L’Africa, continente chiave della transizione energetica
02.10.2025,
Giustizia climatica
In Africa è ora di promuovere l’estrazione responsabile di materie prime per permettere al continente di beneficiare delle sue riserve di minerali di transizione, migliorare le condizioni di vita delle sue cittadine e dei suoi cittadini e ridurre al minimo le ripercussioni negative dell’attività estrattiva. Di Emmanuel Mbolela
Le mine di Rubaya al centro del conflitto tra Congo e Ruanda.
La transizione energetica mondiale è una conditio sine qua non nella lotta al riscaldamento climatico globale ed è la chiave per garantire un futuro energetico sostenibile alle prossime generazioni. Da anni il tema è protagonista dei dibattiti politici e pubblici sia nel Nord sia nel Sud del mondo. In questo contesto il continente africano svolge un ruolo fondamentale, trattandosi senza dubbio del più importante pozzo di assorbimento del carbonio a livello globale grazie alla sua straordinaria biodiversità. Inoltre, l’Africa è ricca di svariati minerali di transizione (rame, cobalto, litio, nichel, coltan, tantalio), indispensabili in tutto il mondo per la produzione di batterie per veicoli elettrici, lo stoccaggio di energie rinnovabili e le tecnologie innovative. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), la domanda di questi minerali aumenterà da quattro a sei volte entro il 2040.
Cosa rappresentano queste previsioni per il continente africano stesso, che ha in serbo e fornisce tali materie prime strategiche? L’Africa continuerà ad essere spremuta delle sue materie prime oppure conoscerà un rapido sviluppo grazie al processo di transizione energetica?
L’Africa è sempre stata al centro dei grandi sconvolgimenti che hanno portato all’industrializzazione, ma pagando un caro prezzo.
La storia si ripete
Se guardiamo al passato, noteremo che l’Africa è sempre stata al centro dei grandi sconvolgimenti che hanno portato all’industrializzazione, ma pagando un caro prezzo. All’epoca della tratta degli schiavi, africane e africani venivano rapiti con la forza e deportati in America su navi in condizioni disumane per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e cotone. Un altro capitolo oscuro è quello del caucciù, utilizzato per la produzione di gomme per automobili. L’impiego di questo materiale ha sì rivoluzionato l’industria automobilistica, ma la sua estrazione ha lasciato enormi cicatrici nei Paesi africani produttori. Indelebili nella memoria collettiva rimarranno i metodi atroci, tra mani mozzate e donne e bambini presi in ostaggio, con cui il re del Belgio, Leopoldo II, costrinse la popolazione congolese a estrarre una maggiore quantità di quest’oro bianco, solamente per arricchirsi personalmente e far prosperare il regno belga. Senza le materie prime dall’Africa, la rivoluzione industriale del XX secolo non sarebbe mai avvenuta. E che dire dell’uranio estratto nel sud della Repubblica democratica del Congo, utilizzato per realizzare la bomba atomica che pose fine alla seconda guerra mondiale?
Ebbene, ancora oggi le risorse nel continente africano sono molto ricercate, in particolare le risorse minerarie. Lo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche e di comunicazione dipende dalle materie prime africane, soprattutto dal coltan, che viene impiegato principalmente per la fabbricazione di smartphone e laptop. Malgrado la ricchezza della sua terra, a livello di sviluppo globale paradossalmente l’Africa chiude la classifica. La sua gente è spinta a correre rischi altissimi alla ricerca dell’eldorado. A migliaia muoiono nel deserto o in alto mare, sotto lo sguardo complice e colpevole di chi avrebbe i mezzi per salvarli, ma si rifiuta di farlo con il pretesto che avrebbe un effetto calamita.
Emmanuel Mbolela è nato nel 1973 a Mbuji-Mayi, nel centro della Repubblica democratica del Congo. Ha studiato economia nella sua città natale, ma ha dovuto lasciare il Paese nel 2002 per motivi politici. Vive nei Paesi Bassi dal 2008.
