Iniziativa per la responsabilità ambientale

Rispettare i limiti del pianeta? Ma certo!

24.01.2025, Giustizia climatica

Il 9 febbraio i cittadini e le cittadine voteranno su un’iniziativa popolare che chiede alla Svizzera di ridurre la propria impronta ecologica. Si tratta di una condizione indispensabile per attenuare le disuguaglianze a livello globale e proteggere insieme il nostro pianeta. Alliance Sud dice «sì» all’iniziativa per la responsabilità ambientale.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

Rispettare i limiti del pianeta? Ma certo!

© Alleanza per la responsabilità ambientale

Finché non sarà possibile trasferirsi su un pianeta alternativo, proteggere la Terra è nell’interesse di tutta l’umanità. Alcuni anni fa, il ricercatore svedese Johan Rockström ha spiegato in un documentario insieme a David Attenborough, leggendario naturalista della BBC, cosa deve fare l’umanità per proteggere le basi della vita per tutti: deve rispettare i «limiti planetari». Questo concetto illustra come vi siano dei limiti oltre i quali la natura non sopporta più l’inquinamento e il rischio di giungere a dei punti di non ritorno è reale. Se l’ecosistema collassa giungendo a uno di questi punti, diventa impossibile evitare la perdita delle condizioni fondamentali per la vita. La considerevole scomparsa di biodiversità e l’eccesso delle emissioni di gas serra sono tra le aree in cui è più urgente intervenire. È per questo che nell’Accordo di Parigi sul clima, ad esempio, è stato fissato l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Oltre tale limite, l’umanità corre il grave rischio che si verifichino danni irreversibili.

 

L’iniziativa popolare è una risposta alla mancata volontà da parte di Consiglio federale e Parlamento di discutere seriamente la questione delle risorse.

 

L’iniziativa per la responsabilità ambientale chiede alla Svizzera di ridurre, entro dieci anni, il suo consumo di risorse a un livello tale che la sua quota di popolazione, in proporzione a quella mondiale, richieda un solo pianeta. Con ciò l’iniziativa considera che ci sono molte altre persone sulla Terra che vogliono e che hanno il diritto di avere un futuro degno di essere vissuto. Con l’«Agenda 2030», la comunità degli Stati delle Nazioni Unite si è posta l’obiettivo che nessuno debba più vivere nella povertà entro il 2030. Oggi le persone che vivono in povertà consumano poche risorse, soprattutto nel Sud del mondo, ma ne avranno bisogno un po’ di più in futuro per vivere una vita al di fuori della povertà. È quindi necessario che le società ricche e consumatrici riducano il loro consumo di risorse più della media globale. L’iniziativa popolare è una risposta alla mancata volontà da parte di Consiglio federale e Parlamento di discutere seriamente la questione delle risorse, e ciò malgrado un dato di fatto: continuare come ora significherebbe oltrepassare i limiti del pianeta.

 

Ulteriori informazioni:

 

Consiglio streaming: «Breaking Boundaries: The Science of our Planet», 2021, con Johan Rockström e David Attenborough, disponibile su Netflix.

Politica climatica

Scambio di certificati di CO2: tutto fumo e niente arrosto?

03.12.2024, Giustizia climatica

Sia con la legge sul CO2, sia con il nuovo programma di risparmio, la politica svizzera fa sempre più affidamento sui certificati di riduzione delle emissioni di CO2 provenienti dall’estero per raggiungere il suo obiettivo climatico entro il 2030. Ma il piano sembra destinato a fallire: i primi programmi stanno già rivelando serie lacune. Analisi di Delia Berner.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

Scambio di certificati di CO2: tutto fumo e niente arrosto?

Vecchi autobus e mascherine onnipresenti: Bangkok soffre per i gas di scarico, ma gli e-bus finanziati dalla Svizzera sono davvero utili in Thailandia?

© Benson Truong / Shutterstock

A gennaio 2024, la Svizzera ha attirato su di sé l’attenzione del mondo intero, soprattutto tra la comunità esperta nel mercato del carbonio. Infatti, per la prima volta in assoluto, le riduzioni di CO2 sono state trasferite da un Paese all’altro per mezzo di certificati nell’ambito del nuovo meccanismo di mercato dell’Accordo di Parigi sul clima. In concreto, l’introduzione degli autobus elettrici a Bangkok ha consentito alla Thailandia di ridurre le emissioni di CO2 di quasi 2000 tonnellate nel primo anno. La Svizzera ha acquistato questa riduzione per computarla al proprio obiettivo climatico.

Facciamo un passo indietro: entro il 2030, la Svizzera intende risparmiare più di 30 milioni di tonnellate di CO2 all’estero invece che sul territorio nazionale. I primi accordi bilaterali a questo proposito sono stati stipulati nell’autunno del 2020 e nel frattempo ve n’è più di una dozzina. Numerosi altri progetti sono in fase di sviluppo: dagli impianti di biogas e dai fornelli da cucina efficienti nei Paesi più poveri ai sistemi di climatizzazione rispettosi del clima e all’efficienza energetica negli edifici e nell’industria. Finora sono stati approvati solo due programmi al fine di essere considerati per l’obiettivo climatico svizzero. Le 2000 tonnellate di emissioni di CO2 risparmiate in Thailandia sono i primi certificati effettivamente scambiati. Da qui al 2030 resta ancora molto da fare per garantire che la Svizzera abbia un numero sufficiente di certificati da acquistare.

Il primo progetto rischia di fallire...

Ora la rivista “Beobachter”, dopo aver esaminato la documentazione in conformità con la legge sulla trasparenza, ha rivelato che proprio il primo programma a Bangkok rischia di non generare ulteriori certificati. Già un anno fa, l’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) aveva ricevuto accuse secondo le quali l’azienda produttrice dei bus elettrici stava violando il diritto del lavoro nazionale e il diritto alla libertà sindacale sancito dalla convenzione dei diritti dell’uomo. Dopo un accordo provvisorio raggiunto un anno fa, quest’anno sono emerse nuove accuse, che ora l’UFAM deve esaminare: la Svizzera non può autorizzare certificati creati in presenza di una violazione dei diritti umani. L’UFAM ha dichiarato al “Beobachter” che “può e sospenderà” l’ulteriore rilascio di certificati qualora le accuse vengano confermate. Un’ampia ricerca della rivista digitale “Republik” porta alla luce ulteriori accuse: la Svizzera sarebbe addirittura coinvolta in un thriller economico in Thailandia, perché avrebbe alimentato una bolla borsistica di dieci miliardi di franchi ignorando gli avvertimenti.

Anche il secondo progetto approvato genererà meno certificati di quanto prometta: una nuova ricerca di Alliance Sud su un progetto di fornelli da cucina in Ghana mostra che la pianificazione sovrastima le riduzioni di emissioni di 1,4 milioni di tonnellate. A questo punto risulta già chiaro che la compensazione all’estero non è generalmente più economica e certamente non è più facile da attuare rispetto alle misure di protezione del clima in Svizzera. Tali misure dovranno essere introdotte comunque, prima o poi, al fine di raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nette in Svizzera.

