Comunicato stampa

COP30: bilancio modesto a Belém

22.11.2025, Giustizia climatica

Dopo un'aspra lotta per ottenere progressi in materia di giustizia sociale e di abbandono equo delle energie fossili, la COP30 si conclude a Belém con un risultato contrastante. La Svizzera si è impegnata a perseguire obiettivi ambiziosi, ma è in ritardo sia nella protezione del clima sul proprio territorio, sia nel finanziamento della lotta ai cambiamenti climatici all'estero.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

+41 31 390 93 42 delia.berner@alliancesud.ch
COP30: bilancio modesto a Belém

© Alliance Sud

Per quanto riguarda l'abbandono delle energie fossili, il risultato è deludente e riflette la difficile situazione mondiale con il rafforzamento dei sostenitori delle fonti energetiche fossili. Uno svantaggio decisivo per concordare piani di abbandono più ambiziosi è ancora l'enorme deficit di finanziamento nel Sud globale. Ciò è legato all'ingiustizia che il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile del 48% delle emissioni, mentre la metà più povera ne produce solo il 12%, ma è la più colpita dalla crisi climatica.

Grazie anche al grande impegno di molti paesi del Sud del mondo e della società civile, alla COP30 è stato possibile concordare un meccanismo di «transizione giusta» volto a garantire la giustizia sociale nelle misure di protezione del clima. Si tratta di un elemento importante per rendere le misure di protezione del clima socialmente eque nei prossimi anni. Il meccanismo mira a sostenere i lavoratori, le comunità e i paesi nei loro sforzi, ad esempio migliorando la cooperazione internazionale e lo scambio di conoscenze.

Delia Berner, esperta di politica climatica internazionale presso Alliance Sud, afferma:

•    «Non basta impegnarsi una volta all'anno alla COP per l'abbandono delle energie fossili. Il Consiglio federale deve dare priorità alla protezione del clima tutto l'anno: nella decarbonizzazione della Svizzera, ma anche nei numerosi contatti diplomatici con i grandi produttori di emissioni».

•   «L'accordo contiene la chiara aspettativa di triplicare il sostegno ai paesi del Sud del mondo per l'adattamento ai cambiamenti climatici. A tal fine, la Svizzera deve impiegare più fondi pubblici: la Svizzera dovrebbe riservare con urgenza importi adeguati dai proventi del sistema di scambio delle quote di emissione».

Bettina Dürr, esperta di clima di Azione Quaresimale e osservatrice sul posto:

•    «La COP30 non è riuscita a concretizzare l'attuazione dell'obiettivo di finanziamento per il clima di Baku – 300 miliardi di dollari all'anno entro il 2035. I paesi industrializzati non hanno un piano per aumentare i finanziamenti internazionali per il clima, nonostante siano responsabili di farlo secondo l'Accordo di Parigi».

•    «La Svizzera nutre grandi ambizioni in materia di protezione del clima, ma ogni anno ignora il fatto che ciò richiede anche risorse finanziarie. Il Consiglio federale si è recato a Belém senza aver deciso come attuare in Svizzera l'obiettivo finanziario di Baku. Chiediamo che la Svizzera contribuisca con almeno l'1% dei 300 miliardi di dollari all'anno».

David Knecht, specialista in giustizia climatica di Azione Quaresimale e osservatore sul posto:

•     «Le misure di protezione del clima devono mettere al centro le persone. La COP30 ci avvicina a questo obiettivo con il «Just Transition Mechanism». Dobbiamo festeggiare! Allo stesso tempo, la comunità internazionale non è riuscita a colmare il divario evidente tra l'obiettivo dell'Accordo di Parigi e le ambizioni climatiche dei Paesi. La COP30 non fornisce un piano completo su come i Paesi possano accelerare misure di protezione del clima socialmente eque e finanziate. Così si spreca tempo prezioso».

•    «La Svizzera deve ora promuovere ancora di più l'attuazione a livello nazionale per dare segnali positivi nei prossimi negoziati. Ciò significa anche che la Svizzera non deve fare affidamento sulle compensazioni estere per la riduzione delle emissioni nazionali. Dobbiamo sfruttare urgentemente il potenziale di riduzione a livello nazionale per promuovere la protezione del clima».


Per ulteriori informazioni:

Alliance Sud, Delia Berner, esperta di politica climatica internazionale, tel. +41 77 432 57 46 (tramite WhatsApp), delia.berner@alliancesud.ch
 

Alliance Sud, Marco Fähndrich, responsabile dei media, tel. 079 374 59 73, marco.faehndrich@alliancesud.ch 
 

Azione Quaresimale, Bettina Dürr, specialista in giustizia climatica, tel. +41 79 745 43 53 (tramite Signal, WhatsApp o Threema), duerr@fastenaktion.ch  
 

Azione Quaresimale, David Knecht, specialista in giustizia climatica, tel. +41 76 436 59 86 (tramite Signal o WhatsApp), knecht@fastenaktion.ch  
 

Comunicato stampa

COP30: la Svizzera deve accelerare la protezione del clima invece di delocalizzarla

06.11.2025, Giustizia climatica

La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici COP30 inizierà a Belém il 10 novembre. I nuovi piani climatici della comunità degli Stati evidenziano che, a dieci anni dalla firma dell’Accordo di Parigi, gli sforzi globali a tutela del clima e il sostegno finanziario ai Paesi più poveri sono ancora insufficienti. Anche la Svizzera deve fare molto di più a livello nazionale per consentire una transizione energetica più rapida, equa e socialmente responsabile.

Marco Fähndrich
Marco Fähndrich

Responsabile della comunicazione e dei media

+41 31 390 93 34 marco.faehndrich@alliancesud.ch
COP30: la Svizzera deve accelerare la protezione del clima invece di delocalizzarla

Conferenza a due passi dalla catastrofe: nei dintorni della COP30, le foreste pluviali, i territori indigeni e le località costiere subiscono pesantemente la crisi climatica. Manifesto pubblicitario per la conferenza sul clima a Belém, in Brasile.
© Keystone/AP Photo/Jorge Saenz

Il mondo scientifico parla chiaro: non siamo a buon punto. I nuovi obiettivi climatici nazionali presentati dagli Stati membri ancora una volta non sono sufficienti a limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius. «La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in Brasile deve quindi inviare un chiaro messaggio sul fatto che la comunità internazionale è pronta a invertire la rotta. A tale scopo è necessario un abbandono rapido ed equo dei combustibili fossili», afferma Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud.

