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Dalla policrisi alla crisi esistenziale
09.12.2025, Cooperazione internazionale
Mentre il mondo affronta molteplici crisi che richiedono urgentemente soluzioni globali, la maggior parte dei Paesi – primo fra tutti gli Stati Uniti – sta operando massicci tagli ai propri fondi per la cooperazione internazionale, ponendo l’intero settore di fronte a una crisi esistenziale.
Rifugiati in fuga dalle zone di conflitto nella Repubblica democratica del Congo davanti alle ultime forniture di aiuti americani in Burundi.
© Keystone/AFP/Luis Tato
Pur se non sempre perfetta, e benché sia spesso stata guidata da interessi nazionali, la cooperazione internazionale (CI) ha permesso di compiere progressi ragguardevoli sia a livello multilaterale, sia a livello bilaterale. Con l’ONU, nel dopoguerra fu creata un’istituzione in cui tutti i Paesi potessero discutere su un piano di parità e trovare soluzioni a problemi comuni. Grazie a diverse agenzie specializzate, l’ONU si dedica a tutte le aree problematiche globali; con accordi internazionali come l’Accordo di Parigi sul clima o gli Obiettivi di sviluppo sostenibile sono stati creati quadri comuni per affrontare i problemi urgenti dell’umanità.
Nata nel contesto della decolonizzazione e inizialmente strettamente legata alla geopolitica della Guerra Fredda, la cooperazione allo sviluppo bilaterale e intergovernativa si è trasformata sempre di più nel corso degli anni: meno top-down, più diversificata e radicata a livello locale. Ha portato a miglioramenti sostanziali per esempio nei settori della salute, della mortalità materna e dell’istruzione, e ha permesso di affermare maggiormente questioni come i diritti umani, l’uguaglianza di genere e la democratizzazione in tutto il mondo.
Naturalmente, sia la cooperazione multilaterale sia quella bilaterale mostrano da tempo segni di declino (come la crescente frammentazione e burocratizzazione). Non si sono mai nemmeno svincolate dal dominio dell’Occidente, ma s’iscrivono in un sistema di valori mondiale basato sulla pace, sui diritti umani universali, sulla solidarietà internazionale e sulla giustizia globale. Sono proprio questi valori, e con essi le varie conquiste della CI, a essere oggi minacciati.
La cooperazione internazionale in crisi
Con l’aggravarsi della policrisi globale, sempre più Paesi si trincerano dietro ai propri interessi nazionali (a brevissimo termine), si riarmano e riducono drasticamente le risorse destinate alla cooperazione internazionale. Inoltre, i fondi che in realtà dovrebbero servire alla riduzione della povertà sono da anni oggetto di una progressiva ridistribuzione, che si manifesta in vari modi:
• Mentre la maggior parte dei Paesi donatori dell’OCSE resta lontana dal raggiungere l’obiettivo delle Nazioni Unite di destinare lo 0,7% del reddito nazionale lordo (RNL) alla CI, una quota sempre maggiore dei «fondi per lo sviluppo» non lascia mai il Paese. Infatti le spese per l’alloggio dei rifugiati nel Paese di accoglienza, secondo la regolamentazione del Comitato per l’aiuto allo sviluppo dell’OCSE (OCSE-DAC), possono essere conteggiate come aiuto pubblico allo sviluppo (APS) e costituiscono una parte sempre più consistente dell’APS. La quota è passata dal 6,9% nel 2021 al 13,1% nel 2024.
• Dallo scoppio della guerra in Ucraina stiamo assistendo a un massiccio spostamento di fondi dai Paesi più poveri verso l’Ucraina. Nel 2021 la quota di tali fondi sul totale dell’APS era dello 0,5%, nel 2024 del 7,4%.
• Sempre più fondi stanno affluendo in vari strumenti del settore privato (compreso l’aiuto vincolato, tied aid), di cui beneficiano soprattutto i Paesi a medio reddito.
Nel contesto della crescente ascesa dei movimenti populisti di destra, che hanno raggiunto un picco con il secondo mandato di Donald Trump, la crisi attuale sembra essere più che un deterioramento finanziario passeggero. Si tratta di un punto di svolta per quanto concerne gli obiettivi politici, l’orientamento ai valori e le basi istituzionali della CI. Il principio secondo cui i Paesi più ricchi dovrebbero sostenere i Paesi più poveri nei loro sforzi di sviluppo è fondamentalmente messo in discussione. La cooperazione internazionale incentrata sui valori comuni, la riduzione della povertà e il multilateralismo sta progressivamente cedendo il passo a un paradigma basato sugli interessi economici, nazionali e di politica di sicurezza.
Che dire allora del «Sud globale»?
Così come l’«Occidente» in quanto entità si sta trasformando sempre più in finzione, il «Sud globale» lo è già da tempo. La Cina, che nel sistema dell’ONU è ancora considerata per molti versi un «Paese in via di sviluppo», è in realtà tra i maggiori attori nella cooperazione internazionale. Lo stesso si potrebbe dire degli Stati del Golfo e della Turchia; Paesi come l’India e il Brasile sono beneficiari e donatori al tempo stesso. La crescente rilevanza dei Paesi donatori non tradizionali si riflette anche in tutta una serie di nuovi organismi multilaterali (come la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture AIIB o la Nuova Banca di Sviluppo NDB) che, a differenza di molti organismi «tradizionali» come la Banca mondiale o l’FMI, non sono dominati dall’Occidente.