Altro che qualche difficoltà iniziale

I primi progetti mostrano le difficoltà nel garantire che grazie a essi venga effettivamente ridotta una certa quantità di CO2 e che siano efficaci in termini di costi. Proprio lo scetticismo sulla reale riduzione è il motivo per cui molti progetti di compensazione hanno fatto notizia negli ultimi anni. L’efficienza in termini di costi, poi, è rilevante poiché la maggior parte dei certificati viene pagata dalla popolazione svizzera attraverso una tassa sul carburante. Per verificare entrambi gli aspetti, l’UFAM dovrebbe esaminare il piano di finanziamento dei progetti. Ad esempio, dovrebbe assicurarsi che i costi di realizzazione non includano margini o profitti sproporzionati, ma che il più possibile dei fondi sia investito nella tutela del clima o nello sviluppo sostenibile, con il coinvolgimento della popolazione interessata nel Paese partner.

Tuttavia, è proprio qui che il sistema di compensazioni svizzere all’estero mostra i suoi punti deboli: dal momento che i certificati non vengono acquistati dalla Confederazione, ma dalla Fondazione per la protezione del clima e la compensazione di CO2 KliK, che converte in certificati i proventi della tassa sul carburante, i “dettagli commerciali” rimangono nascosti al pubblico. Quindi nessuno sa quanto costi una tonnellata di CO2 non emessa grazie all’uso di un bus elettrico a Bangkok o quanto denaro venga investito complessivamente nel progetto dei fornelli da cucina in Ghana, né tanto meno quanto ci guadagnino gli operatori del mercato privato. Nel caso del progetto in Ghana in questione, inoltre, sono state oscurate ampie parti della documentazione pubblicata sul progetto. La trasparenza è ancora peggiore rispetto agli standard quantomeno seri del mercato volontario del carbonio.

Duplice necessità di azione

Queste sfide vanno oltre le semplici difficoltà iniziali e rivelano una duplice necessità di azione da parte della politica svizzera. In primo luogo, è necessario migliorare la mancanza di trasparenza delle informazioni finanziarie sui progetti attraverso l’ordinanza relativa alla legge sul CO2, che è attualmente in fase di adeguamento all’ultima revisione della legge. In secondo luogo, occorre correggere l’idea che la compensazione all’estero sia un modo più economico e semplice per proteggere il clima. La Svizzera deve favorire la protezione del clima entro i propri confini nazionali e, dopo il 2030, raggiungere i suoi obiettivi climatici senza far nuovamente ricorso alle compensazioni di CO2. Alliance Sud invita il Consiglio federale a tenerne conto nella legge sul CO2 dopo il 2030.

Comunicato stampa

COP29: finanziamento climatico, i fondi pubblici sono l’unica via

07.11.2024, Giustizia climatica

Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici “COP29” che si terrà dall’11 al 22 novembre a Baku si discuterà di bilioni, ossia l’entità di fondi necessaria nel Sud globale per ovviare agli effetti gravosi della crisi climatica e porre fine alla dipendenza dai combustibili fossili. La Svizzera non può più attendere gli investimenti privati: deve contribuire a un obiettivo di finanziamento nettamente più elevato impiegando fondi pubblici.

Marco Fähndrich
Marco Fähndrich

Responsabile della comunicazione e dei media

+41 31 390 93 34 marco.faehndrich@alliancesud.ch
COP29: finanziamento climatico, i fondi pubblici sono l’unica via

© Shutterstock

2400 miliardi di dollari. Anche il Consiglio federale cita questa cifra stimata da un organo di esperti delle Nazioni Unite per quantificare il finanziamento annuale necessario per attuare l’Accordo di Parigi sul clima nel Sud del mondo entro il 2030. Una cifra che illustra l’enorme lacuna lasciata dall’attuale obiettivo di 100 miliardi per il finanziamento climatico nel Sud globale.

“È ovvio che per il nuovo obiettivo di finanziamento collettivo che verrà adottato alla COP29 sono necessarie dimensioni completamente diverse rispetto al passato”, commenta Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, centro di competenza svizzero per la cooperazione internazionale e la politica di sviluppo. La società civile internazionale chiede almeno 1000 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici per il clima all’anno. Per la riduzione dei gas serra, ad esempio, bisogna sostenere i Paesi più poveri fortemente indebitati che finora sono riusciti a pagare i loro interessi unicamente con i proventi dell’estrazione di petrolio o di gas.

Ma occorrono fondi pubblici in particolare anche per l’adattamento alle mutate condizioni climatiche. “In ogni Paese, a essere maggiormente colpite dalla crisi climatica sono le fasce più povere della popolazione. Proteggerle e sostenerle è un obbligo globale e non un business case”, sostiene Christina Aebischer, esperta climatica di Helvetas. Un’altra grande priorità per le delegazioni del Sud globale è costituita dall’inclusione dei danni e delle perdite dovuti al clima nel nuovo obiettivo di finanziamento climatico. Anche in questo caso è imperativamente necessario stanziare fondi pubblici. “Sulla base del principio del chi inquina paga, sarebbe da tempo necessario che anche i Paesi ricchi forniscano finanziamenti per coprire i danni dovuti ai cambiamenti climatici”, aggiunge Bettina Dürr, esperta climatica di Azione Quaresimale.

La Svizzera, invece, confida negli investimenti privati per trasferire il denaro necessario al Sud globale, non tenendo conto del fatto che nel caso dei flussi finanziari privati il denaro finora è fluito piuttosto dal Sud al Nord a causa dell’evasione fiscale e degli alti tassi di interesse. “Se l’unica risposta alla lacuna di finanziamento è costituita da vaghe promesse di investimenti privati, questo non aiuta le comunità colpite del Sud globale. Non è moralmente accettabile perché queste persone, che non hanno concorso in alcun modo alla crisi climatica, sono le prime a soffrirne”, dichiara Andreas Missbach.

Al contempo, i Paesi non devono perdere di vista la riduzione delle emissioni. Lo scorso anno, alla COP28 di Dubai, la comunità internazionale aveva deciso di procedere a un abbandono graduale dei combustibili fossili. All’inizio del 2025, tutti i Paesi dovranno presentare i loro nuovi obiettivi climatici, i contributi stabiliti a livello nazionale (NDC, “nationally determined contributions”). Negli NDC i Paesi devono definire come intendono attuare le risoluzioni di Dubai. In occasione della COP29 si traccerà la rotta da seguire. È fondamentale che in particolare i Paesi ricchi diano l’esempio ed illustrino concretamente i loro piani per l’abbandono graduale dei combustibili fossili. “Una transizione energetica rapida e socialmente giusta è imperativa e dovrebbe essere utilizzata come motore di sviluppo per le comunità trascurate. La Svizzera deve fornire il suo contributo in tal senso”, sostiene David Knecht, esperto climatico di Azione Quaresimale.

Nota: Delia Berner, esperta in politica climatica internazionale di Alliance Sud, è membro della delegazione negoziale ufficiale della Svizzera in qualità di rappresentante della società civile e sarà a Baku dall’11 novembre.

Per ulteriori informazioni:

Alliance Sud, Marco Fähndrich, responsabile dei media, tel. 079 374 59 73, marco.faehndrich@alliancesud.ch

Azione Quaresimale, Bettina Dürr, specialista energia e giustizia climatica, tel. 079 745 43 53 (tramite Signal o WhatsApp), duerr@fastenaktion.ch. Bettina Dürr osserverà a Baku i negoziati sul finanziamento climatico e sul bilancio globale (Global Stocktake).

Azione Quaresimale, David Knecht, specialista energia e giustizia climatica, tel. 076 436 59 86 (tramite Signal o WhatsApp), knecht@fastenaktion.ch. David Knecht osserverà a Baku i negoziati sulla mitigazione e gli NDC nonché sui meccanismi di compensazione del CO2.

