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Afghanistan: noi non ci arrendiamo

21.03.2022, Cooperazione internazionale

Con i talebani in Afghanistan sono tornati fame, freddo e disperazione. Ma ci sono anche segni di resistenza e di speranza. Ecco la testimonianza diretta di una donna afgana a Kabul, che rimane anonima per ragioni di sicurezza.

Afghanistan: noi non ci arrendiamo

Afghanische Kinder, die als Strassenverkäufer in Kabul arbeiten, erhalten am 20. Februar 2022 kostenlosen Unterricht bei einer afghanischen Hochschulabsolventin.
© Keystone / EPA

Depressa, disperata, impotente. Ecco come mi sono sentita nei momenti peggiori, i primi due mesi dopo l’ascesa al potere dei talebani. Certo, sono sempre disperata. Ma cerco anche di motivarmi e di farmi coraggio. E ho di nuovo più energia rispetto all’autunno. In quel periodo, dominavano lo shock, la collera, il caos e la paura. Una grande paura per ciò che sarebbe potuto accadere.

La presa del potere da parte dei talebani non è stata veramente una sorpresa. Sapevamo che poteva succedere. E noi, donne, siamo sempre state coscienti in questi ultimi anni che non dovevamo considerare le nostre libertà come evidenti e che i nostri diritti avrebbero potuto, in qualsiasi momento, essere nuovamente cancellati. È senz’altro per questo motivo che la maggior parte delle ragazze andava a scuola con molto entusiasmo e motivazione, e che la maggioranza delle donne lavoravano con passione. Poi, quando in agosto sono ritornati i talebani, specialmente le donne sono state di colpo private di tutte le loro prospettive.

Atmosfera di paura, tristezza e collera

Il giorno in cui tutto è ricominciato, ho portato le mie nipoti all’asilo il mattino. Come la maggior parte delle persone qui a Kabul, vivo in una casa, circondata da una grande famiglia: mia madre, due fratelli, una cognata, tre nipotine e un nipote. Le bambine hanno tra i cinque e i sette anni. Perciò le ho accompagnate all’asilo, che dista una decina di minuti da casa nostra, nel centro cittadino di Kabul. Nelle strade regnava una strana atmosfera, ma non sospettavo ancora nulla di ciò che sarebbe successo.

Sulla via del ritorno, ho voluto prelevare del denaro che dovevo portare a mia madre, ospedalizzata a seguito d’una grave infezione dovuta al Covid. Ma dal distributore non è uscita nessuna banconota. Sono quindi rientrata a casa. Ed è lì che ho sentito la notizia che avevano raggiunto la periferia di Kabul, che quindi erano venuti e avevano liberato i prigionieri. La paura e il panico si sono impossessati della popolazione, provocando rapidamente un caos enorme nelle strade. Per fortuna sono riuscita a fare in modo che qualcuno andasse a prendere le mie nipoti all’asilo. Poi un sentimento di paura è calato improvvisamente sulla città. Il passato ci aveva mostrato ciò che potevamo aspettarci dai talebani. 

Durante il primo mese, siamo restati seduti a casa, piangevamo spesso o discutevamo sul chi avrebbe potuto rifugiarsi e dove. E anche sul come l’avrebbe fatto. Le evacuazioni sono state caotiche e moltissime persone hanno perso il loro lavoro in un batter d’occhio: ex impiegati del governo e alcuni collaboratori di ONG, che erano numerosi a Kabul, ma anche una gran parte delle insegnanti, poiché le bambine non hanno più il diritto d’andare a scuola a partire dal settimo anno. Le insegnanti sono quindi diventate superflue. Nessuno si sentiva più al sicuro, non sapevamo nemmeno se si potesse uscire in strada e con quale abbigliamento.

Un mese dopo la presa del potere, ho festeggiato i miei 41 anni. Allora siamo usciti per la prima volta. Accompagnati da un sentimento strano, di quasi normalità, ma nulla era più come prima. Ogni membro, o quasi, della mia famiglia ha perso il proprio lavoro. Una delle mie cugine lavora ancora come medico, tuttavia è costretta a farlo con una tenuta conservatrice indosso e il suo salario è stato ridotto d’un terzo. Io finanzio una gran parte della famiglia. Ma non sappiamo per quanto tempo ciò basterà ancora. In Afganistan la miseria aumenta di giorno in giorno, milioni di persone non hanno né cibo né materiale di riscaldamento per i prossimi giorni.

La vita s’è tramutata in lotta

Come donna, posso spostarmi in pubblico coprendomi il capo, come avevo già fatto in passato. Accompagno di nuovo le mie nipoti all’asilo e ogni tanto le porto al parco giochi. Ma la vita non è più una vita, s’è trasformata in una lotta. Non abbiamo prospettive, ci battiamo per sopravvivere. Alcune settimane fa, una giovane donna è stata uccisa da un proiettile, a un posto di blocco, così, senza motivo, da dietro. È inquietante ed estremamente destabilizzante. Perché lo fanno? Chi sarà la prossima vittima?

Già in due occasioni, ho visto per strada dei gruppi di talebani infervorati che s’attaccavano tra di loro e che si son messi a sparare. Si sente parlare di esecuzioni semplicemente perché qualcuno ha scritto un commento giudicato inopportuno su Facebook. Ci si domanda allora perché la Norvegia e la Svizzera hanno invitato i talebani a dei colloqui? Alcune persone si sentono abbandonate. Perché non ci si rende conto che si tratta di terroristi? Cosa sa la gente in questi Paesi delle nostre esigenze? Non giudico nessuno, ma constato che le persone esterne non possono capire la nostra situazione. I negozi e i ristoranti chiudono perché non sono più redditizi, la miseria è enorme, le prospettive non sono per niente buone. Tutti soffrono. E ignoriamo se e quando la situazione migliorerà.

Parlare in famiglia fa bene

Certo, avrei avuto la possibilità di lasciare il Paese, proprio all’inizio, perché ho un passaporto canadese. Ma non riuscivo a decidermi, non volevo abbandonare la mia famiglia; non ce l’avrei fatta. Ma capisco tutti quelli che son fuggiti. Anche noi ci domandiamo se possiamo ancora partire, in un modo o nell’altro, ad esempio verso la Turchia. Ma solo come un’unica famiglia. Non lasciamo nessuno indietro!

Nel momento in cui vi parlo, dovrei insegnare l’inglese. Ho infatti deciso di dare dei corsi online alle donne della famiglia che ne sono interessate. Una cugina si connette dall’Iran e un’altra da Londra, dove s’è rifugiata con la sua famiglia, e poi partecipano pure alcune altre donne della famiglia di Kabul. Tutte vogliono imparare l’inglese e non restare passive. Ci sono molte donne in Afganistan che s’impegnano in un modo o nell’altro, opponendosi così al regime. Non ci lasciamo andare. 

Ovviamente speriamo che a noi donne, grazie alla pressione internazionale, non venga tolto tutto, e che le università e le scuole riaprano ovunque in marzo, come promesso. Ma non sono molto ottimista. Sono soprattutto le mie nipoti che mi motivano. Ogni mattino, quando le vedo, faccio di tutto per farle sorridere. Vederle contente rende felice anche me. Questo mi dà molta forza. E in famiglia parliamo e discutiamo costantemente di ciò che accade qui. Ci fa bene. Ci fidiamo e ci sosteniamo reciprocamente. E nulla e nessuno potrà distruggere questo!

(Traduzione: Fabio Bossi)

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