Comunicato stampa

COP30: bilancio modesto a Belém

22.11.2025, Giustizia climatica

Dopo un'aspra lotta per ottenere progressi in materia di giustizia sociale e di abbandono equo delle energie fossili, la COP30 si conclude a Belém con un risultato contrastante. La Svizzera si è impegnata a perseguire obiettivi ambiziosi, ma è in ritardo sia nella protezione del clima sul proprio territorio, sia nel finanziamento della lotta ai cambiamenti climatici all'estero.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

+41 31 390 93 42 delia.berner@alliancesud.ch
COP30: bilancio modesto a Belém

© Alliance Sud

Per quanto riguarda l'abbandono delle energie fossili, il risultato è deludente e riflette la difficile situazione mondiale con il rafforzamento dei sostenitori delle fonti energetiche fossili. Uno svantaggio decisivo per concordare piani di abbandono più ambiziosi è ancora l'enorme deficit di finanziamento nel Sud globale. Ciò è legato all'ingiustizia che il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile del 48% delle emissioni, mentre la metà più povera ne produce solo il 12%, ma è la più colpita dalla crisi climatica.

Grazie anche al grande impegno di molti paesi del Sud del mondo e della società civile, alla COP30 è stato possibile concordare un meccanismo di «transizione giusta» volto a garantire la giustizia sociale nelle misure di protezione del clima. Si tratta di un elemento importante per rendere le misure di protezione del clima socialmente eque nei prossimi anni. Il meccanismo mira a sostenere i lavoratori, le comunità e i paesi nei loro sforzi, ad esempio migliorando la cooperazione internazionale e lo scambio di conoscenze.

Delia Berner, esperta di politica climatica internazionale presso Alliance Sud, afferma:

•    «Non basta impegnarsi una volta all'anno alla COP per l'abbandono delle energie fossili. Il Consiglio federale deve dare priorità alla protezione del clima tutto l'anno: nella decarbonizzazione della Svizzera, ma anche nei numerosi contatti diplomatici con i grandi produttori di emissioni».

•   «L'accordo contiene la chiara aspettativa di triplicare il sostegno ai paesi del Sud del mondo per l'adattamento ai cambiamenti climatici. A tal fine, la Svizzera deve impiegare più fondi pubblici: la Svizzera dovrebbe riservare con urgenza importi adeguati dai proventi del sistema di scambio delle quote di emissione».

Bettina Dürr, esperta di clima di Azione Quaresimale e osservatrice sul posto:

•    «La COP30 non è riuscita a concretizzare l'attuazione dell'obiettivo di finanziamento per il clima di Baku – 300 miliardi di dollari all'anno entro il 2035. I paesi industrializzati non hanno un piano per aumentare i finanziamenti internazionali per il clima, nonostante siano responsabili di farlo secondo l'Accordo di Parigi».

•    «La Svizzera nutre grandi ambizioni in materia di protezione del clima, ma ogni anno ignora il fatto che ciò richiede anche risorse finanziarie. Il Consiglio federale si è recato a Belém senza aver deciso come attuare in Svizzera l'obiettivo finanziario di Baku. Chiediamo che la Svizzera contribuisca con almeno l'1% dei 300 miliardi di dollari all'anno».

David Knecht, specialista in giustizia climatica di Azione Quaresimale e osservatore sul posto:

•     «Le misure di protezione del clima devono mettere al centro le persone. La COP30 ci avvicina a questo obiettivo con il «Just Transition Mechanism». Dobbiamo festeggiare! Allo stesso tempo, la comunità internazionale non è riuscita a colmare il divario evidente tra l'obiettivo dell'Accordo di Parigi e le ambizioni climatiche dei Paesi. La COP30 non fornisce un piano completo su come i Paesi possano accelerare misure di protezione del clima socialmente eque e finanziate. Così si spreca tempo prezioso».

•    «La Svizzera deve ora promuovere ancora di più l'attuazione a livello nazionale per dare segnali positivi nei prossimi negoziati. Ciò significa anche che la Svizzera non deve fare affidamento sulle compensazioni estere per la riduzione delle emissioni nazionali. Dobbiamo sfruttare urgentemente il potenziale di riduzione a livello nazionale per promuovere la protezione del clima».


Per ulteriori informazioni:

Alliance Sud, Delia Berner, esperta di politica climatica internazionale, tel. +41 77 432 57 46 (tramite WhatsApp), delia.berner@alliancesud.ch
 

Alliance Sud, Marco Fähndrich, responsabile dei media, tel. 079 374 59 73, marco.faehndrich@alliancesud.ch 
 

Azione Quaresimale, Bettina Dürr, specialista in giustizia climatica, tel. +41 79 745 43 53 (tramite Signal, WhatsApp o Threema), duerr@fastenaktion.ch  
 

Azione Quaresimale, David Knecht, specialista in giustizia climatica, tel. +41 76 436 59 86 (tramite Signal o WhatsApp), knecht@fastenaktion.ch  
 

Comunicato stampa

COP30: la Svizzera deve accelerare la protezione del clima invece di delocalizzarla

06.11.2025, Giustizia climatica

La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici COP30 inizierà a Belém il 10 novembre. I nuovi piani climatici della comunità degli Stati evidenziano che, a dieci anni dalla firma dell’Accordo di Parigi, gli sforzi globali a tutela del clima e il sostegno finanziario ai Paesi più poveri sono ancora insufficienti. Anche la Svizzera deve fare molto di più a livello nazionale per consentire una transizione energetica più rapida, equa e socialmente responsabile.

Marco Fähndrich
Marco Fähndrich

Responsabile della comunicazione e dei media

+41 31 390 93 34 marco.faehndrich@alliancesud.ch
COP30: la Svizzera deve accelerare la protezione del clima invece di delocalizzarla

Conferenza a due passi dalla catastrofe: nei dintorni della COP30, le foreste pluviali, i territori indigeni e le località costiere subiscono pesantemente la crisi climatica. Manifesto pubblicitario per la conferenza sul clima a Belém, in Brasile.
© Keystone/AP Photo/Jorge Saenz

Il mondo scientifico parla chiaro: non siamo a buon punto. I nuovi obiettivi climatici nazionali presentati dagli Stati membri ancora una volta non sono sufficienti a limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius. «La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in Brasile deve quindi inviare un chiaro messaggio sul fatto che la comunità internazionale è pronta a invertire la rotta. A tale scopo è necessario un abbandono rapido ed equo dei combustibili fossili», afferma Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud.

Abbandono rapido dei combustibili fossili perché occorre contenere il riscaldamento globale e prevenire conseguenze e danni ancora peggiori. Transizione energetica equa perché solo così può funzionare in modo sostenibile. «Per chiudere le centrali elettriche a carbone è necessario coinvolgere le parti sociali tanto quanto è necessario collaborare con le comunità indigene per proteggere le foreste pluviali», sostiene Andreas Missbach. «Il sistema economico e finanziario deve essere inoltre più equo, in modo che più Paesi possano permettersi di investire nelle infrastrutture di cui hanno bisogno». In inglese per questo concetto si è affermato il termine just transition (transizione giusta).

Richieste di Alliance Sud

-    La Svizzera deve impegnarsi affinché alla COP30 venga adottato un piano di accelerazione delle misure a protezione del clima. Deve adoperarsi affinché sia richiesto che tutti i Paesi rafforzino i piani climatici presentati quest’anno, in modo che gli sforzi globali siano sufficienti. 
-    La Svizzera deve porsi obiettivi più elevati e adottare le misure necessarie per raggiungerli.
-    La Svizzera deve impegnarsi a favore di una maggiore chiarezza riguardo ai modi in cui dovranno essere raggiunti gli obiettivi di finanziamento concordati alla COP29. Per contribuire equamente al finanziamento internazionale a tutela del clima la Svizzera deve stanziare tre miliardi di dollari all’anno entro il 2030. 
-    Alla COP30, la Svizzera deve inoltre sostenere un meccanismo forte (Belém Action Mechanism) per garantire che i piani e le misure climatiche siano giusti e socialmente responsabili.