Helvetas, Katrin Hafner, coordinatrice delle relazioni con i media, tel. 044 368 67 79, katrin.hafner@helvetas.org. Di Helvetas Christina Aebischer sarà a Baku come osservatrice.

Votazione del 9 giugno

La legge sull’elettricità è necessaria per proteggere maggiormente il clima

16.05.2024, Giustizia climatica

Per tutelare il clima, la Svizzera deve assicurare il proprio approvvigionamento elettrico da fonti rinnovabili. Pertanto Alliance Sud sostiene la legge sull’elettricità, che sarà sottoposta a votazione il 9 giugno 2024.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

La legge sull’elettricità è necessaria per proteggere maggiormente il clima

La legge sull’elettricità promuove l’espansione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili in Svizzera. L’approvvigionamento di elettricità da fonti rinnovabili come il sole, l’acqua e il vento è imprescindibile perché la Svizzera possa progredire nella decarbonizzazione e raggiungere i suoi obiettivi climatici sempre più sul territorio nazionale, invece di compensare le sue emissioni all’estero. Si noti che questa legge nel Parlamento federale è stata sostenuta da membri di tutti i partiti. Anche il consigliere federale Albert Rösti ha appoggiato la proposta di legge, già in veste di consigliere nazionale. L’espansione delle rinnovabili è ormai un denominatore comune non solo in Svizzera, ma anche nell’ambito dei negoziati per il clima delle Nazioni Unite. All’ultima conferenza sui cambiamenti climatici COP28 di Dubai, la comunità internazionale si è posta l’obiettivo di triplicare la capacità mondiale di generare energie rinnovabili entro il 2030.

Tuttavia nei negoziati globali e nella politica climatica svizzera finora si è trascurato un secondo punto fondamentale: l’abbandono delle energie fossili. Infatti, anche ampliando le rinnovabili, se si continua a inquinare con i combustibili fossili i gas serra non diminuiranno.
Questo aspetto deve essere tenuto maggiormente in considerazione nella politica climatica svizzera.

Per il momento, comunque, dopo il 59% dei consensi espressi per la legge sulla protezione del clima un anno fa, il 9 giugno offre l’opportunità di ottenere ancora una volta dalla popolazione un chiaro segnale a favore di un futuro rispettoso del clima. Lo scorso giugno ce lo ha mostrato: la protezione del clima ha il sostegno della maggioranza!

Cosa porterà la nuova legge sull’elettricità?

•    Una transizione energetica più veloce
La legge sull’elettricità consente una rapida espansione delle energie rinnovabili, in particolare dell’energia solare. Oltre l’80% degli impianti è costruito su edifici e infrastrutture esistenti.

•    Indipendenza dall’estero
Le nostre energie rinnovabili consentono di eliminare gradualmente petrolio, benzina e gas. Anche il crescente fabbisogno di corrente elettrica per le auto elettriche, le pompe di calore e l’industria potrà essere soddisfatto in futuro con energia pulita e domestica.

•    Elettricità in armonia con la natura
La legge sull’elettricità chiarisce dove l’espansione delle energie rinnovabili dovrebbe essere prioritaria. In contrasto, le aree di valore ecologico e paesaggistico diventano poco attraenti per l’espansione.

•    Prezzi dell’energia convenienti e stabili
I costi energetici diminuiranno complessivamente perché il petrolio, la benzina e il gas saranno sostituiti da elettricità rinnovabile a basso costo. L’elettricità prodotta in Svizzera riduce anche il rischio di shock dei prezzi. Non saranno introdotte nuove tasse.

Ulteriori informazioni:
https://www.legge-elettricita.ch/

Articolo, Global

L’illusione della volontarietà

28.03.2024, Giustizia climatica

Sotto la pressione della società civile e dei media, il mercato del carbonio è caduto in discredito. E a ragione: il sistema attuale non mantiene le sue promesse e pone il Sud globale in una posizione di svantaggio.

Di Maxime Zufferey

L’illusione della volontarietà

Un ricorso eccessivo alla compensazione invece di una riduzione sostanziale delle emissioni non è in alcun modo sostenibile.

© Ishan Tankha / Climate Visuals Countdown

Il mercato volontario del carbonio consente lo scambio di crediti di carbonio. Così un’azienda che continua a emettere CO2 può compensare le proprie emissioni finanziando progetti che riducono le emissioni altrove. In teoria, la compensazione del carbonio è considerata l’approccio di mercato più efficace per ottenere risultati in termini di riduzione delle emissioni a livello globale. Si basa sull’idea di massimizzare l’impatto delle risorse che abbiamo a disposizione per ridurre le emissioni utilizzandole laddove sono più economiche. Ad esempio, dopo aver ridotto le emissioni meno costose, un’azienda potrebbe destinare risorse a progetti tecnologici a basse emissioni di carbonio o a progetti di riforestazione, in modo da compensare matematicamente le emissioni che non è ancora riuscita a ridurre. In pratica, però, l’uso di crediti di compensazione a basso costo è fortemente criticato perché compromette la priorità assoluta di ridurre le emissioni e concorre a mantenere uno status quo insostenibile. Il crescente controllo da parte della società civile ha recentemente messo in dubbio le promesse, spesso ingannevoli, di “neutralità carbonica” formulate da alcune aziende con il pretesto della compensazione, quando in realtà le loro emissioni continuano ad aumentare.

I mercati del carbonio: un bilancio

Dalla sua nascita alla fine degli anni ’80, e in particolare dalla firma del Protocollo di Kyoto nel 1997, il mercato del carbonio è sempre stato oggetto di controversie. Il suo sviluppo ha portato alla nascita di mercati paralleli, talvolta difficili da distinguere a causa delle loro potenziali sovrapposizioni: il mercato del carbonio della “compliance” e il mercato “volontario”. Il mercato della compliance prevede riduzioni obbligatorie delle emissioni ed è regolamentato a livello nazionale o regionale. Il più noto di questi mercati è il sistema di scambio di quote di emissione dell’Unione Europea (EU-ETS), al quale la Svizzera ha aderito nel 2020. In base a questo meccanismo, alcuni grandi emettitori – centrali elettriche e grandi aziende industriali – sono soggetti a un tetto massimo di emissioni, che possono compensare acquistando certificati da altri membri che hanno ridotto le loro emissioni oltre l’obiettivo fissato. Tale limite massimo viene abbassato annualmente. Nonostante la sua attuazione estremamente complessa, questo sistema ha contribuito a una certa riduzione delle emissioni nei settori interessati. Tuttavia, è stato criticato il fatto che nei primi tempi l’assegnazione di certificati gratuiti ai grandi emettitori sia stata troppo generosa e che non siano stati prescritti obiettivi di riduzione sufficientemente ambiziosi. Inoltre, il prezzo del carbonio è ancora troppo basso; dovrebbe riflettere i costi sociali di una tonnellata di emissioni ed essere gradualmente aumentato a 200 USD. Il mercato volontario, invece, non prevede attualmente alcun obiettivo minimo di riduzione e rimane in gran parte non regolamentato. In questo tipo di mercato vengono utilizzati anche crediti di emissione di qualità molto diversa e a prezzi molto diversi (talvolta vengono offerti a meno di 1 USD).

