Sahel

“È meglio rimanere impegnati”

25.03.2025, Cooperazione internazionale

Ibrahim Maïga è esperto di Sahel presso l’International Crisis Group. Gli abbiamo chiesto cosa implicano i recenti colpi di Stato in Mali, Burkina Faso e Niger per la democrazia nella regione del Sahel e per la cooperazione allo sviluppo della Svizzera.

Isolda Agazzi
Isolda Agazzi

Esperta in politica commerciale e d’investimento, portavoce per la Svizzera romanda

“È meglio rimanere impegnati”

Lavori di protezione sulla Grande moschea di Djenné, Mali.

© Keystone / AP / Moustapha Diallo

 

Perché sono ripresi i colpi di Stato nel Sahel?

I militari sono tornati al potere nei tre Paesi già teatro di sconvolgimenti tra il 2010 e il 2014: Mali, Burkina Faso e Niger. A differenza di altri Paesi africani, che sono stati risparmiati da disordini politici a partire dagli anni ’90, questi eventi non risalgono a un passato così lontano. Inoltre, considerando le condizioni sul fronte della sicurezza e della politica, il terreno era fertile per l’intervento dei militari in veste di salvatori. La situazione in Mali e Burkina Faso si è costantemente deteriorata negli ultimi dieci anni, nonostante la presenza di un ampio dispositivo di stabilizzazione internazionale composto da truppe ONU, operazioni militari francesi e missioni di formazione dell’Unione Europea. Ciò ha portato a una duplice disillusione. Da un lato, quella delle forze armate nei confronti degli attori politici, poiché gli ingenti investimenti accordati dai regimi civili per migliorare le capacità delle forze di sicurezza non sono bastati per contenere l’insicurezza. Dall’altro lato, la disillusione della popolazione nei confronti delle élite al potere, percepite come corrotte dopo la rivelazione di diversi casi di malversazione, in un contesto caratterizzato da condizioni socio-economiche difficili.

Considerando l’importante movimento di democratizzazione che ha vissuto l’Africa occidentale all’inizio degli anni ’90, non sorprende il sostegno della popolazione a questi regimi militari?

In effetti, il contrasto tra l’euforia democratica di trent’anni fa e il sostegno della popolazione all’esercito di oggi è sorprendente. Si spiega con il fatto che il modello democratico emerso all’inizio degli anni ’90 in seguito alle conferenze nazionali sovrane annaspa. Il regime che combina libertà politica e sviluppo economico non ha dato risultati. Certo, il Mali degli anni ’90 non è paragonabile al Paese di oggi, ma i progressi sono stati insufficienti. 

 

Ibrahim Maïga in einem hellblau-karierten Hemd mit dunkelblauem Sakko vor schwarzem Hintergrund.

Ibrahim Maïga

Ibrahim Maïga attualmente è il consulente principale per il Sahel presso l’International Crisis Group. In precedenza, è stato rappresentante regionale per il Sahel presso l’Istituto olandese per la democrazia multipartitica. Inoltre, ha ricoperto il ruolo di Consigliere speciale del Primo Ministro del Mali, nel quale era responsabile delle questioni inerenti alla sicurezza, alla governance e alle riforme politiche.

 

Siamo di fronte al fallimento del sistema liberale, sia dal punto di vista politico sia economico?

Sicuramente assistiamo al fallimento di un modello di governo basato sulla democrazia formale con costituzioni proclamatorie. La gestione degli affari pubblici non è stata sempre democratica e lo Stato di diritto si sta estinguendo. In questa parte dell’Africa, ci si è concentrati sulla costruzione di democrazie elettorali, a volte a scapito del consolidamento di un vero Stato di diritto. Tutto ciò solleva interrogativi sullo status democratico di questi Paesi, in particolare del Mali, che era il manifesto della democrazia in Africa occidentale (insieme a Senegal e Ghana) fino alla sua caduta nel 2012 (primo colpo di Stato). 