È attivista e sostenitore dei diritti fondamentali dei migranti nonché autore del libro “Rifugiato. Un’odissea africana”, Milano: Agenzia X. È il fondatore di un’associazione per i rifugiati e le comunità migranti e l’iniziatore di un rifugio di emergenza che ospita temporaneamente le donne migranti e i loro bambini.
L'Africa, ancora una volta, risponde presente: presentandosi quale soluzione al riscaldamento globale, in quanto pozzo di assorbimento del carbonio, nonché fornitrice di materie prime indispensabili alla transizione energetica.
Oggi gli occhi sono nuovamente puntati sull’Africa. E l’Africa, ancora una volta, risponde presente. Come ha sempre fatto nelle svolte storiche dell’industrializzazione, presentandosi questa volta quale soluzione al riscaldamento globale, in quanto pozzo di assorbimento del carbonio, nonché fornitrice di materie prime indispensabili alla transizione energetica.
Ma se le rivoluzioni industriali del passato hanno consentito lo sviluppo del Nord migliorando la qualità di vita della popolazione, in Africa non hanno lasciato che morte e distruzione. Basti pensare alla Repubblica democratica del Congo, devastata da ormai 30 anni da una guerra di spopolamento e ricolonizzazione della parte orientale del Paese, sede di enormi miniere di minerali di transizione. Questo conflitto armato, nonostante il Paese stesso non abbia un’industria d’armamento, ha già causato milioni di morti e centinaia di migliaia di persone sfollate interne e rifugiate. Le violenze sessuali su donne e bambini vengono utilizzate su larga scala come arma di guerra: la popolazione viene costretta ad abbandonare le proprie città e i propri villaggi, lasciando la propria terra, che viene immediatamente sfruttata per l’estrazione di ulteriori minerali.
Mentre la domanda di minerali esplode, assistiamo a pratiche predatorie e illegali ai fini della loro estrazione: nelle miniere lavorano bambini, i conflitti armati vengono provocati in maniera mirata e vengono firmati accordi senza la minima trasparenza non solo da multinazionali, ma anche da Stati. A febbraio 2024, ad esempio, l’Unione europea ha negoziato un accordo con il Ruanda sulla commercializzazione di materie prime critiche, pur sapendo che i metalli offerti dal Ruanda sul mercato internazionale provenivano esclusivamente da saccheggi nella Repubblica democratica del Congo, con cui il Ruanda era in conflitto armato.
Cobalto proveniente da una regione nel Congo sotto il controllo di Glencore.
ll 27 giugno a Washington, con la mediazione del governo Trump, è stato firmato un accordo di pace tra la Repubblica democratica del Congo e il Ruanda. L’accordo, preceduto da negoziati tra le autorità congolesi e americane sull’estrazione di materie prime rare, è in linea con la logica del presidente Trump di barattare la pace con minerali strategici. È il governo del business man: Trump si dice disposto a porre fine all’aggressione del confinante Ruanda contro la Repubblica democratica del Congo a condizione che quest’ultima cooperi con gli Stati Uniti nell’estrazione delle risorse. È evidente che questo accordo, di cui Donald Trump tanto si vanta, altro non è che un canale d’accesso a minerali essenziali per gli Stati Uniti.
Le multinazionali non sono interessate a creare posti di lavoro a lungo termine né a pratiche minerarie sostenibili.
Un accordo del genere porterà inevitabilmente a una pace senza pane e a conflitti tra le grandi potenze sul suolo africano. Tanto più che le multinazionali che potrebbero insediarsi in Congo sono guidate dal principio della massimizzazione del profitto e quindi esporterebbero le materie prime estratte per lavorarle nei rispettivi Paesi. Non sono infatti interessate a creare posti di lavoro a lungo termine né a pratiche minerarie sostenibili.