Abbandono rapido dei combustibili fossili perché occorre contenere il riscaldamento globale e prevenire conseguenze e danni ancora peggiori. Transizione energetica equa perché solo così può funzionare in modo sostenibile. «Per chiudere le centrali elettriche a carbone è necessario coinvolgere le parti sociali tanto quanto è necessario collaborare con le comunità indigene per proteggere le foreste pluviali», sostiene Andreas Missbach. «Il sistema economico e finanziario deve essere inoltre più equo, in modo che più Paesi possano permettersi di investire nelle infrastrutture di cui hanno bisogno». In inglese per questo concetto si è affermato il termine just transition (transizione giusta).

Richieste di Alliance Sud

-    La Svizzera deve impegnarsi affinché alla COP30 venga adottato un piano di accelerazione delle misure a protezione del clima. Deve adoperarsi affinché sia richiesto che tutti i Paesi rafforzino i piani climatici presentati quest’anno, in modo che gli sforzi globali siano sufficienti. 
-    La Svizzera deve porsi obiettivi più elevati e adottare le misure necessarie per raggiungerli.
-    La Svizzera deve impegnarsi a favore di una maggiore chiarezza riguardo ai modi in cui dovranno essere raggiunti gli obiettivi di finanziamento concordati alla COP29. Per contribuire equamente al finanziamento internazionale a tutela del clima la Svizzera deve stanziare tre miliardi di dollari all’anno entro il 2030. 
-    Alla COP30, la Svizzera deve inoltre sostenere un meccanismo forte (Belém Action Mechanism) per garantire che i piani e le misure climatiche siano giusti e socialmente responsabili.

Lo scambio di CO2 non è la soluzione 

In una nuova analisi Alliance Sud e Azione Quaresimale dimostrano che la compensazione delle emissioni di CO2 all’estero non porta a una maggiore protezione del clima in generale, malgrado questa sia una delle condizioni per lo scambio di CO2 conformemente all’Accordo di Parigi. «La politica svizzera vuole risparmiare e delocalizzare gran parte della riduzione delle emissioni, invece di impiegare l’articolo 6 per una maggiore protezione del clima e per promuovere progetti trasformativi a livello tecnologico», afferma David Knecht, responsabile del programma per la giustizia climatica di Azione Quaresimale e co-coordinatore del gruppo di lavoro «Ambition» di Climate Action Network International. In questo contesto, la politica e la società sono influenzate dalla lobby del petrolio che utilizza i fondi delle compagnie petrolifere internazionali per frenare la transizione energetica in Svizzera. Così facendo, la Svizzera agisce in direzione contraria allo scopo stesso dei meccanismi di mercato di Parigi.

--> Nota: Delia Berner, esperta in clima di Alliance Sud, è membro della delegazione negoziale ufficiale della Svizzera in qualità di rappresentante della società civile e sarà a Belém dal 10 novembre.
 

 

Per ulteriori informazioni:


Alliance Sud, Marco Fähndrich, responsabile dei media, tel. 079 374 59 73, marco.faehndrich@alliancesud.ch 
 

Azione Quaresimale, Bettina Dürr, specialista in giustizia climatica, tel. +41 79 745 43 53 (tramite Signal, WhatsApp o Threema), duerr@fastenaktion.ch  
Bettina Dürr osserverà a Belém dal 7 novembre i negoziati sul bilancio globale (Global Stocktake), la transizione giusta (Just Transition) e il finanziamento climatico.
 

Azione Quaresimale, David Knecht, specialista in giustizia climatica, tel. +41 76 436 59 86 (tramite Signal o WhatsApp), knecht@fastenaktion.ch  
David Knecht osserverà a Belém dal 7 novembre i negoziati sulla mitigazione e gli NDC nonché sui meccanismi di compensazione del CO2.

 

Cosa si aspettano dalla COP30 le nostre organizzazioni?

 

Sonja Tschirren, esperta in clima, SWISSAID
 

«Alla COP30 i sistemi alimentari saranno al centro delle discussioni. Sarà fondamentale tenere in considerazione la popolazione rurale del Sud del mondo, che necessita di un adeguato finanziamento a favore del clima da parte della Svizzera, nonché di sostegno per i danni e le perdite. Solo in questo modo la transizione verso sistemi di produzione agroecologici adattati ai cambiamenti climatici potrà riuscire. Anche le multinazionali che operano a livello locale devono essere chiamate in causa – i mercati volontari del carbonio non risolveranno il problema.»

 

 

Bettina Dürr, responsabile del programma per la giustizia climatica, Azione Quaresimale e membro del comitato direttivo dell’Alleanza climatica Svizzera:

«Alla COP28 di Dubai, i Paesi hanno deciso di affrontare la transizione energetica attraverso l’abbandono dei combustibili fossili. Nei nuovi piani climatici presentati osserviamo che l’abbandono graduale dei combustibili fossili non è ancora definito con sufficiente chiarezza. La Svizzera dovrebbe darsi una scadenza entro la quale attuare la decisione di Dubai.» 

 

Christina Aebischer, esperta in clima, Helvetas:

««Ci aspettiamo che il governo svizzero si adoperi con ogni mezzo e la dovuta credibilità per garantire il rispetto dell’Accordo di Parigi sul clima e si batta contro l’indebolimento della cooperazione multilaterale. Ci sono innumerevoli Blatten nel mondo. La nostra solidarietà nei confronti delle persone che stanno perdendo tutto a causa dei cambiamenti climatici e dei crescenti rischi naturali e che devono adattarsi alle nuove circostanze non deve fermarsi ai confini nazionali.»

 

Sarah Steinegger, responsabile Servizio Politica di sviluppo e climatica, Caritas Svizzera:

«Quale Paese tra i più ricchi, la Svizzera non può più scaricare la propria responsabilità climatica sui Paesi più poveri e sulle generazioni future: deve agire ora.»

 

Johannes Wendland, specialista in giustizia climatica, HEKS/EPER:

«Nei negoziati sul finanziamento a favore del clima non è questione di generosità, ma di responsabilità. I costi della crisi climatica devono essere sostenuti dai maggiori inquinatori e non dalle persone che hanno contribuito meno a causare il problema.»

 

Klaus Thieme, responsabile dei programmi internazionali, Solidar Suisse:

«Nel Sud globale, la crisi climatica sta aggravando la situazione di povertà e insicurezza. I working poor sono particolarmente colpiti da inondazioni, mezzi di sussistenza distrutti e condizioni di lavoro precarie. Abbiamo bisogno di posti di lavoro a prova di futuro, sostenibili e a misura d’uomo, che offrano alle persone prospettive reali. La Svizzera deve contribuire equamente affinché la protezione del clima non generi nuove disuguaglianze.»