Lo scambio di CO2 non è la soluzione 

In una nuova analisi Alliance Sud e Azione Quaresimale dimostrano che la compensazione delle emissioni di CO2 all’estero non porta a una maggiore protezione del clima in generale, malgrado questa sia una delle condizioni per lo scambio di CO2 conformemente all’Accordo di Parigi. «La politica svizzera vuole risparmiare e delocalizzare gran parte della riduzione delle emissioni, invece di impiegare l’articolo 6 per una maggiore protezione del clima e per promuovere progetti trasformativi a livello tecnologico», afferma David Knecht, responsabile del programma per la giustizia climatica di Azione Quaresimale e co-coordinatore del gruppo di lavoro «Ambition» di Climate Action Network International. In questo contesto, la politica e la società sono influenzate dalla lobby del petrolio che utilizza i fondi delle compagnie petrolifere internazionali per frenare la transizione energetica in Svizzera. Così facendo, la Svizzera agisce in direzione contraria allo scopo stesso dei meccanismi di mercato di Parigi.

--> Nota: Delia Berner, esperta in clima di Alliance Sud, è membro della delegazione negoziale ufficiale della Svizzera in qualità di rappresentante della società civile e sarà a Belém dal 10 novembre.
 

 

Per ulteriori informazioni:


Alliance Sud, Marco Fähndrich, responsabile dei media, tel. 079 374 59 73, marco.faehndrich@alliancesud.ch 
 

Azione Quaresimale, Bettina Dürr, specialista in giustizia climatica, tel. +41 79 745 43 53 (tramite Signal, WhatsApp o Threema), duerr@fastenaktion.ch  
Bettina Dürr osserverà a Belém dal 7 novembre i negoziati sul bilancio globale (Global Stocktake), la transizione giusta (Just Transition) e il finanziamento climatico.
 

Azione Quaresimale, David Knecht, specialista in giustizia climatica, tel. +41 76 436 59 86 (tramite Signal o WhatsApp), knecht@fastenaktion.ch  
David Knecht osserverà a Belém dal 7 novembre i negoziati sulla mitigazione e gli NDC nonché sui meccanismi di compensazione del CO2.

 

Cosa si aspettano dalla COP30 le nostre organizzazioni?

 

Sonja Tschirren, esperta in clima, SWISSAID
 

«Alla COP30 i sistemi alimentari saranno al centro delle discussioni. Sarà fondamentale tenere in considerazione la popolazione rurale del Sud del mondo, che necessita di un adeguato finanziamento a favore del clima da parte della Svizzera, nonché di sostegno per i danni e le perdite. Solo in questo modo la transizione verso sistemi di produzione agroecologici adattati ai cambiamenti climatici potrà riuscire. Anche le multinazionali che operano a livello locale devono essere chiamate in causa – i mercati volontari del carbonio non risolveranno il problema.»

 

 

Bettina Dürr, responsabile del programma per la giustizia climatica, Azione Quaresimale e membro del comitato direttivo dell’Alleanza climatica Svizzera:

«Alla COP28 di Dubai, i Paesi hanno deciso di affrontare la transizione energetica attraverso l’abbandono dei combustibili fossili. Nei nuovi piani climatici presentati osserviamo che l’abbandono graduale dei combustibili fossili non è ancora definito con sufficiente chiarezza. La Svizzera dovrebbe darsi una scadenza entro la quale attuare la decisione di Dubai.» 

 

Christina Aebischer, esperta in clima, Helvetas:

««Ci aspettiamo che il governo svizzero si adoperi con ogni mezzo e la dovuta credibilità per garantire il rispetto dell’Accordo di Parigi sul clima e si batta contro l’indebolimento della cooperazione multilaterale. Ci sono innumerevoli Blatten nel mondo. La nostra solidarietà nei confronti delle persone che stanno perdendo tutto a causa dei cambiamenti climatici e dei crescenti rischi naturali e che devono adattarsi alle nuove circostanze non deve fermarsi ai confini nazionali.»

 

Sarah Steinegger, responsabile Servizio Politica di sviluppo e climatica, Caritas Svizzera:

«Quale Paese tra i più ricchi, la Svizzera non può più scaricare la propria responsabilità climatica sui Paesi più poveri e sulle generazioni future: deve agire ora.»

 

Johannes Wendland, specialista in giustizia climatica, HEKS/EPER:

«Nei negoziati sul finanziamento a favore del clima non è questione di generosità, ma di responsabilità. I costi della crisi climatica devono essere sostenuti dai maggiori inquinatori e non dalle persone che hanno contribuito meno a causare il problema.»

 

Klaus Thieme, responsabile dei programmi internazionali, Solidar Suisse:

«Nel Sud globale, la crisi climatica sta aggravando la situazione di povertà e insicurezza. I working poor sono particolarmente colpiti da inondazioni, mezzi di sussistenza distrutti e condizioni di lavoro precarie. Abbiamo bisogno di posti di lavoro a prova di futuro, sostenibili e a misura d’uomo, che offrano alle persone prospettive reali. La Svizzera deve contribuire equamente affinché la protezione del clima non generi nuove disuguaglianze.»

 

Júlia Garcia, Coordinamento nazionale Brasile, terre des hommes Suisse:

«La gioventù riveste un ruolo centrale nello sviluppo di soluzioni alla crisi climatica. Ne fanno parte i giovani indigeni, perché sono i custodi delle foreste che vengono distrutte dal Nord globale. La voce di queste giovani persone deve essere ascoltata ed esaminata nei negoziati.»

 

Maritz Fegert, responsabile del programma Policy & Advocacy di Biovision:

«La COP30 di Belém offre un’importante opportunità per rafforzare l’agroecologia, un approccio che ha il potenziale per trasformare radicalmente i sistemi alimentari e l’agricoltura. Con opportuni cambiamenti nelle politiche, i sistemi alimentari possono passare dall’essere una delle principali fonti di emissioni di gas serra a diventare una soluzione efficace per la protezione del clima e l’adattamento ai cambiamenti climatici.»

Prospettiva Sud

L’Africa, continente chiave della transizione energetica

02.10.2025, Giustizia climatica

In Africa è ora di promuovere l’estrazione responsabile di materie prime per permettere al continente di beneficiare delle sue riserve di minerali di transizione, migliorare le condizioni di vita delle sue cittadine e dei suoi cittadini e ridurre al minimo le ripercussioni negative dell’attività estrattiva. Di Emmanuel Mbolela

L’Africa, continente chiave della transizione energetica

Le mine di Rubaya al centro del conflitto tra Congo e Ruanda.

© Eduardo Soteras Jalil / Panos Pictures

La transizione energetica mondiale è una conditio sine qua non nella lotta al riscaldamento climatico globale ed è la chiave per garantire un futuro energetico sostenibile alle prossime generazioni. Da anni il tema è protagonista dei dibattiti politici e pubblici sia nel Nord sia nel Sud del mondo. In questo contesto il continente africano svolge un ruolo fondamentale, trattandosi senza dubbio del più importante pozzo di assorbimento del carbonio a livello globale grazie alla sua straordinaria biodiversità. Inoltre, l’Africa è ricca di svariati minerali di transizione (rame, cobalto, litio, nichel, coltan, tantalio), indispensabili in tutto il mondo per la produzione di batterie per veicoli elettrici, lo stoccaggio di energie rinnovabili e le tecnologie innovative. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), la domanda di questi minerali aumenterà da quattro a sei volte entro il 2040.  