Con il conflitto tra le grandi potenze che sta nascendo in territorio congolese – in particolare tra Unione Europea e Stati Uniti – si potrebbe ripetere quanto accaduto in Congo-Brazzaville nel 1997. In quella situazione, il governo democraticamente eletto fu rovesciato perché il presidente Lissouba aveva firmato accordi di estrazione petrolifera con imprese americane, a scapito di quelle francesi che avevano sede nel Paese da decenni. Queste ultime non esitarono allora a riarmare l’ex presidente Sassou-Nguesso, con l’obiettivo di rovesciare Pascal Lissouba. Scoppiò una guerra che causò centinaia di migliaia di vittime e altrettante persone sfollate interne e rifugiate. In seguito fu etichettata guerra etnica.
Un altro esempio è il mega-progetto lanciato dagli Stati Uniti e sostenuto dall’UE per costruire un collegamento ferroviario tra la Repubblica democratica del Congo e lo Zambia fino al porto di Lobito in Angola. Il progetto, inaugurato in Angola dall’ex presidente USA Joe Biden negli ultimi giorni del suo mandato, mira ad accorciare le vie di trasporto delle materie prime. Ricorda i progetti dell’epoca coloniale, quando strade e ferrovie non venivano costruite con lo scopo di collegare tra loro e sviluppare le colonie, ma per collegare le zone o le regioni minerarie con gli oceani e i mari e facilitare così il trasporto delle materie prime alle metropoli.
I giovani chiedono riforme che pongano fine al saccheggio, affinché le materie prime smettano di essere una maledizione e portino prosperità e benessere alla popolazione
La giovane popolazione africana, che assiste ogni giorno alla partenza di migliaia di container pieni di queste ricchezze e li vede lasciare il continente per destinazioni lontane (Europa, USA, Canada, Cina...), chiede profonde riforme. Riforme che pongano fine al saccheggio, affinché le materie prime smettano di essere una maledizione e portino prosperità e benessere alla popolazione. In particolare, i profitti derivanti dalle riserve strategiche di minerali di transizione dovrebbero essere massimizzati a beneficio dei Paesi estrattori, in modo che possano migliorare le condizioni di vita e si riduca l’impatto sociale e ambientale dell’attività estrattiva.
Responsabilizzare le imprese
È quindi giunto il momento di estrarre dai cassetti delle Nazioni Unite le misure internazionali pertinenti, come i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, le Linee guida OCSE per le imprese multinazionali e le linee guida del gruppo di esperti del Segretario generale delle Nazioni Unite sui minerali critici per la transizione energetica.
Se la transizione energetica vuole essere giusta ed equa, dovrebbe pagare chi inquina e non chi ne subisce le spese.
Impegni come l’iniziativa per multinazionali responsabili in Svizzera hanno urgente bisogno di sostegno. Il successo di iniziative simili dipende anche da una sufficiente sensibilizzazione della popolazione nei confronti dei drammi umani e dei danni ambientali provocati dall’industria mineraria in Africa. Tali iniziative sostengono la società civile nei Paesi africani, la quale si impegna giorno e notte ai fini di una maggiore responsabilità sociale e ambientale delle imprese minerarie.
Quando si tratta di stipulare contratti sull’estrazione mineraria, spesso manca trasparenza e le comunità locali ne rimangono all’oscuro. Qui le multinazionali del settore si trovano in una chiara posizione di potere, e ovviamente la sfruttano appieno per calpestare i diritti della popolazione ed eludere qualsiasi buona prassi. Vengono ignorate le regole fondamentali della salute pubblica e lesi i diritti della popolazione locale. Con le loro pratiche causano inquinamento atmosferico e avvelenano le acque, provocando malattie spesso sconosciute alla popolazione, mietendo così vite umane e aggravando ulteriormente la crisi della salute pubblica.
La popolazione africana è ancora in attesa che i Paesi del Nord ne riconoscano il ruolo. Un ruolo, quello dell’Africa, che merita finanziamenti a favore del clima e compensazioni per gli sforzi richiesti alla popolazione in termini di tutela dell’ambiente. Se la transizione energetica vuole essere giusta ed equa, dovrebbe pagare chi inquina e non chi ne subisce le spese.
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