 

Júlia Garcia, Coordinamento nazionale Brasile, terre des hommes Suisse:

«La gioventù riveste un ruolo centrale nello sviluppo di soluzioni alla crisi climatica. Ne fanno parte i giovani indigeni, perché sono i custodi delle foreste che vengono distrutte dal Nord globale. La voce di queste giovani persone deve essere ascoltata ed esaminata nei negoziati.»

 

Maritz Fegert, responsabile del programma Policy & Advocacy di Biovision:

«La COP30 di Belém offre un’importante opportunità per rafforzare l’agroecologia, un approccio che ha il potenziale per trasformare radicalmente i sistemi alimentari e l’agricoltura. Con opportuni cambiamenti nelle politiche, i sistemi alimentari possono passare dall’essere una delle principali fonti di emissioni di gas serra a diventare una soluzione efficace per la protezione del clima e l’adattamento ai cambiamenti climatici.»

Prospettiva Sud

L’Africa, continente chiave della transizione energetica

02.10.2025, Giustizia climatica

In Africa è ora di promuovere l’estrazione responsabile di materie prime per permettere al continente di beneficiare delle sue riserve di minerali di transizione, migliorare le condizioni di vita delle sue cittadine e dei suoi cittadini e ridurre al minimo le ripercussioni negative dell’attività estrattiva. Di Emmanuel Mbolela

L’Africa, continente chiave della transizione energetica

Le mine di Rubaya al centro del conflitto tra Congo e Ruanda.

© Eduardo Soteras Jalil / Panos Pictures

La transizione energetica mondiale è una conditio sine qua non nella lotta al riscaldamento climatico globale ed è la chiave per garantire un futuro energetico sostenibile alle prossime generazioni. Da anni il tema è protagonista dei dibattiti politici e pubblici sia nel Nord sia nel Sud del mondo. In questo contesto il continente africano svolge un ruolo fondamentale, trattandosi senza dubbio del più importante pozzo di assorbimento del carbonio a livello globale grazie alla sua straordinaria biodiversità. Inoltre, l’Africa è ricca di svariati minerali di transizione (rame, cobalto, litio, nichel, coltan, tantalio), indispensabili in tutto il mondo per la produzione di batterie per veicoli elettrici, lo stoccaggio di energie rinnovabili e le tecnologie innovative. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (IEA), la domanda di questi minerali aumenterà da quattro a sei volte entro il 2040.  

Cosa rappresentano queste previsioni per il continente africano stesso, che ha in serbo e fornisce tali materie prime strategiche? L’Africa continuerà ad essere spremuta delle sue materie prime oppure conoscerà un rapido sviluppo grazie al processo di transizione energetica?

L’Africa è sempre stata al centro dei grandi sconvolgimenti che hanno portato all’industrializzazione, ma pagando un caro prezzo. 

La storia si ripete

Se guardiamo al passato, noteremo che l’Africa è sempre stata al centro dei grandi sconvolgimenti che hanno portato all’industrializzazione, ma pagando un caro prezzo. All’epoca della tratta degli schiavi, africane e africani venivano rapiti con la forza e deportati in America su navi in condizioni disumane per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e cotone. Un altro capitolo oscuro è quello del caucciù, utilizzato per la produzione di gomme per automobili. L’impiego di questo materiale ha sì rivoluzionato l’industria automobilistica, ma la sua estrazione ha lasciato enormi cicatrici nei Paesi africani produttori. Indelebili nella memoria collettiva rimarranno i metodi atroci, tra mani mozzate e donne e bambini presi in ostaggio, con cui il re del Belgio, Leopoldo II, costrinse la popolazione congolese a estrarre una maggiore quantità di quest’oro bianco, solamente per arricchirsi personalmente e far prosperare il regno belga. Senza le materie prime dall’Africa, la rivoluzione industriale del XX secolo non sarebbe mai avvenuta. E che dire dell’uranio estratto nel sud della Repubblica democratica del Congo, utilizzato per realizzare la bomba atomica che pose fine alla seconda guerra mondiale? 

Ebbene, ancora oggi le risorse nel continente africano sono molto ricercate, in particolare le risorse minerarie. Lo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche e di comunicazione dipende dalle materie prime africane, soprattutto dal coltan, che viene impiegato principalmente per la fabbricazione di smartphone e laptop. Malgrado la ricchezza della sua terra, a livello di sviluppo globale paradossalmente l’Africa chiude la classifica. La sua gente è spinta a correre rischi altissimi alla ricerca dell’eldorado. A migliaia muoiono nel deserto o in alto mare, sotto lo sguardo complice e colpevole di chi avrebbe i mezzi per salvarli, ma si rifiuta di farlo con il pretesto che avrebbe un effetto calamita.

 

Emanuel Mbolela lächelt vor gelb-grünlich leuchtenden Laubbäumen in die Kamera. Er trägt ein hellviolettes Hemd und ein Pulli mit Kragen.

Emmanuel Mbolela è nato nel 1973 a Mbuji-Mayi, nel centro della Repubblica democratica del Congo. Ha studiato economia nella sua città natale, ma ha dovuto lasciare il Paese nel 2002 per motivi politici. Vive nei Paesi Bassi dal 2008. 
 

È attivista e sostenitore dei diritti fondamentali dei migranti nonché autore del libro “Rifugiato. Un’odissea africana”, Milano: Agenzia X. È il fondatore di un’associazione per i rifugiati e le comunità migranti e l’iniziatore di un rifugio di emergenza che ospita temporaneamente le donne migranti e i loro bambini.
 

L'Africa, ancora una volta, risponde presente: presentandosi quale soluzione al riscaldamento globale, in quanto pozzo di assorbimento del carbonio, nonché fornitrice di materie prime indispensabili alla transizione energetica. 

Oggi gli occhi sono nuovamente puntati sull’Africa. E l’Africa, ancora una volta, risponde presente. Come ha sempre fatto nelle svolte storiche dell’industrializzazione, presentandosi questa volta quale soluzione al riscaldamento globale, in quanto pozzo di assorbimento del carbonio, nonché fornitrice di materie prime indispensabili alla transizione energetica. 
 