Cosa rappresentano queste previsioni per il continente africano stesso, che ha in serbo e fornisce tali materie prime strategiche? L’Africa continuerà ad essere spremuta delle sue materie prime oppure conoscerà un rapido sviluppo grazie al processo di transizione energetica?

L’Africa è sempre stata al centro dei grandi sconvolgimenti che hanno portato all’industrializzazione, ma pagando un caro prezzo. 

La storia si ripete

Se guardiamo al passato, noteremo che l’Africa è sempre stata al centro dei grandi sconvolgimenti che hanno portato all’industrializzazione, ma pagando un caro prezzo. All’epoca della tratta degli schiavi, africane e africani venivano rapiti con la forza e deportati in America su navi in condizioni disumane per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e cotone. Un altro capitolo oscuro è quello del caucciù, utilizzato per la produzione di gomme per automobili. L’impiego di questo materiale ha sì rivoluzionato l’industria automobilistica, ma la sua estrazione ha lasciato enormi cicatrici nei Paesi africani produttori. Indelebili nella memoria collettiva rimarranno i metodi atroci, tra mani mozzate e donne e bambini presi in ostaggio, con cui il re del Belgio, Leopoldo II, costrinse la popolazione congolese a estrarre una maggiore quantità di quest’oro bianco, solamente per arricchirsi personalmente e far prosperare il regno belga. Senza le materie prime dall’Africa, la rivoluzione industriale del XX secolo non sarebbe mai avvenuta. E che dire dell’uranio estratto nel sud della Repubblica democratica del Congo, utilizzato per realizzare la bomba atomica che pose fine alla seconda guerra mondiale? 

Ebbene, ancora oggi le risorse nel continente africano sono molto ricercate, in particolare le risorse minerarie. Lo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche e di comunicazione dipende dalle materie prime africane, soprattutto dal coltan, che viene impiegato principalmente per la fabbricazione di smartphone e laptop. Malgrado la ricchezza della sua terra, a livello di sviluppo globale paradossalmente l’Africa chiude la classifica. La sua gente è spinta a correre rischi altissimi alla ricerca dell’eldorado. A migliaia muoiono nel deserto o in alto mare, sotto lo sguardo complice e colpevole di chi avrebbe i mezzi per salvarli, ma si rifiuta di farlo con il pretesto che avrebbe un effetto calamita.

 

Emanuel Mbolela lächelt vor gelb-grünlich leuchtenden Laubbäumen in die Kamera. Er trägt ein hellviolettes Hemd und ein Pulli mit Kragen.

Emmanuel Mbolela è nato nel 1973 a Mbuji-Mayi, nel centro della Repubblica democratica del Congo. Ha studiato economia nella sua città natale, ma ha dovuto lasciare il Paese nel 2002 per motivi politici. Vive nei Paesi Bassi dal 2008. 
 

È attivista e sostenitore dei diritti fondamentali dei migranti nonché autore del libro “Rifugiato. Un’odissea africana”, Milano: Agenzia X. È il fondatore di un’associazione per i rifugiati e le comunità migranti e l’iniziatore di un rifugio di emergenza che ospita temporaneamente le donne migranti e i loro bambini.
 

L'Africa, ancora una volta, risponde presente: presentandosi quale soluzione al riscaldamento globale, in quanto pozzo di assorbimento del carbonio, nonché fornitrice di materie prime indispensabili alla transizione energetica. 

Oggi gli occhi sono nuovamente puntati sull’Africa. E l’Africa, ancora una volta, risponde presente. Come ha sempre fatto nelle svolte storiche dell’industrializzazione, presentandosi questa volta quale soluzione al riscaldamento globale, in quanto pozzo di assorbimento del carbonio, nonché fornitrice di materie prime indispensabili alla transizione energetica. 
 

Ma se le rivoluzioni industriali del passato hanno consentito lo sviluppo del Nord migliorando la qualità di vita della popolazione, in Africa non hanno lasciato che morte e distruzione. Basti pensare alla Repubblica democratica del Congo, devastata da ormai 30 anni da una guerra di spopolamento e ricolonizzazione della parte orientale del Paese, sede di enormi miniere di minerali di transizione. Questo conflitto armato, nonostante il Paese stesso non abbia un’industria d’armamento, ha già causato milioni di morti e centinaia di migliaia di persone sfollate interne e rifugiate. Le violenze sessuali su donne e bambini vengono utilizzate su larga scala come arma di guerra: la popolazione viene costretta ad abbandonare le proprie città e i propri villaggi, lasciando la propria terra, che viene immediatamente sfruttata per l’estrazione di ulteriori minerali. 
 

Mentre la domanda di minerali esplode, assistiamo a pratiche predatorie e illegali ai fini della loro estrazione: nelle miniere lavorano bambini, i conflitti armati vengono provocati in maniera mirata e vengono firmati accordi senza la minima trasparenza non solo da multinazionali, ma anche da Stati. A febbraio 2024, ad esempio, l’Unione europea ha negoziato un accordo con il Ruanda sulla commercializzazione di materie prime critiche, pur sapendo che i metalli offerti dal Ruanda sul mercato internazionale provenivano esclusivamente da saccheggi nella Repubblica democratica del Congo, con cui il Ruanda era in conflitto armato.

Cobalto proveniente da una regione nel Congo sotto il controllo di Glencore. 

© Pascal Maitre / Panos Pictures

 

ll 27 giugno a Washington, con la mediazione del governo Trump, è stato firmato un accordo di pace tra la Repubblica democratica del Congo e il Ruanda. L’accordo, preceduto da negoziati tra le autorità congolesi e americane sull’estrazione di materie prime rare, è in linea con la logica del presidente Trump di barattare la pace con minerali strategici. È il governo del business man: Trump si dice disposto a porre fine all’aggressione del confinante Ruanda contro la Repubblica democratica del Congo a condizione che quest’ultima cooperi con gli Stati Uniti nell’estrazione delle risorse. È evidente che questo accordo, di cui Donald Trump tanto si vanta, altro non è che un canale d’accesso a minerali essenziali per gli Stati Uniti.

 

Le multinazionali non sono interessate a creare posti di lavoro a lungo termine né a pratiche minerarie sostenibili.
 

 

Un accordo del genere porterà inevitabilmente a una pace senza pane e a conflitti tra le grandi potenze sul suolo africano. Tanto più che le multinazionali che potrebbero insediarsi in Congo sono guidate dal principio della massimizzazione del profitto e quindi esporterebbero le materie prime estratte per lavorarle nei rispettivi Paesi. Non sono infatti interessate a creare posti di lavoro a lungo termine né a pratiche minerarie sostenibili.
 

Con il conflitto tra le grandi potenze che sta nascendo in territorio congolese – in particolare tra Unione Europea e Stati Uniti – si potrebbe ripetere quanto accaduto in Congo-Brazzaville nel 1997. In quella situazione, il governo democraticamente eletto fu rovesciato perché il presidente Lissouba aveva firmato accordi di estrazione petrolifera con imprese americane, a scapito di quelle francesi che avevano sede nel Paese da decenni. Queste ultime non esitarono allora a riarmare l’ex presidente Sassou-Nguesso, con l’obiettivo di rovesciare Pascal Lissouba. Scoppiò una guerra che causò centinaia di migliaia di vittime e altrettante persone sfollate interne e rifugiate. In seguito fu etichettata guerra etnica.
 