I limiti del mercato volontario

La crisi di fiducia che ha colpito il mercato volontario del carbonio è dovuta non solo alla mancanza di regolamentazione e alla frammentazione del quadro normativo, ma anche ai limiti tecnici di questo meccanismo. I crediti di carbonio raramente corrispondono all’esatta unità di “compensazione” richiesta; il loro effetto è sistematicamente sovrastimato. Ciò è dovuto all’inaffidabilità del metodo di quantificazione e alla mancanza di un sistema di controllo integrale e privo di conflitti di interesse. Ma non è tutto, spesso infatti non è chiaro se i progetti di compensazione soddisfino il criterio dell’addizionalità , cioè se non sarebbero stati realizzati lo stesso senza il contributo finanziario dei crediti di emissione. È il caso in particolare dei progetti nell’ambito delle energie rinnovabili, che sono diventati la fonte di energia più economica nella maggior parte dei Paesi. Rappresentano una sfida importante anche le doppie contabilizzazioni , laddove un credito di emissione viene contabilizzato sia da parte del Paese ospitante sia da parte dell’azienda straniera. Questa procedura contraddice il principio secondo cui un credito può essere dedotto solo da un’unica entità. Il rischio di doppie contabilizzazioni è aumentato con l’Accordo di Parigi perché, a differenza del Protocollo di Kyoto, richiede anche ai Paesi in sviluppo di ridurre le emissioni.

Solleva molti dubbi, inoltre, la questione della permanenza delle compensazioni contabilizzate. L’estrazione e la combustione dei combustibili fossili fanno parte del ciclo del carbonio a lungo termine, mentre la fotosintesi e quindi l’assorbimento del carbonio da parte degli alberi o l’assorbimento negli oceani fanno parte del ciclo biogenico del carbonio a breve termine. Sembra quindi illusorio voler compensare l’accumulo a lungo termine di CO2 nell’atmosfera con progetti di compensazione limitati a pochi decenni. Inoltre, gli stessi cambiamenti climatici causati dall’uomo stanno compromettendo la permanenza del carbonio nei serbatoi temporanei come il suolo e le foreste, vista l’intensificazione degli incendi, dei periodi di siccità e della diffusione di parassiti. Esiste anche il rischio di rilocalizzazione delle emissioni (leakage) se, ad esempio, un progetto di protezione delle foreste in una particolare regione porta alla deforestazione altrove. Le prospettive di soluzioni tecnologiche con dispositivi per la cattura e il sequestro del carbonio non devono essere sopravvalutate. Attualmente non sono né competitive né disponibili a breve termine nella misura richiesta. Probabilmente anche in futuro continueranno a svolgere un ruolo limitato, benché necessario.

Il colonialismo del carbonio acuisce le ingiustizie

A prescindere da tutto ciò, un ricorso eccessivo alla compensazione invece di una riduzione sostanziale delle emissioni è assolutamente insostenibile. Come sottolinea CarbonMarketWatch nel suo rapporto (Corporate Climate Responsibility Monitor) sull’integrità degli obiettivi di protezione del clima delle aziende che si autodefiniscono leader in campo climatico, l’attuazione dei loro attuali piani per il raggiungimento delle “zero emissioni nette” dipende fortemente dalla compensazione. Se proseguisse a questo ritmo, il fabbisogno di terreno per generare quote di emissione supererebbe di gran lunga la disponibilità di suolo, minacciando direttamente la sopravvivenza delle comunità locali, la biodiversità e la sicurezza alimentare. Allo stesso tempo, i progetti popolari di riduzione delle emissioni nel mercato volontario, come la riforestazione o altre “soluzioni basate sulla natura”, sono spesso basati su modelli “fortezza” di conservazione della natura, in cui le aree protette sono delimitate e militarizzate – a scapito degli abitanti originari. Questi progetti non nascono affatto in “spazi vuoti” dove chi inquina può piantare alberi a tappeto, bensì interessano spesso aree abitate da comunità indigene. La nuova corsa all’oro delle soluzioni basate sulla natura attraverso la privatizzazione dei pozzi di carbonio naturali esacerba conflitti fondiari storicamente complessi e rischia di significare l’esproprio per le popolazioni locali . A maggior ragione quando questi progetti limitano il diritto delle comunità indigene all’autodeterminazione e al consenso libero e informato prima dell’approvazione di qualsiasi progetto che riguardi i loro territori.

Nel complesso, il sistema attuale è in larga misura inadeguato ad affrontare l’urgenza della crisi climatica ed è anche profondamente ingiusto. Concede diritti di inquinamento ai maggiori emettitori di gas serra, soprattutto alle grandi aziende e alle economie del Nord del mondo, le quali possono continuare a fare affari come prima, mentre limita i sistemi economici e gli stili di vita in particolare del Sud globale. Questo colonialismo del carbonio trasferisce quindi la responsabilità della lotta al cambiamento climatico e alla deforestazione  dalle grandi aziende alle comunità locali, che sono le meno responsabili del cambiamento climatico.

 

Pubblicato sulla Regione il 27 marzo 2024.

 

 

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Articolo

Un nuovo Eldorado per i commercianti di materie prime

07.12.2023, Giustizia climatica

In un mercato del carbonio che comincia a rivelare i suoi limiti, un attore inaspettato si è autoinvitato ai negoziati: i commercianti di materie prime hanno recentemente intensificato il loro commercio di CO2 senza ridurre gli affari nel settore dei combustibili fossili.

Di Maxime Zufferey

Un nuovo Eldorado per i commercianti di materie prime

Il mercato del carbonio fa gola anche ai commercianti di materie prime.

© Nana Kofi Acquah / Ashden 

Gas naturale etichettato “carbon neutral” o cemento etichettato “a emissioni zero”: l’elenco dei beni di consumo apparentemente neutrali per il clima si è allungato sempre di più negli ultimi anni. Il trucco contabile alla base della compensazione delle emissioni di CO2 prevede che l’attore che emette gas a effetto serra – che si tratti di un’azienda, un individuo o un Paese – paghi affinché un altro attore eviti, riduca o azzeri le proprie emissioni. In questo modo, le aziende possono posizionarsi sul mercato come meglio credono, presentandosi alla loro clientela quali aziende impegnate nella tutela del clima, senza tuttavia ridurre le proprie emissioni. Il mercato volontario del carbonio, che oscilla tra un vero e proprio boom e la recente crisi di fiducia innescata dalle accuse di greenwashing, si trova di fronte a un bivio.

Da un lato, vi è la realtà economica di un mercato volontario del carbonio che è quadruplicato fino a raggiungere i 2 miliardi di dollari solo nel 2021, con il potenziale di crescere fino a 50 miliardi di dollari entro il 2030. Ciò ha attirato l’interesse dei maggiori emettitori, principalmente dei commercianti di materie prime. Questa crescita esponenziale del mercato è dovuta in parte al fatto che il settore privato subisce pressioni perché assuma sempre più impegni a favore di emissioni nette pari a zero; in parte al fatto che la compensazione è un’alternativa con vantaggi finanziari e logistici rispetto alla riduzione della propria impronta di carbonio. Dall’altro, vi sono sempre più rapporti sulla scarsa qualità dei progetti del mercato volontario del carbonio. Mettono in guardia riguardo allo sviluppo incontrollato di un mercato il quale effetto reale sulla protezione del clima è quasi inesistente o addirittura controproducente. Il Politecnico federale di Zurigo e l’Università di Cambridge hanno dimostrato che solo il 12% del volume totale dei crediti esistenti nelle aree di compensazione più importanti – energie rinnovabili, fornelli e forni, silvicoltura e processi chimici – riduce effettivamente le emissioni. La piattaforma di giornalismo investigativo Follow the Money ha segnalato cifre massicciamente gonfiate in relazione al progetto di punta Kariba di South Pole. La società con sede a Zurigo ha successivamente annullato il suo contratto di carbon asset developer per il progetto in Zimbabwe. L’ONG Survival International ha mosso gravi accuse contro un progetto di compensazione volontario nel Kenya settentrionale, realizzato sulle terre delle comunità indigene. L’inchiesta ha portato alla luce violazioni potenzialmente gravi dei diritti umani che mettono a rischio le condizioni di vita delle popolazioni pastorali.