Ma se le rivoluzioni industriali del passato hanno consentito lo sviluppo del Nord migliorando la qualità di vita della popolazione, in Africa non hanno lasciato che morte e distruzione. Basti pensare alla Repubblica democratica del Congo, devastata da ormai 30 anni da una guerra di spopolamento e ricolonizzazione della parte orientale del Paese, sede di enormi miniere di minerali di transizione. Questo conflitto armato, nonostante il Paese stesso non abbia un’industria d’armamento, ha già causato milioni di morti e centinaia di migliaia di persone sfollate interne e rifugiate. Le violenze sessuali su donne e bambini vengono utilizzate su larga scala come arma di guerra: la popolazione viene costretta ad abbandonare le proprie città e i propri villaggi, lasciando la propria terra, che viene immediatamente sfruttata per l’estrazione di ulteriori minerali. 
 

Mentre la domanda di minerali esplode, assistiamo a pratiche predatorie e illegali ai fini della loro estrazione: nelle miniere lavorano bambini, i conflitti armati vengono provocati in maniera mirata e vengono firmati accordi senza la minima trasparenza non solo da multinazionali, ma anche da Stati. A febbraio 2024, ad esempio, l’Unione europea ha negoziato un accordo con il Ruanda sulla commercializzazione di materie prime critiche, pur sapendo che i metalli offerti dal Ruanda sul mercato internazionale provenivano esclusivamente da saccheggi nella Repubblica democratica del Congo, con cui il Ruanda era in conflitto armato.

Cobalto proveniente da una regione nel Congo sotto il controllo di Glencore. 

© Pascal Maitre / Panos Pictures

 

ll 27 giugno a Washington, con la mediazione del governo Trump, è stato firmato un accordo di pace tra la Repubblica democratica del Congo e il Ruanda. L’accordo, preceduto da negoziati tra le autorità congolesi e americane sull’estrazione di materie prime rare, è in linea con la logica del presidente Trump di barattare la pace con minerali strategici. È il governo del business man: Trump si dice disposto a porre fine all’aggressione del confinante Ruanda contro la Repubblica democratica del Congo a condizione che quest’ultima cooperi con gli Stati Uniti nell’estrazione delle risorse. È evidente che questo accordo, di cui Donald Trump tanto si vanta, altro non è che un canale d’accesso a minerali essenziali per gli Stati Uniti.

 

Le multinazionali non sono interessate a creare posti di lavoro a lungo termine né a pratiche minerarie sostenibili.
 

 

Un accordo del genere porterà inevitabilmente a una pace senza pane e a conflitti tra le grandi potenze sul suolo africano. Tanto più che le multinazionali che potrebbero insediarsi in Congo sono guidate dal principio della massimizzazione del profitto e quindi esporterebbero le materie prime estratte per lavorarle nei rispettivi Paesi. Non sono infatti interessate a creare posti di lavoro a lungo termine né a pratiche minerarie sostenibili.
 

Con il conflitto tra le grandi potenze che sta nascendo in territorio congolese – in particolare tra Unione Europea e Stati Uniti – si potrebbe ripetere quanto accaduto in Congo-Brazzaville nel 1997. In quella situazione, il governo democraticamente eletto fu rovesciato perché il presidente Lissouba aveva firmato accordi di estrazione petrolifera con imprese americane, a scapito di quelle francesi che avevano sede nel Paese da decenni. Queste ultime non esitarono allora a riarmare l’ex presidente Sassou-Nguesso, con l’obiettivo di rovesciare Pascal Lissouba. Scoppiò una guerra che causò centinaia di migliaia di vittime e altrettante persone sfollate interne e rifugiate. In seguito fu etichettata guerra etnica.
 

Un altro esempio è il mega-progetto lanciato dagli Stati Uniti e sostenuto dall’UE per costruire un collegamento ferroviario tra la Repubblica democratica del Congo e lo Zambia fino al porto di Lobito in Angola. Il progetto, inaugurato in Angola dall’ex presidente USA Joe Biden negli ultimi giorni del suo mandato, mira ad accorciare le vie di trasporto delle materie prime. Ricorda i progetti dell’epoca coloniale, quando strade e ferrovie non venivano costruite con lo scopo di collegare tra loro e sviluppare le colonie, ma per collegare le zone o le regioni minerarie con gli oceani e i mari e facilitare così il trasporto delle materie prime alle metropoli. 

 

I giovani chiedono riforme che pongano fine al saccheggio, affinché le materie prime smettano di essere una maledizione e portino prosperità e benessere alla popolazione

 

La giovane popolazione africana, che assiste ogni giorno alla partenza di migliaia di container pieni di queste ricchezze e li vede lasciare il continente per destinazioni lontane (Europa, USA, Canada, Cina...), chiede profonde riforme. Riforme che pongano fine al saccheggio, affinché le materie prime smettano di essere una maledizione e portino prosperità e benessere alla popolazione. In particolare, i profitti derivanti dalle riserve strategiche di minerali di transizione dovrebbero essere massimizzati a beneficio dei Paesi estrattori, in modo che possano migliorare le condizioni di vita e si riduca l’impatto sociale e ambientale dell’attività estrattiva. 
 

Responsabilizzare le imprese
 

È quindi giunto il momento di estrarre dai cassetti delle Nazioni Unite le misure internazionali pertinenti, come i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, le Linee guida OCSE per le imprese multinazionali e le linee guida del gruppo di esperti del Segretario generale delle Nazioni Unite sui minerali critici per la transizione energetica. 

 

Se la transizione energetica vuole essere giusta ed equa, dovrebbe pagare chi inquina e non chi ne subisce le spese. 

 

Impegni come l’iniziativa per multinazionali responsabili in Svizzera hanno urgente bisogno di sostegno. Il successo di iniziative simili dipende anche da una sufficiente sensibilizzazione della popolazione nei confronti dei drammi umani e dei danni ambientali provocati dall’industria mineraria in Africa. Tali iniziative sostengono la società civile nei Paesi africani, la quale si impegna giorno e notte ai fini di una maggiore responsabilità sociale e ambientale delle imprese minerarie. 
 

Quando si tratta di stipulare contratti sull’estrazione mineraria, spesso manca trasparenza e le comunità locali ne rimangono all’oscuro. Qui le multinazionali del settore si trovano in una chiara posizione di potere, e ovviamente la sfruttano appieno per calpestare i diritti della popolazione ed eludere qualsiasi buona prassi. Vengono ignorate le regole fondamentali della salute pubblica e lesi i diritti della popolazione locale. Con le loro pratiche causano inquinamento atmosferico e avvelenano le acque, provocando malattie spesso sconosciute alla popolazione, mietendo così vite umane e aggravando ulteriormente la crisi della salute pubblica. 
 