Un altro esempio è il mega-progetto lanciato dagli Stati Uniti e sostenuto dall’UE per costruire un collegamento ferroviario tra la Repubblica democratica del Congo e lo Zambia fino al porto di Lobito in Angola. Il progetto, inaugurato in Angola dall’ex presidente USA Joe Biden negli ultimi giorni del suo mandato, mira ad accorciare le vie di trasporto delle materie prime. Ricorda i progetti dell’epoca coloniale, quando strade e ferrovie non venivano costruite con lo scopo di collegare tra loro e sviluppare le colonie, ma per collegare le zone o le regioni minerarie con gli oceani e i mari e facilitare così il trasporto delle materie prime alle metropoli. 

 

I giovani chiedono riforme che pongano fine al saccheggio, affinché le materie prime smettano di essere una maledizione e portino prosperità e benessere alla popolazione

 

La giovane popolazione africana, che assiste ogni giorno alla partenza di migliaia di container pieni di queste ricchezze e li vede lasciare il continente per destinazioni lontane (Europa, USA, Canada, Cina...), chiede profonde riforme. Riforme che pongano fine al saccheggio, affinché le materie prime smettano di essere una maledizione e portino prosperità e benessere alla popolazione. In particolare, i profitti derivanti dalle riserve strategiche di minerali di transizione dovrebbero essere massimizzati a beneficio dei Paesi estrattori, in modo che possano migliorare le condizioni di vita e si riduca l’impatto sociale e ambientale dell’attività estrattiva. 
 

Responsabilizzare le imprese
 

È quindi giunto il momento di estrarre dai cassetti delle Nazioni Unite le misure internazionali pertinenti, come i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, le Linee guida OCSE per le imprese multinazionali e le linee guida del gruppo di esperti del Segretario generale delle Nazioni Unite sui minerali critici per la transizione energetica. 

 

Se la transizione energetica vuole essere giusta ed equa, dovrebbe pagare chi inquina e non chi ne subisce le spese. 

 

Impegni come l’iniziativa per multinazionali responsabili in Svizzera hanno urgente bisogno di sostegno. Il successo di iniziative simili dipende anche da una sufficiente sensibilizzazione della popolazione nei confronti dei drammi umani e dei danni ambientali provocati dall’industria mineraria in Africa. Tali iniziative sostengono la società civile nei Paesi africani, la quale si impegna giorno e notte ai fini di una maggiore responsabilità sociale e ambientale delle imprese minerarie. 
 

Quando si tratta di stipulare contratti sull’estrazione mineraria, spesso manca trasparenza e le comunità locali ne rimangono all’oscuro. Qui le multinazionali del settore si trovano in una chiara posizione di potere, e ovviamente la sfruttano appieno per calpestare i diritti della popolazione ed eludere qualsiasi buona prassi. Vengono ignorate le regole fondamentali della salute pubblica e lesi i diritti della popolazione locale. Con le loro pratiche causano inquinamento atmosferico e avvelenano le acque, provocando malattie spesso sconosciute alla popolazione, mietendo così vite umane e aggravando ulteriormente la crisi della salute pubblica. 
 

La popolazione africana è ancora in attesa che i Paesi del Nord ne riconoscano il ruolo. Un ruolo, quello dell’Africa, che merita finanziamenti a favore del clima e compensazioni per gli sforzi richiesti alla popolazione in termini di tutela dell’ambiente. Se la transizione energetica vuole essere giusta ed equa, dovrebbe pagare chi inquina e non chi ne subisce le spese. 
 

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La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Comunicato stampa

L'Alleanza climatica lancia un Piano direttore per il clima: 10 anni per rimettere la Svizzera sulla retta via

03.06.2025, Giustizia climatica

In occasione del suo 20º anniversario, l’Alleanza climatica Svizzera pubblica oggi il suo terzo Piano direttore per il clima. Questo documento strategico, frutto del lavoro di espertə provenienti dalla vasta Alleanza, descrive in dettaglio come la Svizzera possa raggiungere la neutralità carbonica entro dieci anni. L’Alleanza si aspetta che il documento di lavoro annunciato dal Consiglio federale sulla futura politica climatica porti a misure concrete, non a partire dal 2031, ma fin da subito.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

+41 31 390 93 42 delia.berner@alliancesud.ch
L'Alleanza climatica lancia un Piano direttore per il clima: 10 anni per rimettere la Svizzera sulla retta via

La vasta Alleanza climatica lancia il suo Piano direttore per il clima a Berna. Delia Berner (prima a destra) rappresenta Alliance Sud. © Alleanza climatica

Comunicato stampa dell'Alleanza climatica del 3 giugno 2025. Alliance Sud è membro dell'Alleanza climatica.

 

Yvonne Winteler, co-presidente dell’Alleanza climatica, apre la conferenza stampa dedicata al lancio del Piano direttore per il clima con parole chiare: «Siamo nel pieno di una trasformazione sociale. Il problema è che questa trasformazione arriva con 20 anni di ritardo. Più aspettiamo, più si riduce il nostro budget carbonio. Ora è necessario adottare misure concrete per superare i principali ostacoli alla transizione.»

Dopo le pubblicazioni del 2006 e del 2016, l’Alleanza climatica Svizzera pubblica oggi il suo terzo Piano direttore per il clima, con l’intento di riportare l’emergenza climatica al centro delle priorità. Gli eventi meteorologici estremi si moltiplicano, la produzione agricola è sempre più vulnerabile e la sicurezza degli insediamenti alpini è sempre più minacciata. Sebbene la Svizzera si trovi già in una zona a rischio, non sfrutta appieno il proprio potenziale d’azione in quanto Paese tecnologicamente avanzato, politicamente stabile ed economicamente prospero. Invece di rafforzare in modo coerente la propria politica climatica e di attuare soluzioni ambiziose, sembra di assistere ad un progressivo ridimensionamento degli impegni.

Sulla base delle attuali conoscenze scientifiche in materia di clima, la prima parte del Piano direttore mette in evidenza il ruolo della Svizzera nell’aumento globale delle emissioni di gas a effetto serra e la sua responsabilità nel contesto mondiale.

«Stabilizzare il clima e limitare il riscaldamento a 1,5 °C è una necessità assoluta. Eppure la Svizzera, come gran parte del mondo, è gravemente in ritardo. Se tutti i Paesi seguissero il nostro attuale ritmo, il riscaldamento globale potrebbe raggiungere i 3 °C. È giunto il momento che la Svizzera colmi questo ritardo, agisca con ambizione sia sul proprio territorio che a livello internazionale, e diventi un motore globale nella lotta contro il cambiamento climatico. Questa è la nostra migliore assicurazione sulla vita.», aggiunge Georg Klingler, esperto climatico di Greenpeace Svizzera e membro del comitato dell’Alleanza climatica.

Una solida base scientifica e chiari percorsi d’azione

Durante la conferenza stampa, diecə autorə dell’ampia Alleanza hanno presentato il Piano direttore, sottolineando due messaggi fondamentali: 1° l’urgenza di agire è indiscutibile e 2° esistono già soluzioni che permettono alla Svizzera di rispettare gli impegni climatici assunti a Parigi. Con questa pubblicazione, l’Alleanza esprime anche le proprie aspettative nei confronti del prossimo documento di lavoro del Consiglio federale sulla futura politica climatica: le leve disponibili devono essere attivate in modo efficace, e questo fin da subito, non solo a partire dal 2031.