Che cos’è dunque il mercato volontario del carbonio? Una soluzione di marketing mal concepita e un pericoloso abbaglio che distrae dall’urgente necessità di misure trasformative a tutela del clima da parte del settore privato? Oppure un’autentica opportunità commerciale per sostenere le misure di protezione del clima delle aziende e un’iniezione di fondi multimiliardari, urgentemente necessari, per progetti di riduzione delle emissioni e di salvaguardia della biodiversità nei Paesi in sviluppo?

Certificati di CO2: la materia prima del futuro

In qualità di pioniere dello scambio bilaterale di certificati di CO2 nell’ambito dell’Accordo di Parigi, la Svizzera è un attore importante nel mercato del carbonio, compreso il suo segmento volontario. È il Paese di origine del principale fornitore di certificati di CO2 volontari, South Pole, e del secondo più grande certificatore, Gold Standard. È forse ancora più sorprendente il posizionamento dei giganti del commercio di materie prime svizzeri e in particolare di quelli con sede a Ginevra in  questo mercato. Sono il fiore all’occhiello di un settore che sta registrando un anno record dopo l’altro. Tuttavia, i nuovi investimenti si spiegano anche con il potenziale che offre questo mercato opaco di ricavare margini considerevoli pur continuando a emettere come prima. Un mercato, si noti bene, che non è regolamentato né in termini di prezzi né di distribuzione dei proventi dalla compensazione di CO2. Secondo Hannah Hauman, responsabile degli scambi di quote di emissione presso Trafigura, il segmento del carbonio è oggi il più grande mercato di materie prime al mondo e ha già superato il mercato del petrolio greggio.

Trafigura, uno dei maggiori commercianti indipendenti di petrolio e metalli al mondo, nel 2021 ha deciso di aprire un proprio ufficio di carbon trading a Ginevra e di lanciare il più vasto progetto di riforestazione di mangrovie sulla costa pakistana. Un anno dopo, il volume degli scambi di quote di emissione ammontava già a 60,3 milioni di tonnellate. Nel suo rapporto annuale per il 2022, il trader energetico Mercuria, con sede a Ginevra, non solo ha dichiarato la sua neutralità rispetto alle emissioni di carbonio, ma ha anche affermato che il 14,9% del suo volume di trading è costituito da mercati di carbonio, rispetto al 2% del 2021. All’inizio del 2023, il cofondatore di Mercuria Marco Dunand ha annunciato la realizzazione di Silvania, un veicolo di investimento con un capitale di 500 milioni di dollari specializzato in soluzioni basate sulla natura (SBN). Poco dopo, con lo Stato brasiliano di Tocantins ha lanciato il primo programma per ridurre le emissioni da deforestazione e degrado forestale con un volume fino a 200 milioni di crediti di carbonio volontari. Tuttavia, il petrolio e il gas rappresentano ancora la principale attività dell’azienda (quasi il 70%). Il vicino di Mercuria sulle rive del Lemano, Vitol, il più grande commerciante privato di petrolio al mondo, ha oltre dieci anni di esperienza nei mercati del carbonio e intende espandere le sue attività in questo settore. L’azienda punta a raggiungere un volume di mercato nello scambio di quote di emissione di CO2 paragonabile alla sua presenza sul mercato del petrolio. In altre parole: 7,4 milioni di barili di greggio e prodotti petroliferi al giorno nel 2022, il che corrisponde a più del 7% del consumo globale di petrolio. Anche il commerciante di greggio Gunvor intende aumentare il volume di scambi di CO2 nei prossimi anni, comunicando tuttavia in maniera meno trasparente; lo stesso vale per Glencore, che è attiva da molti anni nel settore dei pagamenti compensativi per la biodiversità, il fulcro della sua strategia di sostenibilità. Glencore ha stimato le sue emissioni lungo l’intera catena del valore a 370 milioni di tonnellate di CO2-equivalenti nel 2022, più di tre volte le emissioni totali di CO2 della Svizzera.

Queste aziende si dichiarano forze trainanti della transizione e affermano di aver accelerato lo sviluppo integrando lo scambio di quote di emissioni nei loro portafogli. Rimane il fatto che stanno perseguendo una duplice strategia di investimento sia nelle fonti energetiche a basse emissioni di carbonio sia nei combustibili fossili, con un bilancio ancora nettamente a favore dei combustibili fossili. Del resto, nessuno di questi commercianti di materie prime ha ancora annunciato l’intenzione di abbandonare i combustibili fossili. Eppure ciò è essenziale se vogliamo rimanere al di sotto dell’aumento di temperatura di 1,5°C come previsto dall’Accordo di Parigi. La situazione piuttosto è capovolta: le aziende fanno molto affidamento sulle operazioni di compensazione per adempiere ai loro obblighi climatici e perseguono così i loro obiettivi di profitto a breve termine, ritardando al contempo l’abbandono graduale dei combustibili fossili a livello mondiale. Data la mancanza di una regolamentazione che limiti gli investimenti nei combustibili fossili e nelle attività che pregiudicano il clima, è illusorio credere che l’industria del commercio delle materie prime possa realizzare la transizione e che gli obiettivi siano raggiungibili attraverso il mercato volontario del carbonio. Finché le aziende non faranno tutto il possibile per ridurre le proprie emissioni, le soluzioni basate sulla natura non saranno altro che greenwashing e le dichiarazioni d’intenti a favore della transizione rimarranno di facciata: queste aziende stanno fingendo di spegnere il vastissimo incendio che esse stesse hanno alimentato.

Dubai nel ruolo dell’arbitro

Nel mese di dicembre 2023 la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28) a Dubai probabilmente definirà la rotta per il futuro e la credibilità del mercato volontario del carbonio. Uno dei temi oggetto di negoziazione è l’attuazione dell’articolo 6.4 dell’Accordo di Parigi, che potrebbe fungere da quadro uniforme per un vero e proprio mercato globale del carbonio. La COP è presieduta da Sultan Al Jaber, CEO dell’undicesimo produttore mondiale di petrolio e gas, la Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), che ha appena aperto un ufficio di carbon trading. Anche le multinazionali del settore dei combustibili fossili e delle materie prime si sono assicurate una presenza massiccia al tavolo dei negoziati. Le necessità di trasparenza, di regole universali e di controlli efficaci nel mercato volontario del carbonio rischiano quindi di essere trascurate.

Sebbene i sostenitori del mercato volontario del carbonio riconoscano alcune delle attuali debolezze del settore, rimangono convinti che le varie iniziative di autoregolamentazione, come la Voluntary Carbon Markets Integrity Initiative (VCMI), e la creazione di standard permetteranno di differenziare chiaramente i crediti di carbonio ad alta integrità. Gli oppositori, invece, non credono nel potere di trasformazione di un mercato volontario attraverso l’autoregolamentazione. Considerano il dibattito sulla compensazione delle emissioni di CO2 una potenziale manovra diversiva che consolida lo status quo. Chiedono un completo cambiamento di paradigma. L’attuale mercato della compensazione delle emissioni di carbonio basato sul principio “tonnellata per tonnellata” – cioè una tonnellata di CO2 emessa in un luogo è matematicamente compensata da una tonnellata di CO2 risparmiata altrove – dovrebbe essere trasformato in un mercato separato per i contributi al clima basato sul principio “tonnellata per denaro”, cioè una tonnellata di CO2 emessa in un luogo è finanziariamente internalizzata nella misura del costo sociale reale di una tonnellata di emissioni. Si tratterebbe di uno strumento utile per integrare gli impegni di riduzione quantificabili, non per sostituirli. È inoltre urgentemente necessaria un’accurata due diligence per tutti i progetti legati al carbonio, con meccanismi di salvaguardia dei diritti umani e della biodiversità e un efficace meccanismo di denuncia.