La popolazione africana è ancora in attesa che i Paesi del Nord ne riconoscano il ruolo. Un ruolo, quello dell’Africa, che merita finanziamenti a favore del clima e compensazioni per gli sforzi richiesti alla popolazione in termini di tutela dell’ambiente. Se la transizione energetica vuole essere giusta ed equa, dovrebbe pagare chi inquina e non chi ne subisce le spese. 
 

Global Logo

global

La rivista periodica di Alliance Sud viene pubblicata quattro volte all’anno (in tedesco e francese) ed è possibile abbonarsi gratuitamente. In «global» trovate analisi e commenti riguardanti la politica estera e di sviluppo del nostro Paese.

Medienmitteilung

La giustizia climatica al centro a Marrakech

27.10.2016, Giustizia climatica

Alla prima conferenza dell’ONU dopo Parigi si parlerà della promessa dei paesi industrializzati di aumentare i loro contributi ai paesi in via di sviluppo a 100 miliardi USD all’anno entro il 2020.

La giustizia climatica al centro a Marrakech

Comunicato

COP28: più finanziamenti per il Sud globale

27.11.2023, Giustizia climatica

La Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP28), che si terrà dal 30 novembre al 12 dicembre a Dubai, svolge un ruolo fondamentale affinché gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima possano ancora essere raggiunti. Per uno sviluppo nel Sud del mondo rispettoso del clima urge maggiore sostegno finanziario, anche da parte della Svizzera.

 

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

+41 31 390 93 42 delia.berner@alliancesud.ch
COP28: più finanziamenti per il Sud globale

Colata detritica in Perù. 

© Alberto Orbegoso

Dopo i 12 mesi più caldi degli ultimi 125 000 anni, le aspettative nei confronti della comunità internazionale alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici COP28 sono enormi. «È necessario correggere rapidamente la rotta se si vuole che l’obiettivo fissato nell’Accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius possa ancora essere raggiunto», dichiara Delia Berner, esperta in clima presso Alliance Sud, il centro di competenza svizzero per la cooperazione internazionale e la politica di sviluppo. «Per ogni decimo di grado di riscaldamento in più, aumenta la sofferenza delle persone più povere, le stesse che hanno contribuito meno alla crisi climatica». Alliance Sud chiede alla Svizzera di allineare la sua posizione negoziale ai bisogni delle popolazioni più povere del Sud globale.

A tre anni dall’inizio dell’attuazione dell’Accordo di Parigi gli Stati firmatari, nell’ambito del meccanismo di innalzamento delle ambizioni, negozieranno per la prima volta a Dubai il bilancio globale sull’attuazione dell’accordo. «Il successo della COP28 dipenderà da quanto le risoluzioni sul bilancio globale rifletteranno la triste realtà, ovvero che i piani nazionali di protezione del clima non sono complessivamente abbastanza ambiziosi per raggiungere gli obiettivi. Abbiamo assolutamente bisogno di piani concreti su come si possono colmare le lacune e quali processi sono previsti a tal fine», sottolinea Stefan Salzmann di Azione Quaresimale.

Una questione urgente verte sulla svolta del settore energetico e su chi la finanzia. Gli investimenti del settore privato non possono fare miracoli in questo senso. Finora non sono stati in grado di soddisfare le esigenze di finanziamento dei Paesi più poveri. Soprattutto i rischi più elevati o percepiti come tali inibiscono chi potrebbe investire. Inoltre, nei Paesi più poveri i finanziamenti privati per le misure di adattamento sono praticamente inesistenti.

Per una transizione energetica giusta...
La presidenza della COP28, gli Emirati Arabi Uniti, si sta concentrando sullo sviluppo delle energie rinnovabili, senza però al contempo impegnarsi a ridurre rapidamente i combustibili fossili. La transizione di cui abbiamo bisogno, tuttavia, deve includere entrambi gli elementi, poiché l’espansione delle rinnovabili non permette da sola di ridurre i gas serra.

«Nonostante l’urgenza di nuovi investimenti, non bisogna dimenticare le persone che lavorano nelle fabbriche e nei campi. Dobbiamo tenere d’occhio il loro benessere se vogliamo un cambiamento giusto», sottolinea Cyrill Rogger di Solidar Suisse. Annette Mokler di terre des hommes Svizzera aggiunge: «I gruppi di popolazione interessati e le comunità indigene devono essere direttamente coinvolti nei piani per un cambiamento giusto». Una cosa è già chiara: la transizione verso le energie rinnovabili nel Sud del mondo potrà funzionare solo se il sostegno finanziario, ovvero il finanziamento internazionale a tutela del clima, aumenterà significativamente.

...servono più finanziamenti climatici
Non mancano fondi solo per la decarbonizzazione: le lacune nell’adattamento alle mutate condizioni climatiche nel Sud del mondo si stanno ampliando. Secondo l’ultimo “Rapporto sul divario di adattamento 2023” del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, ogni miliardo di dollari investito nell’adattamento ai cambiamenti climatici preverrebbe 14 miliardi di dollari di danni econo¬mici. «Gli attuali finanziamenti climatici da parte dei Paesi industrializzati riescono a coprire meno di un decimo del fabbisogno finanziario per l’adattamento nel Sud globale. Ciò è problematico perché porta a danni sempre maggiori e a perdite più elevate», avverte Christina Aebischer di Helvetas.

Le questioni riguardanti il finanziamento determinano da anni il programma e i punti di discussione della conferenza sul clima. Non è una coincidenza, considerando che almeno 28 dei Paesi del Sud globale più colpiti dall’impatto della crisi climatica hanno anche gravi problemi di debito. Molti Paesi non sono in grado di finanziare misure di protezione del clima con il proprio bilancio perché al posto di farlo devono onorare il proprio debito, cadendo in un circolo vizioso.

Il fondo per i danni e le perdite va riempito
Quest’anno, la comunità internazionale intende deliberare sulle modalità del fondo cosiddetto Loss and Damage concordato nel 2022. L’attuale testo di compromesso elaborato da 30 Stati non prevede un carattere molto vincolante per quanto riguarda i contributi. Se rimane così, è ancora più importante che gli Stati inquinanti approfittino della conferenza per garantire la rapida istituzione e il riempimento del fondo. «I Paesi industrializzati sostengono che non ci sono soldi. Allo stesso tempo, le multinazionali traggono miliardi di profitti dai combustibili fossili e dalle industrie ad alta intensità di CO2. È ovvio che queste aziende devono contribuire a rimediare ai danni che causano», spiega Cybèle Schneider di Heks/Eper.