Le persone che hanno redatto il Piano direttore illustrano l’uso insufficiente delle soluzioni già esistenti e propongono l’attuazione concreta di una combinazione di strumenti vari e complementari, che coprono diversi ambiti tematici, dal trasporto terrestre al finanziamento climatico. Questi strumenti sono essenziali per superare gli ostacoli alla profonda trasformazione di cui abbiamo bisogno. Per porre fine alla nostra costosa dipendenza da carbone, petrolio e gas, è imperativo rivedere le regole del gioco attuali. L’Alleanza climatica spiega come questa trasformazione sia realistica e realizzabile nei prossimi dieci anni. Il Piano direttore dimostra inoltre che essa può essere condotta in modo socialmente equo, in modo da non gravare in modo sproporzionato sulle economie domestiche con risorse limitate.

In concreto, viene proposto un insieme coerente di strumenti economici, obblighi e divieti, nonché misure di incentivazione, informazione e formazione continua. L’obiettivo principale è chiaro: accelerare la transizione verso le energie rinnovabili, migliorare l’efficienza energetica e adattare i nostri modelli di consumo.

Un sostegno più ampio che mai

Fondata nel 2005 da 48 organizzazioni, l'Alleanza climatica riunisce oggi più di 150 membri e partner. Comprende una varietà di attorə impegnatə: organizzazioni per la protezione del clima, dell'ambiente e della natura, associazioni di cooperazione allo sviluppo, sindacati, organizzazioni contadine, attori economici e comunità religiose. Insieme, queste organizzazioni rappresentano più di 2 milioni di membri in tutta la Svizzera.

«Un'alleanza solida per il clima è oggi più indispensabile che mai. Gli impatti del riscaldamento climatico e la necessità di una trasformazione profonda ci riguardano tuttə, ma il Consiglio federale sembra ancora sottovalutare l'urgenza. L'Alleanza climatica è aperta a tutte le forze della società civile che condividono le nostre ambizioni per un futuro sostenibile», dichiara Patrick Hofstetter, uno dei co-fondatori dell'Alleanza climatica.

 

 

Per ulteriori informazioni:

Marco Fähndrich, Responsabile della comunicazione e dei media
marco.faehndrich@alliancesud.ch, +41 31 390 93 34

Delia Berner, Esperta in politica climatica internazionale
delia.berner@alliancesud.ch

Patrick Hofstetter, Esperto di protezione del clima e di energia, WWF Svizzera e membro del Comitato dell'Alleanza climatica
patrick.hofstetter@wwf.ch

Pubblicazione

Finanziamento climatico – più urgente che mai

15.05.2025, Giustizia climatica

300 miliardi di dollari per la protezione del clima nel Sud globale: questo è stato concordato dalla comunità internazionale alla COP29 ed è urgentemente necessario per raggiungere gli obiettivi climatici di Parigi. Il finanziamento svizzero per il clima deve ora contribuire in modo equo. Come? Quali sono gli errori da evitare? Da dove arriveranno i fondi? Il documento di analisi di Alliance Sud risponde a queste domande. Inoltre, mostra prospettive a lungo termine che sono anche nell'interesse della Svizzera.

 

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

Finanziamento climatico – più urgente che mai

I residenti di Kiribati piantano piantine di mangrovie: proteggono dall'erosione costiera e dalle inondazioni e sono vitali per la vita dell'isola del Pacifico. Il progetto fotografico sul clima “Tropic Ice” mostra le comunità che lottano quotidianamente contro il cambiamento climatico. 

© Keystone/LAIF/Barbara Dombrowski

Iniziativa per la responsabilità ambientale

Rispettare i limiti del pianeta? Ma certo!

24.01.2025, Giustizia climatica

Il 9 febbraio i cittadini e le cittadine voteranno su un’iniziativa popolare che chiede alla Svizzera di ridurre la propria impronta ecologica. Si tratta di una condizione indispensabile per attenuare le disuguaglianze a livello globale e proteggere insieme il nostro pianeta. Alliance Sud dice «sì» all’iniziativa per la responsabilità ambientale.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

Rispettare i limiti del pianeta? Ma certo!

© Alleanza per la responsabilità ambientale

Finché non sarà possibile trasferirsi su un pianeta alternativo, proteggere la Terra è nell’interesse di tutta l’umanità. Alcuni anni fa, il ricercatore svedese Johan Rockström ha spiegato in un documentario insieme a David Attenborough, leggendario naturalista della BBC, cosa deve fare l’umanità per proteggere le basi della vita per tutti: deve rispettare i «limiti planetari». Questo concetto illustra come vi siano dei limiti oltre i quali la natura non sopporta più l’inquinamento e il rischio di giungere a dei punti di non ritorno è reale. Se l’ecosistema collassa giungendo a uno di questi punti, diventa impossibile evitare la perdita delle condizioni fondamentali per la vita. La considerevole scomparsa di biodiversità e l’eccesso delle emissioni di gas serra sono tra le aree in cui è più urgente intervenire. È per questo che nell’Accordo di Parigi sul clima, ad esempio, è stato fissato l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Oltre tale limite, l’umanità corre il grave rischio che si verifichino danni irreversibili.

 

L’iniziativa popolare è una risposta alla mancata volontà da parte di Consiglio federale e Parlamento di discutere seriamente la questione delle risorse.

 

L’iniziativa per la responsabilità ambientale chiede alla Svizzera di ridurre, entro dieci anni, il suo consumo di risorse a un livello tale che la sua quota di popolazione, in proporzione a quella mondiale, richieda un solo pianeta. Con ciò l’iniziativa considera che ci sono molte altre persone sulla Terra che vogliono e che hanno il diritto di avere un futuro degno di essere vissuto. Con l’«Agenda 2030», la comunità degli Stati delle Nazioni Unite si è posta l’obiettivo che nessuno debba più vivere nella povertà entro il 2030. Oggi le persone che vivono in povertà consumano poche risorse, soprattutto nel Sud del mondo, ma ne avranno bisogno un po’ di più in futuro per vivere una vita al di fuori della povertà. È quindi necessario che le società ricche e consumatrici riducano il loro consumo di risorse più della media globale. L’iniziativa popolare è una risposta alla mancata volontà da parte di Consiglio federale e Parlamento di discutere seriamente la questione delle risorse, e ciò malgrado un dato di fatto: continuare come ora significherebbe oltrepassare i limiti del pianeta.

 

Ulteriori informazioni:

 

Consiglio streaming: «Breaking Boundaries: The Science of our Planet», 2021, con Johan Rockström e David Attenborough, disponibile su Netflix.

Politica climatica

Scambio di certificati di CO2: tutto fumo e niente arrosto?

03.12.2024, Giustizia climatica

Sia con la legge sul CO2, sia con il nuovo programma di risparmio, la politica svizzera fa sempre più affidamento sui certificati di riduzione delle emissioni di CO2 provenienti dall’estero per raggiungere il suo obiettivo climatico entro il 2030. Ma il piano sembra destinato a fallire: i primi programmi stanno già rivelando serie lacune. Analisi di Delia Berner.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

Scambio di certificati di CO2: tutto fumo e niente arrosto?

Vecchi autobus e mascherine onnipresenti: Bangkok soffre per i gas di scarico, ma gli e-bus finanziati dalla Svizzera sono davvero utili in Thailandia?

© Benson Truong / Shutterstock

A gennaio 2024, la Svizzera ha attirato su di sé l’attenzione del mondo intero, soprattutto tra la comunità esperta nel mercato del carbonio. Infatti, per la prima volta in assoluto, le riduzioni di CO2 sono state trasferite da un Paese all’altro per mezzo di certificati nell’ambito del nuovo meccanismo di mercato dell’Accordo di Parigi sul clima. In concreto, l’introduzione degli autobus elettrici a Bangkok ha consentito alla Thailandia di ridurre le emissioni di CO2 di quasi 2000 tonnellate nel primo anno. La Svizzera ha acquistato questa riduzione per computarla al proprio obiettivo climatico.