Non sorprende quindi che molti dei Paesi tra i più poveri, schiacciati da un sistema finanziario ed economico globale ingiusto e dominato dagli interessi occidentali, si stiano sempre più allontanando dall’Occidente e preferiscano cooperare con altri Paesi donatori come la Cina o la Russia. E se il collasso della cooperazione internazionale potrebbe fare milioni di vittime, è anche vero che diversi capi di Stato africani hanno affermato che uno sconvolgimento era «atteso da tempo» (presidente Hichilema, Zambia) e dovrebbe essere considerato un segnale che invita a fare maggiore affidamento sulle proprie risorse (presidente Mahama, Ghana). Anche la società civile nel cosiddetto Sud globale chiede a voce sempre più alta riforme della CI e condizioni quadro più eque che permettano ai Paesi più poveri di impiegare le proprie risorse per il proprio sviluppo.
Vino vecchio in otri nuovi?
Le esperte e gli esperti concordano sul fatto che lo smantellamento di USAID ha dato il via a una nuova era nella cooperazione internazionale. Tuttavia, le opinioni riguardo alle soluzioni proposte per la crisi attuale divergono. Mentre la maggior parte delle agenzie di sviluppo europee si focalizza sempre più sulla «mobilitazione del settore privato», nelle reti della società civile internazionale si discute di riforme strutturali ben più fondamentali.
In effetti, nonostante tutti i successi della cooperazione internazionale, occorrono davvero riforme per far fronte alla crescente frammentazione e burocratizzazione, ma anche in termini di localizzazione e decolonizzazione della CI. La crisi attuale della CI dovrebbe quindi essere sfruttata per ripensare e riorganizzare le strutture esistenti.
Mentre il numero di attori dello sviluppo ufficiali è più che raddoppiato tra il 2000 e il 2020 (da circa 212 a 544), il volume finanziario delle singole transazioni è nettamente diminuito. Oggi molti Paesi beneficiari sono in contatto con oltre 150 diverse agenzie diverse, la maggior parte delle quali ha i propri requisiti amministrativi invece di orientarsi ai sistemi dei Paesi beneficiari. In questo ambito è urgentemente necessario migliorare la cooperazione tra tutte le parti e assicurarsi che tutti gli attori dello sviluppo si adattino sistematicamente alle esigenze e ai sistemi amministrativi dei Paesi beneficiari (country ownership).
Inoltre, deve essere dato ascolto agli appelli sempre più insistenti alla decolonizzazione e localizzazione della cooperazione internazionale. Ciò significa mettere in atto le riforme urgentemente necessarie degli organismi multilaterali come l’FMI, la Banca mondiale, il Comitato per l’aiuto allo sviluppo dell’OCSE o il Consiglio di sicurezza dell’ONU, al fine di rafforzare la voce dei «Paesi in via di sviluppo». Non solo, ma urgono anche riforme della cooperazione bilaterale allo sviluppo in materia di localizzazione. Occorre perciò che vengano eliminati i complicati requisiti burocratici che ostacolano l’accesso ai fondi e l’attuazione di progetti e programmi in modo semplice ed efficiente da parte degli attori dello sviluppo locale. Al contempo serve una riflessione mirata e la riduzione sistematica degli squilibri di potere nelle strutture decisionali e di attuazione dei singoli attori.
Si devono tessere relazioni Nord-Sud eque
Le spese per la cooperazione internazionale costituiscono solo uno dei numerosi flussi finanziari mondiali. Secondo l’UNCTAD l’Africa perde ogni anno 89 miliardi di dollari a causa di flussi finanziari illeciti, il doppio di quanto beneficia complessivamente grazie alla CI. In questo contesto, giocano un ruolo centrale l’evasione fiscale e il settore delle materie prime. Tale situazione ha conseguenze drastiche per i Paesi più poveri, poiché il deflusso di fondi li priva della sostanza fiscale necessaria per finanziare i sistemi di istruzione e sanitari. Allo stesso tempo, molti Paesi poveri sono fortemente indebitati. Sempre secondo l’UNCTAD, 61 Paesi in via di sviluppo (secondo la classificazione dell’ONU) spendono attualmente più del 10% delle loro entrate pubbliche per il servizio del debito. In alcuni Stati la percentuale raggiunge il 30-40%, molto più di quanto spendano per la salute e l’istruzione.
Per ridurre la povertà e la fame nel mondo non basta la cooperazione internazionale. Occorre anche una politica estera, economica e finanziaria equa, che garantisca che i Paesi ricchi non vivano più a spese dei Paesi poveri.
La cooperazione internazionale sta mutando radicalmente, sia a livello mondiale sia in Svizzera. Anche se alcune istituzioni chiave continuano a evitare riforme strutturali profonde e preferiscono delegare le responsabilità al settore privato, risuonano sempre più appelli a favore di una nuova cooperazione internazionale, realmente basata sui valori e su un piano di parità. Una cooperazione internazionale che s’inscriva in una politica estera, economica e finanziaria più ampia e riformata. Alla luce delle crisi globali sempre più acute e dell’ascesa della destra politica, oggi appare più importante che mai che si formi una società civile nazionale e coordinata a livello mondiale che si opponga risolutamente a queste tendenze con un chiaro impegno a favore della democrazia, dei diritti umani e della cooperazione internazionale.