 

Non credo che la popolazione rifiuti totalmente il modello democratico: nei dibattiti e nelle interviste si torna sempre su questo punto.

Significa che la popolazione non crede più nella democrazia?

Non credo che rifiuti totalmente il modello democratico: nei dibattiti e nelle interviste si torna sempre su questo punto. Ma il modo in cui si fa democrazia, con un partito al potere che abusa dei fondi pubblici, non è più accettato. Invece, alla maggioranza delle persone sta a cuore il principio della libertà di espressione e di scelta sovrana del popolo. Questo spiega perché, nonostante l’attuale fase di transizione, la costituzione adottata in Mali nel 2023 sancisce la democrazia come modello di acquisizione e gestione del potere.

Eppure le elezioni sono state rinviate a tempo indeterminato...

Assolutamente. Mancano trasparenza e chiarezza riguardo alle tempistiche di queste transizioni, tranne forse in Burkina Faso dove il periodo di transizione dovrebbe terminare nel 2027. Tra il 2000 e il 2020, i colpi di Stato in questi Paesi sono stati seguiti da transizioni democratiche di breve durata. In Mali si è trattato di 16 mesi, in Burkina Faso di 14 mesi e in Niger di 15 mesi. Oggi, queste transizioni pretendono di essere “transizioni di riforma”: mirano a riesaminare l’intera governance e la gestione “democratica” del Paese per identificare cosa ha funzionato e cosa no. Non è un esercizio inutile, ma i regimi potrebbero finire disorientati, con tutte le potenziali insidie che una permanenza prolungata al potere può comportare.

Le popolazioni sostengono queste transizioni?

In linea di principio, sì, sono entusiaste perché c’è una vera e propria voglia di cambiamento. Nel 2020 ho partecipato alle consultazioni nazionali in Mali e i dibattiti erano vivaci, c’era un reale desiderio di affrontare le cause del problema. Si era convinti del fatto che un’autorità di transizione, libera da certi vincoli politici e limitata nel tempo, potesse intraprendere riforme, a differenza di un governo eletto che rischia di farsi influenzare dalle agende a volte contraddittorie e a breve termine dei suoi deputati. Nella pratica, si è rivelato tutto più difficile e complesso.

Ci si aspettava che l’esercito rafforzasse la sicurezza, ma sembra che la situazione stia peggiorando.

È migliorata in alcuni punti e peggiorata in altri. Il numero di incidenti è aumentato anche in seguito al moltiplicarsi delle operazioni delle forze armate. Ora dispongono di attrezzature moderne che prima non avevano, grazie anche ai partenariati con Russia, Cina e Turchia, quest’ultima fornitrice esclusiva di droni. Tali partenariati sembrano soddisfare una buona parte degli ufficiali e i regimi al potere, poiché le consegne non sono soggette a condizioni specifiche in termini di governance e diritti umani. Ne risultano eserciti meglio equipaggiati e più efficienti, ma ciò comporta anche un’altra realtà: l’aumento della violenza contro i civili e un rischio più elevato che vi siano vittime collaterali a causa del ricorso ai droni.

L’aumento dei bilanci per l’esercito e i tagli alla cooperazione nei Paesi del Nord non stanno forse portando a un declino dello sviluppo?

I regimi militari hanno creato enormi aspettative nei confronti dello Stato, aspettative che in alcuni luoghi erano scomparse. Sono alimentate da un discorso sovranista che enfatizza il ruolo primario dello Stato nella costruzione di strade, di infrastrutture e nella fornitura di energia. Questo discorso tende a far credere che gli Stati siano in grado di affrontare da soli tali esigenze, nonostante abbiano meno risorse a causa della situazione politica e dei tagli alla cooperazione allo sviluppo da parte dei Paesi del Nord e delle istituzioni finanziarie internazionali. Ma la realtà è un’altra. In Mali, ad esempio, l’elettricità rappresenta una sfida enorme da due anni a questa parte. Le interruzioni di corrente sono all’ordine del giorno e senza energia l’economia non avanza. Il potenziamento della sicurezza ha fatto sì che venissero relegate in un cassetto alcune sfide nell’ambito dell’istruzione, della salute e persino dell’economia.  