«Uno dei motivi principali per cui i negoziati sul sostegno finanziario al Sud globale sono così spinosi è la perdita di fiducia dei Paesi poveri nei confronti dei Paesi ricchi come la Svizzera», puntualizza Sonja Tschirren di SWISSAID, «perché i Paesi industrializzati non stanno pagando il conto precedente». Nel 2009 è stato deciso di stanziare 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020 per sostenere i piani di tutela del clima e di adattamento dei Paesi del Sud globale. Tuttavia, gli ultimi dati OCSE mostrano che questo obiettivo è stato mancato già di oltre 10 miliardi nel 2021. «La Svizzera e altri Paesi ricorrono a trucchi contabili per abbellire il loro contributo al finanziamento climatico», spiega Angela Lindt di Caritas Svizzera: «Invece di stanziare nuovi fondi, come concordato a livello internazionale, Paesi come la Svizzera stanno utilizzando principalmente fondi che erano stati stanziati per la riduzione della povertà. Non c’è da stupirsi che ci sia molta diffidenza nei negoziati». Alliance Sud chiede da anni che la Svizzera contribuisca con 1 miliardo di dollari all’anno al finanziamento climatico senza gravare sul bilancio della cooperazione internazionale.

Per ulteriori informazioni:

  • Alliance Sud, Delia Berner, esperta in politica climatica internazionale, tel. 077 432 57 46, delia.berner@alliancesud.ch
  • Azione Quaresimale, Stefan Salzmann, responsabile energia e giustizia climatica, tel. 041 227 59 53, salzmann@fastenaktion.ch. Stefan Salzmann è a Dubai come osservatore.
  • Solidar Suisse, Cyrill Rogger, Desk Officer Europa sudorientale, tel. 044 444 19 87, cyrill.rogger@solidar.ch
  • terre des hommes Svizzera, Annette Mokler, responsabile Politica di sviluppo e coordinamento programmi Sahara occidentale, tel. 061 335 91 53, annette.mokler@terredeshommes.ch
  • Helvetas, Katrin Hafner, coordinatrice delle relazioni con i media, tel. 044 368 67 79, katrin.hafner@helvetas.org. Christina Aebischer è a Dubai come osservatrice.
  • Heks/Eper, Cybèle Schneider, specialista in giustizia climatica, tel. 079 900 37 08, cybele.schneider@heks.ch
  • SWISSAID, Sonja Tschirren, esperta in clima e agricoltura ecologica, tel. 079 363 54 36, s.tschirren@swissaid.ch
  • Caritas Svizzera, Angela Lindt, responsabile Servizio Politica di sviluppo, tel. 041 419 23 95, alindt@caritas.ch

 

 

Articolo

I danni ci sono, i finanziamenti non ancora

24.11.2023, Giustizia climatica

La discussione su chi debba pagare per i danni e le perdite conseguenti al riscaldamento climatico va avanti da decenni. Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Dubai quest’anno, per la prima volta, si negoziano le modalità di pagamento. I risultati urgono.

Delia Berner
Delia Berner

Esperta in politica climatica internazionale

I danni ci sono, i finanziamenti non ancora

Una catastrofe nazionale che si ripete sempre più spesso: la siccità in Kenia.

© Ed Ram /Getty Images

«Nel mio Paese, il Kenia, è già la sesta volta di seguito che non arriva la stagione delle piogge». La sera del 22 giugno 2023, Elizabeth Wathuti parla a voce alta al microfono sul Champ de Mars a Parigi, per farsi sentire dalle migliaia di persone presenti. «Ciò ha causato perdite di raccolti, siccità prolungata e insicurezza alimentare. Ha aumentato enormemente i costi per la nostra agricoltura». Mentre la giovane attivista racconta gli effetti della crisi climatica sullo sfondo della Tour Eiffel e chiede giustizia climatica insieme ad altre e altri che come lei tengono un discorso, il Presidente francese Emmanuel Macron riceve i suoi ospiti da tutto il mondo a un banchetto nel vicino Palais. Per tutta la giornata, su invito di Macron, nell’ambito di un vertice internazionale avevano discusso delle sfide e dei modi per aumentare i finanziamenti a favore dello sviluppo sostenibile nel Sud globale. Il risultato: se ne ridiscuterà alla prossima conferenza.

Il finanziamento internazionale a tutela del clima, che ha come scopo la riduzione delle emissioni di gas serra e l’adattamento al riscaldamento climatico nel Sud del mondo, è da anni legato all’impegno che sono tenuti a dimostrare secondo il diritto internazionale i Paesi industrializzati mediante i loro contributi all’obiettivo di finanziamento collettivo di 100 miliardi di dollari all’anno. Tuttavia, la mancanza di volontà politica negli Stati che causano la crisi climatica ha fatto sì che questa somma non sia mai stata raggiunta.

Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di novembre 2022 (COP27) a Sharm el-Sheikh, gli Stati del Sud globale sono riusciti per la prima volta a negoziare il finanziamento dei danni e delle perdite dovuti al clima, anche grazie a decenni di sostegno da parte delle organizzazioni della società civile di tutto il mondo. Eppure già da anni i danni e le perdite si aggirano sui miliardi (le stime variano a seconda della definizione) e colpiscono maggiormente le persone che hanno meno mezzi per prepararsi o adattarsi ai cambiamenti climatici. Inoltre, in Paesi già fortemente indebitati i danni e le perdite portano a un ulteriore indebitamento. L’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) distingue tra danni o perdite derivanti da eventi graduali (ad esempio l’innalzamento del livello del mare) ed eventi improvvisi (ad esempio tempeste e inondazioni). Oltre alle perdite e ai danni quantificabili a livello economico, si verificano anche danni non quantificabili, come i danni ai beni culturali o agli ecosistemi.

Alla conferenza COP28 di quest’anno a Dubai, il finanziamento “Loss and Damage” sarà uno dei principali temi delle trattative. Le parti contraenti, infatti, si sono date un anno fa il compito di adottare nel 2023 disposizioni più dettagliate su come dovranno essere finanziati danni e perdite. La discussione si limita ai Paesi particolarmente vulnerabili alle conseguenze della crisi climatica. A tal fine dovrebbe essere costituito un fondo ONU a cui contribuiscono gli Stati inquinanti. In questo contesto, si sta discutendo di fonti di finanziamento globali innovative, con le quali si potrebbero far pagare anche attori privati secondo il principio del “chi inquina paga”. «Se tali proposte saranno accettate, potrebbero dover contribuire al finanziamento anche le imprese ad alta intensità di emissioni di tutto il mondo», scrive Robin Poëll, portavoce dell’UFAM, su richiesta di Alliance Sud. Tuttavia, la probabilità che una tale imposta globale a favore del fondo ONU si avveri per ora non è molto alta. In attesa di ciò, la Svizzera potrebbe dare il buon esempio e vagliare l’introduzione di un’imposta di questo tipo almeno sulle imprese che danneggiano il clima in Svizzera, in modo tale da risarcire le perdite e i danni nel Sud globale.