Facciamo un passo indietro: entro il 2030, la Svizzera intende risparmiare più di 30 milioni di tonnellate di CO2 all’estero invece che sul territorio nazionale. I primi accordi bilaterali a questo proposito sono stati stipulati nell’autunno del 2020 e nel frattempo ve n’è più di una dozzina. Numerosi altri progetti sono in fase di sviluppo: dagli impianti di biogas e dai fornelli da cucina efficienti nei Paesi più poveri ai sistemi di climatizzazione rispettosi del clima e all’efficienza energetica negli edifici e nell’industria. Finora sono stati approvati solo due programmi al fine di essere considerati per l’obiettivo climatico svizzero. Le 2000 tonnellate di emissioni di CO2 risparmiate in Thailandia sono i primi certificati effettivamente scambiati. Da qui al 2030 resta ancora molto da fare per garantire che la Svizzera abbia un numero sufficiente di certificati da acquistare.

Il primo progetto rischia di fallire...

Ora la rivista “Beobachter”, dopo aver esaminato la documentazione in conformità con la legge sulla trasparenza, ha rivelato che proprio il primo programma a Bangkok rischia di non generare ulteriori certificati. Già un anno fa, l’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) aveva ricevuto accuse secondo le quali l’azienda produttrice dei bus elettrici stava violando il diritto del lavoro nazionale e il diritto alla libertà sindacale sancito dalla convenzione dei diritti dell’uomo. Dopo un accordo provvisorio raggiunto un anno fa, quest’anno sono emerse nuove accuse, che ora l’UFAM deve esaminare: la Svizzera non può autorizzare certificati creati in presenza di una violazione dei diritti umani. L’UFAM ha dichiarato al “Beobachter” che “può e sospenderà” l’ulteriore rilascio di certificati qualora le accuse vengano confermate. Un’ampia ricerca della rivista digitale “Republik” porta alla luce ulteriori accuse: la Svizzera sarebbe addirittura coinvolta in un thriller economico in Thailandia, perché avrebbe alimentato una bolla borsistica di dieci miliardi di franchi ignorando gli avvertimenti.

Anche il secondo progetto approvato genererà meno certificati di quanto prometta: una nuova ricerca di Alliance Sud su un progetto di fornelli da cucina in Ghana mostra che la pianificazione sovrastima le riduzioni di emissioni di 1,4 milioni di tonnellate. A questo punto risulta già chiaro che la compensazione all’estero non è generalmente più economica e certamente non è più facile da attuare rispetto alle misure di protezione del clima in Svizzera. Tali misure dovranno essere introdotte comunque, prima o poi, al fine di raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nette in Svizzera.

Altro che qualche difficoltà iniziale

I primi progetti mostrano le difficoltà nel garantire che grazie a essi venga effettivamente ridotta una certa quantità di CO2 e che siano efficaci in termini di costi. Proprio lo scetticismo sulla reale riduzione è il motivo per cui molti progetti di compensazione hanno fatto notizia negli ultimi anni. L’efficienza in termini di costi, poi, è rilevante poiché la maggior parte dei certificati viene pagata dalla popolazione svizzera attraverso una tassa sul carburante. Per verificare entrambi gli aspetti, l’UFAM dovrebbe esaminare il piano di finanziamento dei progetti. Ad esempio, dovrebbe assicurarsi che i costi di realizzazione non includano margini o profitti sproporzionati, ma che il più possibile dei fondi sia investito nella tutela del clima o nello sviluppo sostenibile, con il coinvolgimento della popolazione interessata nel Paese partner.

Tuttavia, è proprio qui che il sistema di compensazioni svizzere all’estero mostra i suoi punti deboli: dal momento che i certificati non vengono acquistati dalla Confederazione, ma dalla Fondazione per la protezione del clima e la compensazione di CO2 KliK, che converte in certificati i proventi della tassa sul carburante, i “dettagli commerciali” rimangono nascosti al pubblico. Quindi nessuno sa quanto costi una tonnellata di CO2 non emessa grazie all’uso di un bus elettrico a Bangkok o quanto denaro venga investito complessivamente nel progetto dei fornelli da cucina in Ghana, né tanto meno quanto ci guadagnino gli operatori del mercato privato. Nel caso del progetto in Ghana in questione, inoltre, sono state oscurate ampie parti della documentazione pubblicata sul progetto. La trasparenza è ancora peggiore rispetto agli standard quantomeno seri del mercato volontario del carbonio.

Duplice necessità di azione

Queste sfide vanno oltre le semplici difficoltà iniziali e rivelano una duplice necessità di azione da parte della politica svizzera. In primo luogo, è necessario migliorare la mancanza di trasparenza delle informazioni finanziarie sui progetti attraverso l’ordinanza relativa alla legge sul CO2, che è attualmente in fase di adeguamento all’ultima revisione della legge. In secondo luogo, occorre correggere l’idea che la compensazione all’estero sia un modo più economico e semplice per proteggere il clima. La Svizzera deve favorire la protezione del clima entro i propri confini nazionali e, dopo il 2030, raggiungere i suoi obiettivi climatici senza far nuovamente ricorso alle compensazioni di CO2. Alliance Sud invita il Consiglio federale a tenerne conto nella legge sul CO2 dopo il 2030.

Comunicato stampa

COP29: finanziamento climatico, i fondi pubblici sono l’unica via

07.11.2024, Giustizia climatica

Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici “COP29” che si terrà dall’11 al 22 novembre a Baku si discuterà di bilioni, ossia l’entità di fondi necessaria nel Sud globale per ovviare agli effetti gravosi della crisi climatica e porre fine alla dipendenza dai combustibili fossili. La Svizzera non può più attendere gli investimenti privati: deve contribuire a un obiettivo di finanziamento nettamente più elevato impiegando fondi pubblici.

Marco Fähndrich
Marco Fähndrich

Responsabile della comunicazione e dei media

+41 31 390 93 34 marco.faehndrich@alliancesud.ch
COP29: finanziamento climatico, i fondi pubblici sono l’unica via

© Shutterstock

2400 miliardi di dollari. Anche il Consiglio federale cita questa cifra stimata da un organo di esperti delle Nazioni Unite per quantificare il finanziamento annuale necessario per attuare l’Accordo di Parigi sul clima nel Sud del mondo entro il 2030. Una cifra che illustra l’enorme lacuna lasciata dall’attuale obiettivo di 100 miliardi per il finanziamento climatico nel Sud globale.

“È ovvio che per il nuovo obiettivo di finanziamento collettivo che verrà adottato alla COP29 sono necessarie dimensioni completamente diverse rispetto al passato”, commenta Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, centro di competenza svizzero per la cooperazione internazionale e la politica di sviluppo. La società civile internazionale chiede almeno 1000 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici per il clima all’anno. Per la riduzione dei gas serra, ad esempio, bisogna sostenere i Paesi più poveri fortemente indebitati che finora sono riusciti a pagare i loro interessi unicamente con i proventi dell’estrazione di petrolio o di gas.

Ma occorrono fondi pubblici in particolare anche per l’adattamento alle mutate condizioni climatiche. “In ogni Paese, a essere maggiormente colpite dalla crisi climatica sono le fasce più povere della popolazione. Proteggerle e sostenerle è un obbligo globale e non un business case”, sostiene Christina Aebischer, esperta climatica di Helvetas. Un’altra grande priorità per le delegazioni del Sud globale è costituita dall’inclusione dei danni e delle perdite dovuti al clima nel nuovo obiettivo di finanziamento climatico. Anche in questo caso è imperativamente necessario stanziare fondi pubblici. “Sulla base del principio del chi inquina paga, sarebbe da tempo necessario che anche i Paesi ricchi forniscano finanziamenti per coprire i danni dovuti ai cambiamenti climatici”, aggiunge Bettina Dürr, esperta climatica di Azione Quaresimale.