 

Medienmitteilung

La giustizia climatica al centro a Marrakech

27.10.2016, Giustizia climatica

Alla prima conferenza dell’ONU dopo Parigi si parlerà della promessa dei paesi industrializzati di aumentare i loro contributi ai paesi in via di sviluppo a 100 miliardi USD all’anno entro il 2020.

La giustizia climatica al centro a Marrakech

Comunicato

COP28: più finanziamenti per il Sud globale

27.11.2023, Giustizia climatica

La Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP28), che si terrà dal 30 novembre al 12 dicembre a Dubai, svolge un ruolo fondamentale affinché gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima possano ancora essere raggiunti. Per uno sviluppo nel Sud del mondo rispettoso del clima urge maggiore sostegno finanziario, anche da parte della Svizzera.

 

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

+41 31 390 93 42 delia.berner@alliancesud.ch
COP28: più finanziamenti per il Sud globale

Colata detritica in Perù. 

© Alberto Orbegoso

Dopo i 12 mesi più caldi degli ultimi 125 000 anni, le aspettative nei confronti della comunità internazionale alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici COP28 sono enormi. «È necessario correggere rapidamente la rotta se si vuole che l’obiettivo fissato nell’Accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius possa ancora essere raggiunto», dichiara Delia Berner, esperta in clima presso Alliance Sud, il centro di competenza svizzero per la cooperazione internazionale e la politica di sviluppo. «Per ogni decimo di grado di riscaldamento in più, aumenta la sofferenza delle persone più povere, le stesse che hanno contribuito meno alla crisi climatica». Alliance Sud chiede alla Svizzera di allineare la sua posizione negoziale ai bisogni delle popolazioni più povere del Sud globale.

A tre anni dall’inizio dell’attuazione dell’Accordo di Parigi gli Stati firmatari, nell’ambito del meccanismo di innalzamento delle ambizioni, negozieranno per la prima volta a Dubai il bilancio globale sull’attuazione dell’accordo. «Il successo della COP28 dipenderà da quanto le risoluzioni sul bilancio globale rifletteranno la triste realtà, ovvero che i piani nazionali di protezione del clima non sono complessivamente abbastanza ambiziosi per raggiungere gli obiettivi. Abbiamo assolutamente bisogno di piani concreti su come si possono colmare le lacune e quali processi sono previsti a tal fine», sottolinea Stefan Salzmann di Azione Quaresimale.

Una questione urgente verte sulla svolta del settore energetico e su chi la finanzia. Gli investimenti del settore privato non possono fare miracoli in questo senso. Finora non sono stati in grado di soddisfare le esigenze di finanziamento dei Paesi più poveri. Soprattutto i rischi più elevati o percepiti come tali inibiscono chi potrebbe investire. Inoltre, nei Paesi più poveri i finanziamenti privati per le misure di adattamento sono praticamente inesistenti.

Per una transizione energetica giusta...
La presidenza della COP28, gli Emirati Arabi Uniti, si sta concentrando sullo sviluppo delle energie rinnovabili, senza però al contempo impegnarsi a ridurre rapidamente i combustibili fossili. La transizione di cui abbiamo bisogno, tuttavia, deve includere entrambi gli elementi, poiché l’espansione delle rinnovabili non permette da sola di ridurre i gas serra.

«Nonostante l’urgenza di nuovi investimenti, non bisogna dimenticare le persone che lavorano nelle fabbriche e nei campi. Dobbiamo tenere d’occhio il loro benessere se vogliamo un cambiamento giusto», sottolinea Cyrill Rogger di Solidar Suisse. Annette Mokler di terre des hommes Svizzera aggiunge: «I gruppi di popolazione interessati e le comunità indigene devono essere direttamente coinvolti nei piani per un cambiamento giusto». Una cosa è già chiara: la transizione verso le energie rinnovabili nel Sud del mondo potrà funzionare solo se il sostegno finanziario, ovvero il finanziamento internazionale a tutela del clima, aumenterà significativamente.

...servono più finanziamenti climatici
Non mancano fondi solo per la decarbonizzazione: le lacune nell’adattamento alle mutate condizioni climatiche nel Sud del mondo si stanno ampliando. Secondo l’ultimo “Rapporto sul divario di adattamento 2023” del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, ogni miliardo di dollari investito nell’adattamento ai cambiamenti climatici preverrebbe 14 miliardi di dollari di danni econo¬mici. «Gli attuali finanziamenti climatici da parte dei Paesi industrializzati riescono a coprire meno di un decimo del fabbisogno finanziario per l’adattamento nel Sud globale. Ciò è problematico perché porta a danni sempre maggiori e a perdite più elevate», avverte Christina Aebischer di Helvetas.

Le questioni riguardanti il finanziamento determinano da anni il programma e i punti di discussione della conferenza sul clima. Non è una coincidenza, considerando che almeno 28 dei Paesi del Sud globale più colpiti dall’impatto della crisi climatica hanno anche gravi problemi di debito. Molti Paesi non sono in grado di finanziare misure di protezione del clima con il proprio bilancio perché al posto di farlo devono onorare il proprio debito, cadendo in un circolo vizioso.

Il fondo per i danni e le perdite va riempito
Quest’anno, la comunità internazionale intende deliberare sulle modalità del fondo cosiddetto Loss and Damage concordato nel 2022. L’attuale testo di compromesso elaborato da 30 Stati non prevede un carattere molto vincolante per quanto riguarda i contributi. Se rimane così, è ancora più importante che gli Stati inquinanti approfittino della conferenza per garantire la rapida istituzione e il riempimento del fondo. «I Paesi industrializzati sostengono che non ci sono soldi. Allo stesso tempo, le multinazionali traggono miliardi di profitti dai combustibili fossili e dalle industrie ad alta intensità di CO2. È ovvio che queste aziende devono contribuire a rimediare ai danni che causano», spiega Cybèle Schneider di Heks/Eper.

«Uno dei motivi principali per cui i negoziati sul sostegno finanziario al Sud globale sono così spinosi è la perdita di fiducia dei Paesi poveri nei confronti dei Paesi ricchi come la Svizzera», puntualizza Sonja Tschirren di SWISSAID, «perché i Paesi industrializzati non stanno pagando il conto precedente». Nel 2009 è stato deciso di stanziare 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020 per sostenere i piani di tutela del clima e di adattamento dei Paesi del Sud globale. Tuttavia, gli ultimi dati OCSE mostrano che questo obiettivo è stato mancato già di oltre 10 miliardi nel 2021. «La Svizzera e altri Paesi ricorrono a trucchi contabili per abbellire il loro contributo al finanziamento climatico», spiega Angela Lindt di Caritas Svizzera: «Invece di stanziare nuovi fondi, come concordato a livello internazionale, Paesi come la Svizzera stanno utilizzando principalmente fondi che erano stati stanziati per la riduzione della povertà. Non c’è da stupirsi che ci sia molta diffidenza nei negoziati». Alliance Sud chiede da anni che la Svizzera contribuisca con 1 miliardo di dollari all’anno al finanziamento climatico senza gravare sul bilancio della cooperazione internazionale.