La perdita di fiducia complica le trattative

Il vero pomo della discordia alla conferenza sul clima, tuttavia, sarà probabilmente quello di stabilire quali Paesi debbano versare capitali nel fondo e verso quali Paesi il denaro debba affluire. Per stabilirlo, occorre definire o meglio negoziare quali Paesi sono da considerare particolarmente vulnerabili. Per quanto riguarda la questione ancora più politica di chi debba pagare in quanto Stato inquinante, la responsabilità storica della crisi climatica, chiaramente attribuibile ai Paesi industrializzati, va combinata con l’attuale confronto delle emissioni di gas serra tra i Paesi; in quest’ultimo, i maggiori Paesi emergenti presentano una quota maggiore. I Paesi donatori che finora hanno sostenuto gli obiettivi di finanziamento climatico sono stati definiti nel 1992. La Svizzera intende ora fare in modo che un maggior numero di Paesi debba versare il proprio contributo al fondo. Secondo il portavoce dell’UFAM, «la Svizzera auspica che i Paesi che contribuiscono maggiormente a causare il cambiamento climatico e hanno le capacità necessarie siano tenuti a impegnarsi. Ciò significa, in concreto, che dovrebbero contribuire al finanziamento anche le economie emergenti benestanti con emissioni elevate di gas serra nonché gli attori privati».

Tuttavia, la Svizzera e altri Paesi donatori del Nord globale finora su questo punto si sono scontrati con la resistenza del Sud del mondo. Poiché i Paesi industrializzati non hanno mantenuto le loro promesse di finanziamento, non hanno la credibilità necessaria in termini di giustizia climatica. La Svizzera, ad esempio, non ha calcolato la propria “quota equa” di finanziamento climatico in base alla propria impronta climatica complessiva, ma solo in base alle emissioni sul territorio nazionale. Per non parlare del mancato raggiungimento dell’obiettivo climatico che consisteva nel ridurre le emissioni del 20% entro il 2020. La perdita di fiducia tra Nord e Sud, in ultima analisi, complica anche le trattative in merito a obiettivi climatici più ambiziosi e all’abbandono graduale dei combustibili fossili. I Paesi del Sud globale però devono poter garantire i loro finanziamenti per le energie rinnovabili, per non rimanere emarginati globali.

Il tempo stringe, i danni e le perdite sono già tangibili e in continuo aumento. Anche perché, secondo il rapporto mondiale sul clima, la carenza di finanziamenti per l’adattamento al riscaldamento globale è sempre maggiore. E in ogni caso, le persone non possono adattarsi a qualsiasi cambiamento. Il ministro degli Esteri della nazione insulare del Pacifico Tuvalu l’ha ricordato lasciando un’impressione indelebile quando, poco prima della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Glasgow nel 2021, senza esitare si è arrotolato i pantaloni, ha piazzato il suo leggio in acqua e ha tenuto un discorso per richiamare l’attenzione sull’innalzamento del livello del mare.

A Glasgow, Elizabeth Wathuti si è rivolta al mondo intero in occasione dell'apertura della conferenza sui cambiamenti climatici: «Entro il 2025, metà della popolazione mondiale sarà confrontata con problemi di scarsità idrica. E prima dei miei cinquant’anni la crisi climatica avrà fatto sfollare 86 milioni di persone nella sola Africa subsahariana». Nessuna conferenza può porre fine alla crisi climatica da un giorno all’altro. Ma rimediare finanziariamente ai danni e alle perdite già avvenuti è assolutamente necessario.

elizabeth_wathuti.jpg

© Karwai Tang

Elizabeth Wathuti, giovane attivista per il clima

Opinione

Dopo Glasgow, la Svizzera deve accelerare!

06.12.2021, Giustizia climatica

La dichiarazione finale della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici non è la fine della strada: la crisi climatica si aggrava e il budget della Svizzera sta per finire. L'analisi di Stefan Salzmann, esperto di Azione Quaresimale.

Dopo Glasgow, la Svizzera deve accelerare!

La crisi climatica sta già minacciando l'esistenza degli stati insulari. Ecco perché il ministro degli Esteri di Tuvalu ha inviato un messaggio alla COP26 in un ambiente speciale: a Funafuti, proprio nell'Oceano Pacifico.
© EyePress via AFP

Grandine e pioggia durante l’estate in Svizzera, caldo in Canada, incendi in Grecia e in Russia, siccità in Iran: il recente rapporto d’agosto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico ha attestato che l’allerta era rossa. Gli specialisti del clima affermano senza giri di parole che l’ampiezza del riscaldamento climatico antropico è senza precedenti da diversi secoli, o addirittura da millenni. La frequenza e l’intensità delle canicole e delle forti precipitazioni, come pure le aridità agricole ed ecologiche, aumenteranno e si assoceranno sempre più spesso. I cambiamenti già osservati attualmente si amplificheranno diventando irreversibili. Ogni decimo di grado in più della temperatura media mondiale fa la differenza, in particolare per le persone più povere e più vulnerabili del pianeta.

Confrontando gli obiettivi dell’accordo di Parigi alle promesse fatte, il rapporto d’ottobre del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) ha appurato che gli obiettivi presentati dai diversi Paesi portano il pianeta verso un riscaldamento di 2,7°C. E parallelamente, scrive ancora l’UNEP, mancano sempre delle risorse finanziarie sufficienti per le misure d’adattamento nei Paesi poveri: i bisogni sono fino a dieci volte superiori ai fondi che le nazioni industrializzate, all’origine della crisi, mettono a disposizione.