La Svizzera, invece, confida negli investimenti privati per trasferire il denaro necessario al Sud globale, non tenendo conto del fatto che nel caso dei flussi finanziari privati il denaro finora è fluito piuttosto dal Sud al Nord a causa dell’evasione fiscale e degli alti tassi di interesse. “Se l’unica risposta alla lacuna di finanziamento è costituita da vaghe promesse di investimenti privati, questo non aiuta le comunità colpite del Sud globale. Non è moralmente accettabile perché queste persone, che non hanno concorso in alcun modo alla crisi climatica, sono le prime a soffrirne”, dichiara Andreas Missbach.

Al contempo, i Paesi non devono perdere di vista la riduzione delle emissioni. Lo scorso anno, alla COP28 di Dubai, la comunità internazionale aveva deciso di procedere a un abbandono graduale dei combustibili fossili. All’inizio del 2025, tutti i Paesi dovranno presentare i loro nuovi obiettivi climatici, i contributi stabiliti a livello nazionale (NDC, “nationally determined contributions”). Negli NDC i Paesi devono definire come intendono attuare le risoluzioni di Dubai. In occasione della COP29 si traccerà la rotta da seguire. È fondamentale che in particolare i Paesi ricchi diano l’esempio ed illustrino concretamente i loro piani per l’abbandono graduale dei combustibili fossili. “Una transizione energetica rapida e socialmente giusta è imperativa e dovrebbe essere utilizzata come motore di sviluppo per le comunità trascurate. La Svizzera deve fornire il suo contributo in tal senso”, sostiene David Knecht, esperto climatico di Azione Quaresimale.

Nota: Delia Berner, esperta in politica climatica internazionale di Alliance Sud, è membro della delegazione negoziale ufficiale della Svizzera in qualità di rappresentante della società civile e sarà a Baku dall’11 novembre.

Per ulteriori informazioni:

Alliance Sud, Marco Fähndrich, responsabile dei media, tel. 079 374 59 73, marco.faehndrich@alliancesud.ch

Azione Quaresimale, Bettina Dürr, specialista energia e giustizia climatica, tel. 079 745 43 53 (tramite Signal o WhatsApp), duerr@fastenaktion.ch. Bettina Dürr osserverà a Baku i negoziati sul finanziamento climatico e sul bilancio globale (Global Stocktake).

Azione Quaresimale, David Knecht, specialista energia e giustizia climatica, tel. 076 436 59 86 (tramite Signal o WhatsApp), knecht@fastenaktion.ch. David Knecht osserverà a Baku i negoziati sulla mitigazione e gli NDC nonché sui meccanismi di compensazione del CO2.

Helvetas, Katrin Hafner, coordinatrice delle relazioni con i media, tel. 044 368 67 79, katrin.hafner@helvetas.org. Di Helvetas Christina Aebischer sarà a Baku come osservatrice.

Votazione del 9 giugno

La legge sull’elettricità è necessaria per proteggere maggiormente il clima

16.05.2024, Giustizia climatica

Per tutelare il clima, la Svizzera deve assicurare il proprio approvvigionamento elettrico da fonti rinnovabili. Pertanto Alliance Sud sostiene la legge sull’elettricità, che sarà sottoposta a votazione il 9 giugno 2024.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

La legge sull’elettricità è necessaria per proteggere maggiormente il clima

La legge sull’elettricità promuove l’espansione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili in Svizzera. L’approvvigionamento di elettricità da fonti rinnovabili come il sole, l’acqua e il vento è imprescindibile perché la Svizzera possa progredire nella decarbonizzazione e raggiungere i suoi obiettivi climatici sempre più sul territorio nazionale, invece di compensare le sue emissioni all’estero. Si noti che questa legge nel Parlamento federale è stata sostenuta da membri di tutti i partiti. Anche il consigliere federale Albert Rösti ha appoggiato la proposta di legge, già in veste di consigliere nazionale. L’espansione delle rinnovabili è ormai un denominatore comune non solo in Svizzera, ma anche nell’ambito dei negoziati per il clima delle Nazioni Unite. All’ultima conferenza sui cambiamenti climatici COP28 di Dubai, la comunità internazionale si è posta l’obiettivo di triplicare la capacità mondiale di generare energie rinnovabili entro il 2030.

Tuttavia nei negoziati globali e nella politica climatica svizzera finora si è trascurato un secondo punto fondamentale: l’abbandono delle energie fossili. Infatti, anche ampliando le rinnovabili, se si continua a inquinare con i combustibili fossili i gas serra non diminuiranno.
Questo aspetto deve essere tenuto maggiormente in considerazione nella politica climatica svizzera.

Per il momento, comunque, dopo il 59% dei consensi espressi per la legge sulla protezione del clima un anno fa, il 9 giugno offre l’opportunità di ottenere ancora una volta dalla popolazione un chiaro segnale a favore di un futuro rispettoso del clima. Lo scorso giugno ce lo ha mostrato: la protezione del clima ha il sostegno della maggioranza!

Cosa porterà la nuova legge sull’elettricità?

•    Una transizione energetica più veloce
La legge sull’elettricità consente una rapida espansione delle energie rinnovabili, in particolare dell’energia solare. Oltre l’80% degli impianti è costruito su edifici e infrastrutture esistenti.

•    Indipendenza dall’estero
Le nostre energie rinnovabili consentono di eliminare gradualmente petrolio, benzina e gas. Anche il crescente fabbisogno di corrente elettrica per le auto elettriche, le pompe di calore e l’industria potrà essere soddisfatto in futuro con energia pulita e domestica.

•    Elettricità in armonia con la natura
La legge sull’elettricità chiarisce dove l’espansione delle energie rinnovabili dovrebbe essere prioritaria. In contrasto, le aree di valore ecologico e paesaggistico diventano poco attraenti per l’espansione.

•    Prezzi dell’energia convenienti e stabili
I costi energetici diminuiranno complessivamente perché il petrolio, la benzina e il gas saranno sostituiti da elettricità rinnovabile a basso costo. L’elettricità prodotta in Svizzera riduce anche il rischio di shock dei prezzi. Non saranno introdotte nuove tasse.

Ulteriori informazioni:
https://www.legge-elettricita.ch/

Articolo, Global

L’illusione della volontarietà

28.03.2024, Giustizia climatica

Sotto la pressione della società civile e dei media, il mercato del carbonio è caduto in discredito. E a ragione: il sistema attuale non mantiene le sue promesse e pone il Sud globale in una posizione di svantaggio.

Di Maxime Zufferey

L’illusione della volontarietà

Un ricorso eccessivo alla compensazione invece di una riduzione sostanziale delle emissioni non è in alcun modo sostenibile.