Per ulteriori informazioni:

  • Alliance Sud, Delia Berner, esperta in politica climatica internazionale, tel. 077 432 57 46, delia.berner@alliancesud.ch
  • Azione Quaresimale, Stefan Salzmann, responsabile energia e giustizia climatica, tel. 041 227 59 53, salzmann@fastenaktion.ch. Stefan Salzmann è a Dubai come osservatore.
  • Solidar Suisse, Cyrill Rogger, Desk Officer Europa sudorientale, tel. 044 444 19 87, cyrill.rogger@solidar.ch
  • terre des hommes Svizzera, Annette Mokler, responsabile Politica di sviluppo e coordinamento programmi Sahara occidentale, tel. 061 335 91 53, annette.mokler@terredeshommes.ch
  • Helvetas, Katrin Hafner, coordinatrice delle relazioni con i media, tel. 044 368 67 79, katrin.hafner@helvetas.org. Christina Aebischer è a Dubai come osservatrice.
  • Heks/Eper, Cybèle Schneider, specialista in giustizia climatica, tel. 079 900 37 08, cybele.schneider@heks.ch
  • SWISSAID, Sonja Tschirren, esperta in clima e agricoltura ecologica, tel. 079 363 54 36, s.tschirren@swissaid.ch
  • Caritas Svizzera, Angela Lindt, responsabile Servizio Politica di sviluppo, tel. 041 419 23 95, alindt@caritas.ch

 

 

Articolo

I danni ci sono, i finanziamenti non ancora

24.11.2023, Giustizia climatica

La discussione su chi debba pagare per i danni e le perdite conseguenti al riscaldamento climatico va avanti da decenni. Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Dubai quest’anno, per la prima volta, si negoziano le modalità di pagamento. I risultati urgono.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

I danni ci sono, i finanziamenti non ancora

Una catastrofe nazionale che si ripete sempre più spesso: la siccità in Kenia.

© Ed Ram /Getty Images

«Nel mio Paese, il Kenia, è già la sesta volta di seguito che non arriva la stagione delle piogge». La sera del 22 giugno 2023, Elizabeth Wathuti parla a voce alta al microfono sul Champ de Mars a Parigi, per farsi sentire dalle migliaia di persone presenti. «Ciò ha causato perdite di raccolti, siccità prolungata e insicurezza alimentare. Ha aumentato enormemente i costi per la nostra agricoltura». Mentre la giovane attivista racconta gli effetti della crisi climatica sullo sfondo della Tour Eiffel e chiede giustizia climatica insieme ad altre e altri che come lei tengono un discorso, il Presidente francese Emmanuel Macron riceve i suoi ospiti da tutto il mondo a un banchetto nel vicino Palais. Per tutta la giornata, su invito di Macron, nell’ambito di un vertice internazionale avevano discusso delle sfide e dei modi per aumentare i finanziamenti a favore dello sviluppo sostenibile nel Sud globale. Il risultato: se ne ridiscuterà alla prossima conferenza.

Il finanziamento internazionale a tutela del clima, che ha come scopo la riduzione delle emissioni di gas serra e l’adattamento al riscaldamento climatico nel Sud del mondo, è da anni legato all’impegno che sono tenuti a dimostrare secondo il diritto internazionale i Paesi industrializzati mediante i loro contributi all’obiettivo di finanziamento collettivo di 100 miliardi di dollari all’anno. Tuttavia, la mancanza di volontà politica negli Stati che causano la crisi climatica ha fatto sì che questa somma non sia mai stata raggiunta.

Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di novembre 2022 (COP27) a Sharm el-Sheikh, gli Stati del Sud globale sono riusciti per la prima volta a negoziare il finanziamento dei danni e delle perdite dovuti al clima, anche grazie a decenni di sostegno da parte delle organizzazioni della società civile di tutto il mondo. Eppure già da anni i danni e le perdite si aggirano sui miliardi (le stime variano a seconda della definizione) e colpiscono maggiormente le persone che hanno meno mezzi per prepararsi o adattarsi ai cambiamenti climatici. Inoltre, in Paesi già fortemente indebitati i danni e le perdite portano a un ulteriore indebitamento. L’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) distingue tra danni o perdite derivanti da eventi graduali (ad esempio l’innalzamento del livello del mare) ed eventi improvvisi (ad esempio tempeste e inondazioni). Oltre alle perdite e ai danni quantificabili a livello economico, si verificano anche danni non quantificabili, come i danni ai beni culturali o agli ecosistemi.

Alla conferenza COP28 di quest’anno a Dubai, il finanziamento “Loss and Damage” sarà uno dei principali temi delle trattative. Le parti contraenti, infatti, si sono date un anno fa il compito di adottare nel 2023 disposizioni più dettagliate su come dovranno essere finanziati danni e perdite. La discussione si limita ai Paesi particolarmente vulnerabili alle conseguenze della crisi climatica. A tal fine dovrebbe essere costituito un fondo ONU a cui contribuiscono gli Stati inquinanti. In questo contesto, si sta discutendo di fonti di finanziamento globali innovative, con le quali si potrebbero far pagare anche attori privati secondo il principio del “chi inquina paga”. «Se tali proposte saranno accettate, potrebbero dover contribuire al finanziamento anche le imprese ad alta intensità di emissioni di tutto il mondo», scrive Robin Poëll, portavoce dell’UFAM, su richiesta di Alliance Sud. Tuttavia, la probabilità che una tale imposta globale a favore del fondo ONU si avveri per ora non è molto alta. In attesa di ciò, la Svizzera potrebbe dare il buon esempio e vagliare l’introduzione di un’imposta di questo tipo almeno sulle imprese che danneggiano il clima in Svizzera, in modo tale da risarcire le perdite e i danni nel Sud globale.

La perdita di fiducia complica le trattative

Il vero pomo della discordia alla conferenza sul clima, tuttavia, sarà probabilmente quello di stabilire quali Paesi debbano versare capitali nel fondo e verso quali Paesi il denaro debba affluire. Per stabilirlo, occorre definire o meglio negoziare quali Paesi sono da considerare particolarmente vulnerabili. Per quanto riguarda la questione ancora più politica di chi debba pagare in quanto Stato inquinante, la responsabilità storica della crisi climatica, chiaramente attribuibile ai Paesi industrializzati, va combinata con l’attuale confronto delle emissioni di gas serra tra i Paesi; in quest’ultimo, i maggiori Paesi emergenti presentano una quota maggiore. I Paesi donatori che finora hanno sostenuto gli obiettivi di finanziamento climatico sono stati definiti nel 1992. La Svizzera intende ora fare in modo che un maggior numero di Paesi debba versare il proprio contributo al fondo. Secondo il portavoce dell’UFAM, «la Svizzera auspica che i Paesi che contribuiscono maggiormente a causare il cambiamento climatico e hanno le capacità necessarie siano tenuti a impegnarsi. Ciò significa, in concreto, che dovrebbero contribuire al finanziamento anche le economie emergenti benestanti con emissioni elevate di gas serra nonché gli attori privati».