La volontà c’è, ma nessuno traccia la strada da seguire

Sotto questi auspici, gli organizzatori britannici della 26ª Conferenza mondiale sul clima hanno dimostrato tanta buona volontà. Durante la prima settimana d’incontri, sono state annunciate quasi quotidianamente delle nuove iniziative mondiali: l’iniziativa di transizione mondiale dal carbone verso l’energia pulita, l’iniziativa volta a frenare la deforestazione mondiale o ancora quella delle reti verdi (Green Grids Initiative), per non citarne che alcune. L'Agenzia internazionale dell’energia ha calcolato con una certa euforia che questi sforzi potrebbero portare a un riscaldamento planetario di solo 1,8 gradi, nella misura in cui tutte le promesse venissero mantenute. Ed è proprio qui che sta il problema: nessuna di queste iniziative è accompagnata da un piano d’attuazione. I Paesi che prendono questi impegni sono gli stessi che non sono riusciti a fornire il finanziamento climatico promesso nel 2009 per il 2020.  E se delle nazioni come il Brasile firmano l’iniziativa sulla deforestazione, ciò può apparire come un barlume di speranza, ma in termini di realpolitik, è più probabilmente una condanna a morte per questo piano ambizioso che, come tutti gli altri piani ambiziosi, lascia la sua attuazione alle misure politiche volontarie delle singole nazioni.

E la Svizzera?

Anche la Svizzera è sotto pressione: dopo che anche il piccolo passo della legge riveduta sul CO2 è stato giudicato troppo grande dalla maggioranza della popolazione nel giugno 2021, la delegazione guidata dall’Ufficio federale dell’ambiente s’è recata a Glasgow senza una base legale concreta. Anche qui, tutte le trattative sulla ricerca del finanziamento in ambito climatico si sono arenate. Per dei motivi a prima vista comprensibili: anche i Paesi emergenti ricchi devono implicarsi nel finanziamento del clima e non è accettabile che la Cina e Singapore si facciano passare per dei Paesi in via di sviluppo e non vogliano sborsare nulla. Ma quando si è una delle nazioni più ricche del mondo, addurre simili argomenti non serve a niente per coloro le cui basi d’esistenza dipendono da queste decisioni – come i più poveri e i più vulnerabili del pianeta. Per loro, i negoziati bloccati, poco importa da chi, sono sinonimo di disperazione, di sofferenze e di strategie di sopravvivenza precarie.

Perdite e danni

Sono in gioco le basi esistenziali di molte persone, e per qualcuno queste basi sono già ridotte all’osso. Nel gergo tecnico, le «perdite e i danni» designano i problemi irreversibili causati dal riscaldamento planetario: sono le conseguenze climatiche che oltrepassano la capacità d’adattamento dei Paesi, delle comunità e degli ecosistemi. Una casa persa da una famiglia a causa dell’innalzamento del livello del mare è inghiottita per sempre. Questi danni e perdite sono già una realtà oggi e cresceranno ulteriormente per ogni decimo di grado di temperatura in più. Per questo motivo la società civile ha fatto di questa questione una priorità assoluta a Glasgow.

Budget climatico della Svizzera: presto esaurito

La Svizzera fa parte dei Paesi più ricchi e storicamente ha emesso delle quantità considerevoli di gas a effetto serra. Proprio per questo motivo sarebbe opportuno che aiuti gli altri a riparare i danni già causati. In settembre, degli specialisti in etica sociale appartenenti a dieci istituzioni ecclesiastiche hanno discusso su un budget residuo di CO2 compatibile con la protezione del clima. Appoggiandosi su dati approvati scientificamente, hanno calcolato la parte di gigatonnellate di CO2 ancora disponibili a livello mondiale alla quale la Svizzera avrebbe diritto se intende avere un comportamento che sia rispettoso del clima. Hanno fatto ciò che i climatologi non possono fare: hanno ponderato e interpretato i calcoli dei modelli dal punto di vista morale. Ne è scaturito che la quantità residua di CO2, compatibile con la preservazione del clima, sarà esaurita nella primavera 2022. Un’ulteriore prova che la strategia del Consiglio federale, che mira a un tasso netto d’emissioni di gas a effetto serra nullo entro il 2050, non ha più nulla a che vedere con la giustizia.

E adesso?

È in occasioni come la Conferenza sul clima di Glasgow che la Svizzera ufficiale dovrebbe provare che la giustizia le sta a cuore. Uno dei modi più semplici per riuscirci è quello di mettere a disposizione di altri Paesi delle risorse finanziarie: dei fondi supplementari che alimentano il credito di sviluppo per le misure d’attenuazione e d’adattamento. E più capitali per indennizzare le perdite e i danni già occorsi. Le basi per tali mandati di negoziato sono state poste a livello nazionale durante la fase preparatoria. Lo stesso dicasi per gli obiettivi climatici nazionali, che devono essere più ambiziosi, anche in Svizzera, se si vuole ancora raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima. I dibattiti sul controprogetto indiretto all’iniziativa sui ghiacciai, nonché il rilancio della revisione della legge sul CO2 sono un’ultima possibilità, prima che sia troppo tardi: l’obiettivo dello zero netto entro il 2040 al più tardi, una traiettoria di riduzione lineare entro quella data e un abbandono coerente degli agenti energetici fossili sono tutti da considerare come imperativi.

Stefan Salzmann è copresidente dell’Alleanza climatica svizzera e incaricato del programma per la giustizia climatica presso Sacrificio Quaresimale.

Politica climatica internazionale

Politica climatica internazionale

Ogni anno in novembre, durante la Conferenza sul clima dell’ONU (COP), i governi di tutti gli Stati discutono su come procedere nell’attuazione dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015. La comunità mondiale rischia infatti di mancare l’obiettivo dell’accordo: limitare il riscaldamento globale a un massimo di 1,5°C. 

Di cosa si tratta > 

Publikationstyp

Di cosa si tratta

Affinché gli obiettivi dell’Accordo di Parigi vengano rispettati, le emissioni di gas serra vanno ridotte drasticamente entro il 2030 e portate a zero a livello mondiale entro il 2050. In realtà le emissioni globali continuano però ancora ad aumentare. Per attuare l’Accordo sul clima, vanno quindi definiti degli obiettivi intermedi e delle misure comuni, come pure il loro finanziamento.  

La Svizzera partecipa attivamente ai negoziati. Alliance Sud chiede che la posizione negoziale del nostro Paese consideri la responsabilità storica degli Stati industrializzati e che accetti finanziamenti equi e adeguati per il Sud globale, in particolare per coprire danni e perdite. Solo allora ci si potrà aspettare che tutti gli Stati contribuiscano il più possibile alla riduzione delle emissioni grazie a una politica climatica nazionale ambiziosa.

Alliance Sud è membro del Climate Action Network (CAN), una rete mondiale che s’impegna per la protezione climatica e la giustizia sociale e include oltre 1'900 organizzazioni della società civile.