© Ishan Tankha / Climate Visuals Countdown

Il mercato volontario del carbonio consente lo scambio di crediti di carbonio. Così un’azienda che continua a emettere CO2 può compensare le proprie emissioni finanziando progetti che riducono le emissioni altrove. In teoria, la compensazione del carbonio è considerata l’approccio di mercato più efficace per ottenere risultati in termini di riduzione delle emissioni a livello globale. Si basa sull’idea di massimizzare l’impatto delle risorse che abbiamo a disposizione per ridurre le emissioni utilizzandole laddove sono più economiche. Ad esempio, dopo aver ridotto le emissioni meno costose, un’azienda potrebbe destinare risorse a progetti tecnologici a basse emissioni di carbonio o a progetti di riforestazione, in modo da compensare matematicamente le emissioni che non è ancora riuscita a ridurre. In pratica, però, l’uso di crediti di compensazione a basso costo è fortemente criticato perché compromette la priorità assoluta di ridurre le emissioni e concorre a mantenere uno status quo insostenibile. Il crescente controllo da parte della società civile ha recentemente messo in dubbio le promesse, spesso ingannevoli, di “neutralità carbonica” formulate da alcune aziende con il pretesto della compensazione, quando in realtà le loro emissioni continuano ad aumentare.

I mercati del carbonio: un bilancio

Dalla sua nascita alla fine degli anni ’80, e in particolare dalla firma del Protocollo di Kyoto nel 1997, il mercato del carbonio è sempre stato oggetto di controversie. Il suo sviluppo ha portato alla nascita di mercati paralleli, talvolta difficili da distinguere a causa delle loro potenziali sovrapposizioni: il mercato del carbonio della “compliance” e il mercato “volontario”. Il mercato della compliance prevede riduzioni obbligatorie delle emissioni ed è regolamentato a livello nazionale o regionale. Il più noto di questi mercati è il sistema di scambio di quote di emissione dell’Unione Europea (EU-ETS), al quale la Svizzera ha aderito nel 2020. In base a questo meccanismo, alcuni grandi emettitori – centrali elettriche e grandi aziende industriali – sono soggetti a un tetto massimo di emissioni, che possono compensare acquistando certificati da altri membri che hanno ridotto le loro emissioni oltre l’obiettivo fissato. Tale limite massimo viene abbassato annualmente. Nonostante la sua attuazione estremamente complessa, questo sistema ha contribuito a una certa riduzione delle emissioni nei settori interessati. Tuttavia, è stato criticato il fatto che nei primi tempi l’assegnazione di certificati gratuiti ai grandi emettitori sia stata troppo generosa e che non siano stati prescritti obiettivi di riduzione sufficientemente ambiziosi. Inoltre, il prezzo del carbonio è ancora troppo basso; dovrebbe riflettere i costi sociali di una tonnellata di emissioni ed essere gradualmente aumentato a 200 USD. Il mercato volontario, invece, non prevede attualmente alcun obiettivo minimo di riduzione e rimane in gran parte non regolamentato. In questo tipo di mercato vengono utilizzati anche crediti di emissione di qualità molto diversa e a prezzi molto diversi (talvolta vengono offerti a meno di 1 USD).

I limiti del mercato volontario

La crisi di fiducia che ha colpito il mercato volontario del carbonio è dovuta non solo alla mancanza di regolamentazione e alla frammentazione del quadro normativo, ma anche ai limiti tecnici di questo meccanismo. I crediti di carbonio raramente corrispondono all’esatta unità di “compensazione” richiesta; il loro effetto è sistematicamente sovrastimato. Ciò è dovuto all’inaffidabilità del metodo di quantificazione e alla mancanza di un sistema di controllo integrale e privo di conflitti di interesse. Ma non è tutto, spesso infatti non è chiaro se i progetti di compensazione soddisfino il criterio dell’addizionalità , cioè se non sarebbero stati realizzati lo stesso senza il contributo finanziario dei crediti di emissione. È il caso in particolare dei progetti nell’ambito delle energie rinnovabili, che sono diventati la fonte di energia più economica nella maggior parte dei Paesi. Rappresentano una sfida importante anche le doppie contabilizzazioni , laddove un credito di emissione viene contabilizzato sia da parte del Paese ospitante sia da parte dell’azienda straniera. Questa procedura contraddice il principio secondo cui un credito può essere dedotto solo da un’unica entità. Il rischio di doppie contabilizzazioni è aumentato con l’Accordo di Parigi perché, a differenza del Protocollo di Kyoto, richiede anche ai Paesi in sviluppo di ridurre le emissioni.

Solleva molti dubbi, inoltre, la questione della permanenza delle compensazioni contabilizzate. L’estrazione e la combustione dei combustibili fossili fanno parte del ciclo del carbonio a lungo termine, mentre la fotosintesi e quindi l’assorbimento del carbonio da parte degli alberi o l’assorbimento negli oceani fanno parte del ciclo biogenico del carbonio a breve termine. Sembra quindi illusorio voler compensare l’accumulo a lungo termine di CO2 nell’atmosfera con progetti di compensazione limitati a pochi decenni. Inoltre, gli stessi cambiamenti climatici causati dall’uomo stanno compromettendo la permanenza del carbonio nei serbatoi temporanei come il suolo e le foreste, vista l’intensificazione degli incendi, dei periodi di siccità e della diffusione di parassiti. Esiste anche il rischio di rilocalizzazione delle emissioni (leakage) se, ad esempio, un progetto di protezione delle foreste in una particolare regione porta alla deforestazione altrove. Le prospettive di soluzioni tecnologiche con dispositivi per la cattura e il sequestro del carbonio non devono essere sopravvalutate. Attualmente non sono né competitive né disponibili a breve termine nella misura richiesta. Probabilmente anche in futuro continueranno a svolgere un ruolo limitato, benché necessario.

Il colonialismo del carbonio acuisce le ingiustizie

A prescindere da tutto ciò, un ricorso eccessivo alla compensazione invece di una riduzione sostanziale delle emissioni è assolutamente insostenibile. Come sottolinea CarbonMarketWatch nel suo rapporto (Corporate Climate Responsibility Monitor) sull’integrità degli obiettivi di protezione del clima delle aziende che si autodefiniscono leader in campo climatico, l’attuazione dei loro attuali piani per il raggiungimento delle “zero emissioni nette” dipende fortemente dalla compensazione. Se proseguisse a questo ritmo, il fabbisogno di terreno per generare quote di emissione supererebbe di gran lunga la disponibilità di suolo, minacciando direttamente la sopravvivenza delle comunità locali, la biodiversità e la sicurezza alimentare. Allo stesso tempo, i progetti popolari di riduzione delle emissioni nel mercato volontario, come la riforestazione o altre “soluzioni basate sulla natura”, sono spesso basati su modelli “fortezza” di conservazione della natura, in cui le aree protette sono delimitate e militarizzate – a scapito degli abitanti originari. Questi progetti non nascono affatto in “spazi vuoti” dove chi inquina può piantare alberi a tappeto, bensì interessano spesso aree abitate da comunità indigene. La nuova corsa all’oro delle soluzioni basate sulla natura attraverso la privatizzazione dei pozzi di carbonio naturali esacerba conflitti fondiari storicamente complessi e rischia di significare l’esproprio per le popolazioni locali . A maggior ragione quando questi progetti limitano il diritto delle comunità indigene all’autodeterminazione e al consenso libero e informato prima dell’approvazione di qualsiasi progetto che riguardi i loro territori.

Nel complesso, il sistema attuale è in larga misura inadeguato ad affrontare l’urgenza della crisi climatica ed è anche profondamente ingiusto. Concede diritti di inquinamento ai maggiori emettitori di gas serra, soprattutto alle grandi aziende e alle economie del Nord del mondo, le quali possono continuare a fare affari come prima, mentre limita i sistemi economici e gli stili di vita in particolare del Sud globale. Questo colonialismo del carbonio trasferisce quindi la responsabilità della lotta al cambiamento climatico e alla deforestazione  dalle grandi aziende alle comunità locali, che sono le meno responsabili del cambiamento climatico.

 

Pubblicato sulla Regione il 27 marzo 2024.

 

 

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