Tuttavia, la Svizzera e altri Paesi donatori del Nord globale finora su questo punto si sono scontrati con la resistenza del Sud del mondo. Poiché i Paesi industrializzati non hanno mantenuto le loro promesse di finanziamento, non hanno la credibilità necessaria in termini di giustizia climatica. La Svizzera, ad esempio, non ha calcolato la propria “quota equa” di finanziamento climatico in base alla propria impronta climatica complessiva, ma solo in base alle emissioni sul territorio nazionale. Per non parlare del mancato raggiungimento dell’obiettivo climatico che consisteva nel ridurre le emissioni del 20% entro il 2020. La perdita di fiducia tra Nord e Sud, in ultima analisi, complica anche le trattative in merito a obiettivi climatici più ambiziosi e all’abbandono graduale dei combustibili fossili. I Paesi del Sud globale però devono poter garantire i loro finanziamenti per le energie rinnovabili, per non rimanere emarginati globali.

Il tempo stringe, i danni e le perdite sono già tangibili e in continuo aumento. Anche perché, secondo il rapporto mondiale sul clima, la carenza di finanziamenti per l’adattamento al riscaldamento globale è sempre maggiore. E in ogni caso, le persone non possono adattarsi a qualsiasi cambiamento. Il ministro degli Esteri della nazione insulare del Pacifico Tuvalu l’ha ricordato lasciando un’impressione indelebile quando, poco prima della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Glasgow nel 2021, senza esitare si è arrotolato i pantaloni, ha piazzato il suo leggio in acqua e ha tenuto un discorso per richiamare l’attenzione sull’innalzamento del livello del mare.

A Glasgow, Elizabeth Wathuti si è rivolta al mondo intero in occasione dell'apertura della conferenza sui cambiamenti climatici: «Entro il 2025, metà della popolazione mondiale sarà confrontata con problemi di scarsità idrica. E prima dei miei cinquant’anni la crisi climatica avrà fatto sfollare 86 milioni di persone nella sola Africa subsahariana». Nessuna conferenza può porre fine alla crisi climatica da un giorno all’altro. Ma rimediare finanziariamente ai danni e alle perdite già avvenuti è assolutamente necessario.

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© Karwai Tang

Elizabeth Wathuti, giovane attivista per il clima

Comunicato stampa

Alliance Sud dice «Sì» alla Legge clima

03.05.2023, Giustizia climatica

Le direttrici e i direttori di Alliance Sud e dei suoi membri sono concordi nel ribadire che la Legge clima è un primo passo verso una maggior giustizia climatica.

Alliance Sud dice «Sì» alla Legge clima

È ora che la Svizzera dia il suo contributo alla lotta contro la crisi climatica globale. Le ripercussioni peggiori del riscaldamento terrestre riguardano le persone più povere del sud del mondo, che tuttavia alimentano in minor misura il cambiamento climatico. Nel mese di marzo di quest’anno, il ciclone «Freddy» ha battuto numerosi record a livello mondiale. La tempesta tropicale, che è durata più di un mese e ha provocato la morte di oltre 1000 persone in Mozambico, Malawi e Madagascar, ha lasciato dietro di una scia di distruzione. È stata la tempesta tropicale più lunga mai registrata finora ed ha accumulato così tanta energia come mai nessun altro ciclone era riuscito a fare prima.  

Il ciclone «Freddy» lo conferma: le catastrofi climatiche nel sud globale generano danni e perdite sempre più grandi. «I Paesi con un basso reddito sono più vulnerabili alle conseguenze negative della crisi climatica, ad esempio quando mancano i soldi per adattarsi al cambiamento climatico», spiega Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, il centro di competenza svizzero per la politica di sviluppo e di cooperazione internazionale. «L'ultimo rapporto mondiale sul clima mostra che, in caso di uno stesso evento meteorologico estremo, il numero di morti in una regione vulnerabile è 15 volte superiore rispetto a una regione ben adattata, come la Svizzera».

La Svizzera ha la responsabilità di contribuire in modo adeguato al contenimento del riscaldamento climatico. Il confronto delle emissioni annue pro capite di gas serra causate dal consumo mostra inequivocabilmente la discrepanza tra la Svizzera (14 tCO2) e le nazioni più colpite, come il Malawi (0.1 tCO2), il Mozambico (0.3 tCO2) o il Madagascar (0.1 tCO2).
 

Per la protezione della Svizzera e del sud globale

La Legge clima sancisce gli obiettivi per ridurre a zero le emissioni elvetiche entro il 2050. «Questo è il minimo che la Svizzera deve raggiungere», afferma Bernard DuPasquier, vicedirettore di HEKS/EPER: «Un contributo davvero equo alla protezione del clima significherebbe che la Svizzera avanzi ancor più velocemente». Franziska Lauper, direttrice di Terre des Hommes Svizzera, aggiunge: «Dobbiamo agire subito, affinché le generazioni future – qui da noi, ma pure nel sud del mondo – non debbano patirne ancora le conseguenze».

Per questo è fondamentale il dimezzamento delle emissioni previsto dalla legge entro il 2030. In effetti, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) insiste sul fatto che si debbano adottare misure di protezione del clima più incisive ancora in questo decennio, per evitare il superamento del limite di 1,5 gradi. «Il limite di 1,5 gradi per il riscaldamento globale non è stato scelto in modo arbitrario, ma si fonda su basi scientifiche ed è sancito dall’Accordo sul clima di Parigi», ricorda Melchior Lengsfeld, direttore di Helvetas, che aggiunge: «Le conseguenze di ogni ulteriore aumento sarebbero devastanti, in particolare per le popolazioni del sud globale».

Il rapporto dell’IPCC mostra anche le possibilità esistenti per raggiungere la neutralità climatica. «Ci vuole una rapida decarbonizzazione, anche in Svizzera. Tecnicamente ciò sarebbe fattibile già da molto tempo. Dobbiamo porre fine all’uso di energie fossili, il più presto possibile», sostiene Bernd Nilles, direttore di Azione Quaresimale. Peter Lack, direttore di Caritas Svizzera, aggiunge: «La legge prevede che la protezione climatica venga attuata in maniera socialmente compatibile. Ciò è importante, poiché così può essere sostenuta anche da persone con un reddito basso e beneficerebbe quindi di un appoggio più ampio».


Per una maggior sicurezza alimentare ed energetica

La protezione del clima è davvero fondamentale per la sicurezza alimentare. «Il rapporto mondiale sul clima dimostra che, in generale, la produttività agricola diminuisce con il riscaldamento climatico. La produzione di cibo sano e variato, in quantità sufficiente, diventa più difficile a causa della crescente siccità e dell’imprevedibilità del tempo – sia per noi, sia soprattutto per le piccole famiglie contadine dei Paesi poveri», sottolinea Markus Allemann, direttore di SWISSAID. «L’alimentazione è però anche una parte della soluzione, se ci nutriamo in modo più ecologico e rispettoso del clima».

Un «Sì» alla Legge clima non solo è importante per la sicurezza dell’approvvigionamento e per l’ottenimento delle nostre fonti di sussistenza, ma è anche un’opportunità per dare un segnale alla comunità mondiale: il popolo svizzero prende sul serio la crisi climatica. «Con le molteplici crisi attuali e le catastrofi climatiche sempre più violente nel sud del mondo è importante che, con un «Sì» alla protezione del clima, diamo anche un segno della nostra solidarietà», riassume Felix Gnehm, direttore di Solidar Suisse. «Vogliamo una transizione giusta verso un mondo rispettoso del clima e questo implica la protezione del clima in Svizzera».


Per ulteriori informazioni:
Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, +41 31 390 93 30
Delia Berner, Esperta di politica climatica, Alliance Sud, +41 77 432 57 46
Marco Fähndrich, Responsabile media e comunicazione, Alliance Sud, +41 79 374 59 73