibilità di trasferimento degli utili da parte delle multinazionali sono però state a malapena limitate. Esse privano soprattutto i Paesi del Sud globale d’un importante substrato fiscale. Alliance Sud s’impegna affinché quest’evasione fiscale venga arginata, grazie a una maggior trasparenza e a una miglior cooperazione, specialmente con i Paesi del Sud. 

Piazza finanziaria svizzera

Piazza finanziaria svizzera

Malgrado tutte le riforme degli ultimi 15 anni, la piazza finanziaria svizzera continua ad essere un nascondiglio privilegiato per evasori, riciclatori di denaro e persone corrotte di tutto il mondo. Alliance Sud s’impegna per dare finalmente una svolta a questa tendenza. 

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Di cosa si tratta

Nel 2017 la Svizzera ha introdotto lo scambio automatico internazionale d’informazioni relative ai dati dei clienti bancari (SAI); nel frattempo il nostro Paese li gestisce con oltre 100 Stati. Spesso ciò viene interpretato dall’opinione pubblica elvetica come un’abolizione del segreto bancario svizzero. In realtà, l’introduzione del SAI è un passo importante per identificare meglio le persone facoltose che evadono il fisco con l’aiuto delle banche in Svizzera e di altri intermediari finanziari.

Tuttavia, il SAI non ha segnato la fine del segreto bancario che, come in passato, resta ancorato e immutato nelle relative leggi. Inoltre, molti Paesi del Sud globale non beneficiano ancora di questo scambio di dati con la Svizzera. Dato che il segreto bancario nel territorio nazionale resta inviolato, i clienti stranieri delle banche svizzere sono fortemente incentivati a spostare il loro domicilio in Svizzera per eludere il SAI con i loro Paesi d’origine. Alliance Sud lavora per favorire delle riforme che permettano di modificare questa situazione. 

Finanza e fiscalità

Finanza e fiscalità

Alliance Sud s’impegna affinché la Svizzera, in quanto piazza finanziaria globale e sede di molte imprese multinazionali, pratichi una politica finanziaria e fiscale equa. Essa non deve andare a scapito dei Paesi del Sud e deve sostenere uno sviluppo sostenibile mondiale.

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Finanza sostenibile

Di cosa si tratta

Malgrado tutte le riforme degli ultimi 15 anni, la Svizzera è ancora la più grande piazza finanziaria offshore del mondo: un quarto dei capitali transfrontalieri viene gestito da banche in Svizzera. Il nostro Paese è anche una delle più importanti sedi per le multinazionali, nonché il polo commerciale dominante per le materie prime.

Ciò implica una grande responsabilità globale della Svizzera in quanto piazza economica. La Svizzera dispone quindi di un certo potere per contribuire a condurre il mondo lungo un percorso orientato allo sviluppo sostenibile ed equo. Alliance Sud s’impegna affinché la politica elvetica crei le basi legali per utilizzare anche queste facoltà nel modo giusto.

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