Un Paese piccolo come la Svizzera ha ancora un ruolo da svolgere nella cooperazione allo sviluppo?

La Svizzera è un Paese piccolo, ma vanta una tradizione piuttosto lunga di sostegno alle iniziative locali. Gode ancora di buona reputazione, il che non si può dire di altri Paesi il cui modello di cooperazione è messo in discussione. Questa buona reputazione e la storia della cooperazione svizzera allo sviluppo permettono di promuovere progetti di accesso all’acqua e all’energia e di sostenere il buon governo e la decentralizzazione, che hanno un impatto diretto sulla vita della popolazione. Anche i suoi legami con attori diversi dallo Stato (organizzazioni della società civile, organizzazioni che promuovono i giovani e le donne) sono un vantaggio, anche se non sono specifici della Svizzera. Tutto ciò legittima la sua presenza nella regione.

Tuttavia, come tutti gli attori, la Svizzera si trova di fronte a un cambiamento piuttosto significativo: siamo passati da una regione con un importante dispositivo internazionale di stabilizzazione – una forte presenza dell’ONU, dell’Unione Africana e di altri partner, in particolare la Francia – a un ambiente in cui gli Stati sono tornati a essere leader. All’inizio si pensava di poterli evitare e di lavorare solo con le organizzazioni della società civile e le organizzazioni non governative, invece restano impossibili da aggirare. Hanno ripreso le redini.

I donatori occidentali come la Svizzera hanno un ruolo da svolgere in questa narrazione e devono continuare a sostenere lo sviluppo.

Significa che i donatori stranieri devono lavorare con dei regimi non democratici?

È un dilemma delicato. Comunque la situazione non migliorerà senza Stati efficaci. Sono già state avviate collaborazioni con i regimi militari, sebbene su scala ridotta e su questioni tecniche. La domanda piuttosto è fino a che punto debba spingersi la collaborazione. I donatori occidentali come la Svizzera hanno un ruolo da svolgere in questa narrazione e devono continuare a sostenere lo sviluppo. È meglio rimanere impegnati e cogliere le opportunità e le occasioni che si presentano. Forse stiamo assistendo a un passaggio da una politica estera piuttosto difficile a una realpolitik in cui i regimi si rendono conto di aver bisogno di Paesi come la Svizzera, con una lunga tradizione nel superare sfide che non hanno a che fare con la sicurezza. Occorre giocare la carta del lungo termine e restare vicini alle popolazioni, perché la loro memoria è più lunga di quella delle istituzioni. Tanto più che il mancato impegno ha anche un costo: quello di essere spodestati da concorrenti strategici.

Come vede le relazioni con Cina, Turchia e Russia nel lungo periodo?

Si parla di nuovi alleati, ma in realtà non sono poi così nuovi. Questi Paesi hanno relazioni di lunga data con il Sahel; l’Unione Sovietica, ad esempio, fin dalle indipendenze. Anche la Cina, considerato il suo interesse per le terre rare o i suoi investimenti nel petrolio in Niger e nello zucchero in Mali, ha un interesse che non diminuirà. La Turchia ha nuove ambizioni che non si limitano alla vendita di droni alle forze armate. A Niamey il nuovo aeroporto e l’hotel Radisson sono stati costruiti dai turchi negli ultimi dieci anni. Questi progetti s’inscrivono in una prospettiva a lungo termine che probabilmente verrà portata avanti, ma per il momento i «nuovi» attori non sono impegnati negli stessi ambiti dell’Occidente, a partire dagli aiuti allo sviluppo. Si tratta prima di tutto di affari militari.

 

Intervista pubblicata da La Regione il 19 aprile 2025.

 

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